Sentenza di Cassazione Penale Sez. 5 Num. 19400 Anno 2025
Penale Sent. Sez. 5 Num. 19400 Anno 2025
Presidente: COGNOME
Relatore: NOME COGNOME
Data Udienza: 21/02/2025
SENTENZA
sui ricorsi proposti da: COGNOME NOME nato a ALCAMO il 30/01/1956 COGNOME nato a ALCAMO il 06/06/1987
NOME nata a ALCAMO il 07/08/1983
avverso il decreto del 08/05/2024 della CORTE APPELLO di PALERMO
visti gli atti, il provvedimento impugnato e il ricorso; udita la relazione svolta dal Consigliere COGNOME
letta la requisitoria a firma del Sostituto Procuratore generale NOME COGNOME che ha chiesto di rigettare il ricorso.
RITENUTO IN FATTO
Con il decreto impugnato, emesso 1’8 maggio 2024, la Corte di appello di Palermo – Sezione Misure di prevenzione – ha confermato il provvedimento con il quale il Tribunale di Palermo aveva rigettato l’istanza di revoca della confisca, disposta nei confronti di COGNOME, con provvedimento del Tribunale di Trapani
emesso il 12 dicembre 2012, parzialmente riformato con decreto della Corte di appello del 29 giugno 2015.
Avverso il decreto, con atto del 10 giugno 2024, COGNOME ha proposto ricorso per cassazione, a mezzo del proprio difensore di fiducia.
2.1. Con un primo motivo, deduce i vizi di motivazione e di erronea applicazione della legge penale, in relazione agli artt. 1 e 7 legge n. 1423/1956 e 7 Cedu.
La parte rappresenta che la Corte di appello di Palermo, con il provvedimento del 29 giugno 2015, aveva disposto la confisca, in ragione dell’accertata pericolosità sociale generica (ex art. 1, n. 2, legge n. 1423 del 1956), relativa al periodo di tempo 2006-2010.
I presupposti della confisca, tuttavia, sarebbero venuti meno per effetto di due sentenze sopravvenute, pronunciate dal Tribunale di Trapani e dal Tribunale di Avellino, nei confronti del Nicastri. Il Tribunale di Trapani, invero, con sentenza del 9 gennaio 2019, «aveva escluso i reati contestati, ai sensi degli artt. 4 e 5 del d.lgs. n. 74 del 2000, come apprezzati nel giudizio di prevenzione, in ragione della riveduta pretesa erariale, originariamente esposta per oltre 10 milioni di euro», e «ridotta, in sede di conciliazione, ad euro 2.632.395,00». Il Tribunale di Avellino, con sentenza del 3 ottobre 2020, aveva «assolto il COGNOME dal contestato reato di associazione per delinquere, finalizzata alla commissione di plurimi reati di truffa per l’ottenimento di finanziamenti ex legge n. 488/92».
Il ricorrente sostiene che le suddette pronunce di proscioglimento si porrebbero «in rapporto di assoluta inconciliabilità con la ricostruzione dei fatti» che, nel 2015, aveva giustificato il giudizio relativo alla pericolosità sociale e al sproporzione tra le risorse economiche nella disponibilità del preposto e le sue entrate di origine lecita.
Nel provvedimento impugnato, invece, la Corte di appello, inopinatamente, ha ritenuto che: i fatti oggetto delle sentenze di proscioglimento invocate dalla difesa avessero assunto un rilievo molto limitato nella valutazione che aveva portato all’adozione dell’originario provvedimento applicativo della misura; le pronunce di proscioglimento non avessero una valenza tale da escludere l’esistenza dei presupposti della confisca, in ragione delle vicende relative ad altri procedimenti penali, per fatti commessi dal COGNOME dal 1988 al 1992 e per «una vicenda definita dal Tribunale di Milano», per fatti commessi tra il 2006 e il 2010.
Il ricorrente contesta tali affermazioni, sostenendo che, da una lettura attenta del provvedimento emesso nel 2015, emergerebbe che, all’epoca, la Corte di appello avrebbe riservato la valutazione di scarsa rilevanza ai fatti di mera elusione
e non a quelli di evasione fiscale, che erano stati oggetto della sentenza di proscioglimento del Tribunale di Trapani.
Con specifico riferimento a quest’ultima sentenza, il ricorrente sostiene che l’imputato e i suoi familiari sarebbero stati assolti, perché il fatto non sussiste, da reati previsti dagli art. 4 e 5 d.lgs. n. 74 del 2000 e che, solo in relazione ad alcuni fatti loro contestati, sarebbero stati prosciolti per estinzione del reato dovuta a prescrizione. La Corte di appello, tuttavia, avrebbe inopinatamente enfatizzato la parte della sentenza riguardante la prescrizione e non avrebbe tenuto conto della motivazione della sentenza, dalla quale emergerebbe che, a seguito della procedura conciliativa portata avanti con l’Agenzia delle entrate, l’imposta complessivamente evasa sarebbe stata rideterminata nella più modesta somma di euro 2.632.395,00 e, in relazione ai singoli anni di imposta, in misura inferiore alle soglie minime di punibilità. Sotto tale profilo, il ricorrente sostiene che la stessa sentenza del Tribunale di Trapani, nella parte relativa alla prescrizione, sarebbe «distonica rispetto all’affermazione circa l’insussistenza del reato contestato per il 2006, 2007, 2008 e 2009, in ragione del mancato superamento delle soglie minime». L’erroneità della pronuncia di estinzione del reato risulterebbe ancor più evidente considerando «che, sulla base del medesimo ragionamento, la stessa sentenza aveva assolto l’imputato perché il fatto non sussiste, in relazione alle condotte del 2010».
I fatti accertati nell’ambito del procedimento penale celebrato davanti al Tribunale di Trapani sarebbero inconciliabili con le valutazioni effettuate in sede di prevenzione e avrebbero imposto alla Corte di appello di Palermo di revocare la misura. Il procedimento di prevenzione, invero, pur essendo autonomo, non sarebbe «insensibile» all’accertamento penale.
Il ricorrente, inoltre, sostiene che la Corte di appello avrebbe imperniato la propria decisione sulla verifica della “resistenza” del giudizio di pericolosità sociale generica rispetto alle pronunce di assoluzione allegate dalla difesa, ritenendo invece un mero elemento di contorno la questione della sproporzione tra i beni nella disponibilità del preposto e le sue entrate lecite. In tal modo, trascurando l’incidenza, rispetto all’originario provvedimento applicativo della misura, del carattere di liceità assegnato dal Tribunale di Trapani «alla somma di 8 milioni di euro».
La Corte di appello di Palermo non avrebbe colto che la «prova nuova dell’istanza di revoca» non investiva il giudizio di pericolosità quanto «piuttosto il giudizio circa la ritenuta sproporzione» tra i beni nella disponibilità del preposto e le sue entrate lecite. Il «concetto di novità», infatti, riguarderebbe il carattere liceità riconosciuto alla somma di circa otto milioni di euro. L’incidenza di tale circostanza rispetto alla confisca sarebbe evidente, atteso che la perizia all’epoca
espletata avrebbe evidenziato una sproporzione tra i beni nella disponibilità del preposto e le sue entrate lecite che risulterebbe «totalmente assorbita» dagli otto milioni di euro.
2.2. Con un secondo motivo, deduce l’erronea applicazione della legge penale, in relazione agli artt. 11-ter decreto-legge n. 92 del 2008 e 7 CEDU.
Il ricorrente sostiene che tutti i beni oggetto di confisca sarebbero stati acquistati in un momento (ricompreso tra il 1990 e il 2008) in cui era vigente l’articolo 14 della legge n. 55 del 1990, che aveva limitato la possibilità di disporre la confisca ai soli casi di pericolosità qualificata.
Palese, pertanto, sarebbe l’illegalità del provvedimento che aveva sostanzialmente applicato retroattivamente l’art. 11-ter del decreto-legge n. 92 del 2008, che, abrogando l’art. 14 della legge n. 55 del 1990, aveva di fatto pienamente ripristinato l’art. 19 della legge n. 152 del 1975, riespandendo la possibilità di confisca a tutti i casi di pericolosità generica.
Il ricorrente sostiene che la Corte di appello – nel superare tali profili d illegalità, facendo riferimento alla natura non penale delle misure di prevenzione patrimoniali e alla conseguente inapplicabilità ad esse del principio di irretroattività – avrebbe dimostrato di non aver colto l’effettiva portata della sentenza della Corte costituzionale n. 24 del 2019, nella parte in cui condiziona l’applicazione delle misure di prevenzione alla possibilità per i consociati di prevedere ragionevolmente in anticipo in quali casi essi potranno essere sottoposti alla misura di prevenzione della sorveglianza speciale nonché alle misure di prevenzione patrimoniali del sequestro e della confisca.
Sotto altro profilo, il ricorrente sostiene che il divieto di irretroattivit prescindere dalla natura penale o meno delle misure di prevenzione, discenderebbe dall’art. 11 delle preleggi, che, in difetto di espressa deroga, dovrebbe trovare applicazione in tutti i settori dell’ordinamento giuridico.
In data 15 luglio 2024, COGNOME NOME è deceduto e, con atto del 10 ottobre 2024, i suoi figli NOME e NOMECOGNOME nella qualità di eredi dell’originar ricorrente, si sono costituiti, dichiarando di volere proseguire il procedimento iniziato dal genitore.
Il Procuratore generale, nella sua requisitoria scritta, ha chiesto di rigettare il ricorso.
L’avv. COGNOME nell’interesse degli eredi dell’originario ricorrente, ha depositato memorie di replica alla requisitoria scritta del Procuratore generale.
CONSIDERATO IN DIRITTO
1. In limine, occorre precisare che, come si deduce dal decreto del Tribunale di Trapani, la proposta applicativa della misura era stata presentata prima dell’entrata in vigore delle norme introdotte con il d.lgs. n. 159 del 2011, sicché, in forza della norma transitoria di cui all’art. 117 di tale decreto legislativo, disciplina di riferimento del caso di specie deve essere rinvenuta nella “vecchia” normativa in materia. Al riguardo, la giurisprudenza di legittimità – proprio in tema di applicabilità del nuovo istituto della revocazione ex art. 28 d.lgs. n. 159 del 2011 ovvero della revoca ai sensi dell’art. 7 della legge 27 dicembre 1956, n. 1423 – ha affermato che «l’applicazione della nuova disciplina non possa avvenire in tutti i casi in cui la “proposta applicativa” da cui è sorto il procedimento “in quanto tale” sia stata formulata prima del 13 ottobre 2011 e ciò anche nelle ipotesi in cui il procedimento sia nel frattempo definito e si discuta della revoca del provvedimento emesso» (Sez. 1, n. 2945 del 17/10/2013, COGNOME Rv. 258599; Sez. 1, n.33782 del 08/04/2013, COGNOME, Rv. 257116).
Lo stesso COGNOME d’altronde, sia nel ricorso per cassazione che nell’atto di appello, fa correttamente riferimento all’art. 7 della legge 27 dicembre 1956, n. 1423.
Sempre in via preliminare, va riconosciuto agli eredi del COGNOME il diritto di proseguire il procedimento istaurato dal loro genitore, deceduto successivamente alla proposizione del ricorso per cassazione.
Al riguardo, deve essere osservato che, in materia di procedimento applicativo delle misure di prevenzione, il comma 6-bis dell’art. 2-bis della legge 31 maggio 1965 n. 575 – applicabile al caso in esame – prevedeva che «le misure patrimoniali possono essere disposte anche in caso di morte del soggetto proposto per la loro applicazione. Nel caso la morte sopraggiunga nel corso del procedimento, esso prosegue nei confronti degli eredi o comunque degli aventi causa».
Va, peraltro, rilevato che anche la disciplina attualmente vigente prevede una norma di analogo contenuto. L’art. 18, comma 2, del d.lgs. n. 159 del 2011, infatti, prevede che «le misure di prevenzione patrimoniali possono essere disposte anche in caso di morte del soggetto proposto per la loro applicazione. In tal caso, il procedimento prosegue nei confronti degli eredi o comunque degli aventi causa».
Dalle norme riportate emerge con evidenza che, in materia di misure di prevenzione patrimoniale, l’ordinamento prevedeva e tutt’ora prevede che il procedimento, in caso di decesso del preposto, prosegua nei confronti degli eredi. Tale previsione è chiaramente legata alla natura non penale, ma patrimoniale delle
misure in questione. Sotto tale profilo, va ricordato che la Corte costituzionale, con la sentenza numero 24 del 2019, ha ribadito che le misure in questione non costituiscono una sanzione, ma sono la naturale conseguenza dell’illecita acquisizione dei beni, la quale determina un vizio genetico nella costituzione del diritto di proprietà in chi ne abbia acquisito la materiale disponibilità. Insito procedimento applicativo delle misure è anche l’accertamento della sussistenza di quel vizio genetico nella costituzione del diritto di proprietà. In coerenza con tale profilo, il legislatore ha previsto, in maniera per certi versi analoga al processo civile, che il procedimento possa, in caso di decesso del diretto interessato, proseguire nei confronti dei suoi eredi. Appare coerente, allora, conseguentemente ritenere che la prosecuzione del procedimento, in caso di decesso, possa operare anche quando l’interesse alla prosecuzione sia non della parte pubblica, ma degli eredi. Una diversa soluzione sarebbe ingiustificata e poco coerente con la suddetta ricostruzione. E un interesse degli eredi alla prosecuzione del procedimento di prevenzione, chiaramente, può esservi (solo) quando già sia intervenuto il provvedimento applicativo della misura e gli eredi abbiano interesse a impugnare tale provvedimento o a continuare l’impugnazione presentata dall’originario proposto, costituendosi regolarmente, in qualità di successori.
In tal senso, va ricordato che, proprio con riferimento a una fattispecie in relazione alla quale doveva trovare applicazione la vecchia normativa, questa Corte ha già affermato che, «in tema di misure di prevenzione patrimoniale, l’impugnazione avverso il provvedimento ablativo presentata dall’erede del proposto è legittimamente coltivabile, dopo la morte, anche dai suoi eredi ritualmente costituitisi nel relativo giudizio» (Sez. 5, n. 3219 del 28/09/2011, COGNOME, Rv. 252986; cfr., anche, Sez. U, n. 12621 del 22/12/2016, COGNOME, Rv. 270082).
Appare coerente con la ricostruzione sopra fatta della natura delle misure di prevenzione patrimoniali e dell’oggetto dell’accertamento dei procedimenti in materia, ritenere che il principio sopra affermato debba essere esteso anche all’ipotesi in cui non si tratti di continuare l’impugnazione del provvedimento applicativo della misura, ma di continuare il procedimento con il quale, ai sensi dell’art. 7 legge n. 1423 del 1956, si era chiesta la revoca della misura patrimoniale.
Pertanto, a seguito della prosecuzione, gli eredi hanno assunto la qualifica di ricorrenti in luogo dell’originario ricorrente medio tempore deceduto.
I ricorsi devono essere rigettati.
3.1. Il primo motivo è inammissibile.
Va premesso che, in tema di procedimento di prevenzione, ai sensi degli artt. 10 e 27 d.lgs. n. 159 del 2011, il ricorso per cassazione è ammesso solo per
violazione di legge, nozione che ricomprende la motivazione inesistente o meramente apparente del provvedimento impugnato (cfr. Sez. 6, n. 21525 del 18/06/2020, Mulè, Rv. 279284; Sez. 6, n. 33705 del 15/06/2016, COGNOME, Rv. 270080; Sez. 1, n. 6636 del 7/01/2016, COGNOME, Rv.266365). Limitazione già prevista dalla previgente normativa in materia: «nel procedimento di prevenzione, secondo il disposto dell’art. 4 legge 27 dicembre 1956, n. 1423, richiamato dall’art. 3-ter, secondo comma, legge 31 maggio 1965, n. 575, il ricorso per cassazione è ammesso soltanto per violazione di legge, nozione nella quale va ricompresa la motivazione inesistente o meramente apparente del provvedimento, che ricorre quando il decreto omette del tutto di confrontarsi con un elemento potenzialmente decisivo prospettato da una parte che, singolarmente considerato, sarebbe tale da poter determinare un esito opposto del giudizio» (Sez. 6, n. 33705 del 15/06/2016, COGNOME, Rv. 270080).
Tanto premesso, va rilevato che, nel caso in esame, le censure della parte ricorrente “attaccano” la motivazione del provvedimento impugnato, che, però, non appare privo di motivazione o corredato da motivazione apparente.
L’originario ricorrente, in estrema sintesi, lamenta l’inadeguata valutazione delle sentenze di proscioglimento del Nicastri, pronunciate dal Tribunale di Trapani e dal Tribunale di Avellino, dalle quali, a suo dire, emergerebbero degli elementi idonei a far venir meno completamente i presupposti della confisca.
Ebbene, contrariamente a quanto sostenuto dalla parte ricorrente, la Corte di appello ha rigorosamente valutato le sentenze in questione e le ha confrontate con la motivazione dell’originario provvedimento di confisca, ritenendo, all’esito di tale comparazione, che non siano venuti meno i presupposti dell’applicazione della misura di prevenzione patrimoniale.
In particolare, quanto alla sentenza del Tribunale di Trapani, la Corte di appello ha rilevato che essa si era limitata a dichiarare la prescrizione dei reati fiscali, relativamente agli anni di imposta 2006-2009, e ad assolvere gli imputati, ai sensi del capoverso dell’art. 530 cod. proc. pen., relativamente all’anno d’imposta 2010. Ha, inoltre, evidenziato che: relativamente all’anno di imposta 2007, l’ammontare dell’imposta evasa, pur dopo la rideterminazione operata in sede conciliativa con l’Agenzia delle entrate, restava superiore alla soglia di punibilità; relativamente all’anno di imposta 2006, l’Agenzia delle entrate non aveva proceduto alla rideterminazione dell’originario importo dell’imposta evasa, che, come si evinceva dalle imputazioni, risultava superiore alla soglia di punibilità. Con riferimento a due delle annualità in questione, dunque, contrariamente a quanto asserito dalla parte, la soglia di punibilità di rilevanza penale del fatto risultava superata. Quanto al presunto errore nel quale sarebbe caduto il Tribunale di Trapani nel pronunciare l’estinzione del reato, anziché l’assoluzione nel merito,
va rilevato che la deduzione si presenta generica e assertiva, atteso che la parte ricorrente non ha dedotto neppure di avere impugnato la sentenza in questione, con riferimento alla formula di proscioglimento.
Quanto alla sentenza del Tribunale di Avellino, la Corte di appello ha rilevato che il COGNOME era stato assolto, ai sensi del capoverso dell’art. 530 cod. proc. pen., in relazione a fatti che non avevano assunto particolare rilievo nella valutazione che aveva portato all’adozione dell’originario provvedimento di confisca, anche perché, all’epoca del procedimento applicativo della misura di prevenzione, erano ancora oggetto di indagine.
Più in generale, la Corte di appello ha ritenuto che gli specifici fatti oggetto delle due sentenze assumevano una limitata valenza rispetto ai ben più ampi fatti ai quali, nel 2015, era stata ancorata la pericolosità sociale generica del Nicastri. A tal fine, la Corte di appello ha ricostruito in maniera analitica tutte le vicende poste a base del provvedimento applicativo della misura di prevenzione (cfr. pagine 7 e ss. del provvedimento impugnato): reati di corruzione, di truffa e di falso, oggetto di un procedimento penale relativo a fatti compresi tra il 1989 e il 1992, conclusosi con l’applicazione della pena su richiesta delle parti; fatti emersi nell’ambito del procedimento a carico di NOME, “utilizzato” dal Nicastri, a partire dal 1995, in complesse operazioni di trasferimento di ingenti somme in «paradisi fiscali»; fatti relativi a false fatturazioni, relative agli anni di impo 1999, 2000 e 2001, oggetto di procedimento definito con archiviazione, a seguito di condono ex art. 15 decreto-legge n. 289 del 2002; fatti relativi alla società “RAGIONE_SOCIALE” (costituita, nel 2006, in Lussemburgo, dal Nicastri), implicata in un’imponente evasione fiscale, in relazione alla quale il preposto era stato condannato per i reati di truffa aggravata e per il delitto di cui all’art. 5, d.lgs. 74 del 2000, commessi nel 2007 e nel 2008 (specifica vicenda che era stata particolarmente valorizzata nel decreto applicativo della misura); fatti che avevano condotto a disporre la custodia cautelare in carcere nei confronti del Nicastri, per i reati di tentata concussione e di corruzione («vicende avviate nel 2004 e proseguite sino al 2008»); fatti relativi alla vendita delle quote della società “RAGIONE_SOCIALE“, con «la correlata sottrazione al fisco delle relative imposte»; reati di abuso d’ufficio e di corruzione emersi nelle intercettazioni disposte dall’autorità giudiziaria nel 2010, «correlati ai rapporti e legami intessuti dal Nicastri con esponenti politici e con funzionari pubblici della Regione Sicilia». Corte di Cassazione – copia non ufficiale
La Corte di appello ha ritenuto che da queste vicende, qui solo sinteticamente elencate, emergesse con chiarezza che il Nicastri – a partire dagli anni ’80 e fino ad arrivare, senza soluzione di continuità, al 2010 – si fosse reso responsabile di una serie ininterrotta di condotte fraudolenti per acquisire il finanziamento di progetti, accompagnate regolarmente da attività corruttive e da reati fiscali. A
fronte di tale quadro fattuale, a cui i giudici della prevenzione dell’epoca avevano ancorato il giudizio di pericolosità generica, assumevano rilievo assolutamente non determinante le sentenze del Tribunale di Avellino e di Trapani, che avevano a oggetto vicende ben delimitate, che avevano assunto uno scarso rilievo nella valutazione alla base del provvedimento applicativo della misura di prevenzione e che, peraltro, almeno con riferimento ad alcuni dei reati oggetto dei processi, avevano portato a una sentenza di declaratoria di estinzione per prescrizione e non a un proscioglimento nel merito.
La Corte di appello ha affrontato anche l’altra questione posta dalla parte ricorrente, relativa al fatto che il Nicastri aveva portato a termine una procedura conciliativa con l’Agenzia delle entrate, che aveva ridotto l’ammontare del debito erariale di oltre sette milioni di euro.
Sotto tale profilo, la Corte di appello, in primo luogo, ha posto in rilievo che il requisito alternativo della sproporzione era stato utilizzato in sede di applicazione della misura come mero elemento di contorno, privo di incidenza decisiva. In secondo luogo, ha evidenziato che la valutazione di sperequazione tra i beni del preposto e le sue fonti lecite di reddito, all’epoca effettuata, non necessariamente risultava alterata in maniera decisiva per effetto della rideterminazione del debito, a seguito della procedura conciliativa. Sotto tale profilo, la Corte di appello ha posto in rilievo che neppure il consulente tecnico di parte aveva ritenuto tale rideterminazione «autoevidente», nel senso di essere «idonea di per sé a ridurre l’entità della sproporzione» in maniera decisiva, come dimostrato dal fatto che egli non aveva elaborato un calcolo alternativo e che, ai fini della revoca della confisca, la parte aveva chiesto la rinnovazione degli accertamenti peritali, che, tuttavia, si ponevano come attività meramente esplorative.
A fronte delle ampie e articolate argomentazioni esposte, deve escludersi che il provvedimento impugnato risulti privo di motivazione o corredato da motivazione apparente, essendosi la Corte di appello confrontata con tutti gli elementi potenzialmente decisivi prospettati dalla parte.
3.2. Il secondo motivo è infondato.
La Corte di appello, infatti, ha correttamente richiamato il consolidato orientamento giurisprudenziale che ha escluso la natura sanzionatoria della confisca, chiarendo che, in materia, non trova applicazione il principio di irretroattività di cui all’art. 2 cod. pen.: «le modifiche introdotte nell’art. 2-bis d legge n. 575 del 1965, dalle leggi n. 125 del 2008 e n. 94 del 2009 non hanno modificato la natura preventiva della confisca emessa nell’ambito del procedimento di prevenzione, sicché rimane tuttora valida l’assimilazione dell’istituto alle misure di sicurezza e, dunque, l’applicabilità, in caso di successioni
di leggi nel tempo, della previsione di cui all’art. 200 cod. pen.» (Sez. U, Sentenza n. 4880 del 26/06/2014, COGNOME, Rv. 262602).
Al riguardo, va ricordato anche che è pacifico l’orientamento giurisprudenziale che ritiene “convenzionalmente” legittima l’applicazione retroattiva delle misure di
prevenzione patrimoniale, con riferimento a fatti anteriori all’entrata in vigore delle norme che le disciplinano, poiché le stesse, in quanto connotate da natura
preventiva e non sanzionatoria, non sono riconducibili alla nozione di “pena” di cui all’art. 7 CEDU (cfr. Sez. 2 n. 33533 del 25/06/2021, Avorio, Rv. 281862; Sez. 3,
n. 23435 del 30/01/2020, Scarano, n.m.; Sez. 1, n. 30710 del 20/01/2018,
COGNOME, n.m.).
La stessa Corte costituzionale, proprio nella sentenza numero 24 del 2019
invocata dalla parte ricorrente, ha affermato che: le misure in questione non costituiscono una sanzione, ma sono la naturale conseguenza dell’illecita
acquisizione dei beni, la quale determina un vizio genetico nella costituzione del diritto di proprietà in chi ne abbia acquisito la materiale disponibilità; in ragione d
tale natura, ad esse non può essere esteso lo statuto costituzionale e convenzionale delle pene; «nelle numerose occasioni in cui la Corte EDU ha sinora esaminato doglianze relative all’applicazione della confisca di prevenzione, mai è stata riconosciuta natura sostanzialmente penale a questa misura»; «è stato conseguentemente escluso che ad essa possano applicarsi gli artt. 6, nel suo “volet pénal”, e 7 CEDU».
La Corte EDU, recentemente, ha ribadito la compatibilità della confisca di prevenzione alle norme convenzionali in materia penale (artt. 7, 6, § 2, CEDU e art. 4 Prot. Add. CEDU), escludendo che essa abbia una natura giuridica equiparabile alle sanzioni penali (cfr. Corte EDU, 20 gennaio 2025, COGNOME c. Italia).
Priva di pregio, infine, è la deduzione relativa all’art. 11 delle preleggi, atteso che, trattandosi di norma di legge ordinaria di carattere generale, può essere derogata da norma speciale di pari grado, come quella che si ritiene operare nello specifico settore delle misure di sicurezza e di prevenzione.
Al rigetto dei ricorsi consegue la condanna dei ricorrenti – con la puntualizzazione di cui al paragrafo 2 – al pagamento delle spese processuali.
P.Q.M.
Rigetta i ricorsi e condanna i ricorrenti al pagamento delle spese processuali.
Così deciso, il 21 febbraio 2025.