Sentenza di Cassazione Penale Sez. 5 Num. 23590 Anno 2024
Penale Sent. Sez. 5 Num. 23590 Anno 2024
Presidente: NOME COGNOME
Relatore: COGNOME
Data Udienza: 20/02/2024
SENTENZA
sul ricorso proposto da COGNOME NOMECOGNOME nato il 3 dicembre 1991 a Palermo, COGNOME NOME, nato il 16 maggio 1977 a Palermo, Palermo NOME nata il 24 ottobre 1964 a Montelepre, COGNOME NOME, nato a Palermo il 17 aprile 1985, COGNOME NOME, nato a Palermo il 6 dicembre 1993, COGNOME NOME, nato a Cinisi il 15 aprile 1953, in proprio e nella qualità di legale rappresentante della RAGIONE_SOCIALE, avverso il decreto della Corte di appello di Palermo in data 8 maggio 2023; visti gli atti, il provvedimento impugnato e il ricorso; udita la relazione svolta dal consigliere NOME COGNOME letta la requisitoria del Pubblico ministero, in persona del Sostituto Procuratore generale NOME COGNOME che ha concluso chiedendo il rigetto dei ricorsi.
RITENUTO IN FATTO
Con decreto in data 8 maggio 2023, la Corte di appello di Palermo rigettò l’appello proposto nell’interesse di NOME COGNOME classe 1953, in qualità di terzo (fratello del proposto NOME COGNOME), NOME COGNOME, NOME COGNOME, NOME COGNOME, NOME COGNOME e NOME COGNOME, in
qualità di terzi intervenienti e di eredi (moglie e figli) del proposto, NOME COGNOME avverso il decreto in data 30 aprile 2020 del Tribunale di Palermo con il quale era stata disposta la confisca: – quanto a NOME COGNOME della società RAGIONE_SOCIALE e di tutti i beni mobili, immobili e mobili registrati, saldi attivi dei con correnti e rapporti bancari/postali, di qualsiasi natura, facenti parte del suo compendio aziendale, nonché: degli immobili siti in San Vito Lo Capo, identificati al fg. 2, part. 529, sub 2, 3 e 4; della quota pari ai 3/10 dell’immobile sito in San Vito Lo Capo, INDIRIZZO identificato in catasto al fg. 4, part. 16, sub 2 e part. 493, sub 2; della quota pari al 3/10 dell’immobile sito in San Vito Lo Capo, INDIRIZZO identificato in catasto al fg. 4, part. 493, sub 1; delle quote di proprietà del ricorrente delle società RAGIONE_SOCIALE e RAGIONE_SOCIALE; quanto a NOME COGNOME dell’intera proprietà della villetta in corso di costruzione a San Vito Lo Capo, identificata al fg. 2, part. 528, sub 1, in INDIRIZZO, acquistata in data 28 gennaio 2004 al prezzo di 45.000,00 euro; della quota pari ai 36/48 di un terreno sito in Carini, INDIRIZZO, indicato nel catasto di Carini al fg. 16, particelle 2490 e 2492, acquistato in data 19 maggio 2004 al prezzo di 42.236,00 euro; della quota di 1/5 di un terreno indiviso in San Vito Lo capo, INDIRIZZO, indicato al fg. 2, part. 15; della quota di 1/5 di un terreno indiviso in San Vito Lo Capo, contrada INDIRIZZO, indicato al fg. 2, part. 380; della quota di 1/5 di un terreno indiviso in San Vito Lo capo, INDIRIZZO, indicato al fg. 2, part. 475; della quota pari a 4/10 di un immobile urbano in San Vito Lo capo, INDIRIZZO, fg. 4, part. 16, sub 2; della quota pari ai 4/10 di un immobile urbano in San Vito Lo capo, INDIRIZZO, fg. 4, part. 493, sub 2 (immobili acquistati con atto di compravendita del 14 giugno 2006 al prezzo complessivo di 25.000,00 euro); dell’intera proprietà di una villetta sita in San Vito Lo Capo, INDIRIZZO, identificata al fg. 2, part. 529, sub 5, acquistata in data 16 giugno 2006 al prezzo di 63.000,00 euro; della quota di partecipazione della RAGIONE_SOCIALE (del valore di 3.400,00 euro, pari al 33,33%); della quota partecipazione della RAGIONE_SOCIALE (del valore di 10.002,00 euro, pari al 66,68%, di cui versati 5.167,70 euro); quanto a NOME COGNOME, dell’intera proprietà della villetta in San Vito Lo Capo, contrada INDIRIZZO, identificato al fg. 2, part. 529, sub 7, acquistata in data 16 dicembre 2005 per 63.000,00 euro; della quota di partecipazione del 50% della RAGIONE_SOCIALE; quanto a NOME COGNOME, dell’intera proprietà della villetta in San Vito Lo Capo, INDIRIZZO, indicata al fg. 2, part. 529, sub 6, acquistata in data 16 dicembre 2005 per 63.000,00 euro; della quota di partecipazione del 50% della RAGIONE_SOCIALE. Secondo quanto accertato in sede di merito i formali titolari dei beni confiscati erano dei meri prestanome di NOME COGNOME sottoposto a misura di prevenzione personale e reale all’esito del procedimento di primo grado e deceduto nelle more di quello di appello, il quale era stato ritenuto appartenente a un Corte di Cassazione – copia non ufficiale
sodalizio mafioso in quanto condannato per concorso esterno nell’associazione Cosa Nostra e per avere messo a disposizione della stessa, sin dall’avvio della sua attività imprenditoriale, le aziende al medesimo riferibili. I beni confiscati, dunque, dovevano ritenersi acquistati con i proventi delle attività economiche svolte nell’interesse anche della consorteria criminale.
NOME COGNOME fratello del proposto, ha proposto ricorso per cassazione avverso il predetto provvedimento per mezzo del difensore di fiducia, avv. NOME COGNOME deducendo, con un unico motivo di impugnazione, di seguito enunciato nei limiti strettamente necessari per la motivazione ex art. 173 disp. att. cod. proc. pen., la inosservanza o erronea applicazione degli artt. 20 e 24, d.lgs. n. 159 del 2011. Nel dettaglio, il ricorso denuncia, ai sensi dell’art. 606, comma 1, lett. b), cod. proc. pen., che il decreto impugnato non abbia indicato gli indizi da cui trarre che i beni fossero solo fittiziamente intestati a NOME COGNOME e che fossero nella disponibilità di fatto del fratello NOME; e che non abbia tenuto conto delle prove addotte dalla difesa per dimostrare che il ricorrente ne era l’effettivo dominus.
In particolare, quanto ai tre immobili siti in San Vito Lo Capo, identificati al fg. 2, part. 529, sub 2, 3 e 4, di proprietà di NOME COGNOME, sarebbe stato dimostrato che costui e la moglie si erano occupati dell’arredo e dell’affitto degli immobili; che i relativi canoni locatizi erano stati versati nel suo conto corrente; che i due erano estranei alla vicenda del residence Calamancina. Nondimeno, il decreto ometterebbe di occuparsi di tali circostanze, in violazione di legge.
Con riferimento, poi, agli altri immobili su cui il ricorrente avrebbe delle quote e alle quote delle società RAGIONE_SOCIALE e RAGIONE_SOCIALE, la Corte di secondo grado avrebbe omesso di indicare perché siano beni che, a dispetto della formale intestazione, risultino nella disponibilità di fatto de proposto, non essendo sufficiente che in capo al proprietario formale non siano state accertate disponibilità economiche idonee a consentirgli l’acquisto, non operando nella specie alcuna presunzione, nemmeno relativa, ed essendo necessario acquisire elementi gravi, precisi e concordanti sul carattere fittizio dell’intestazione. Ciò si sarebbe tradotto in un’ulteriore violazione di legge.
Una terza violazione di legge ricorrerebbe in relazione alla confisca della quota di COGNOME della RAGIONE_SOCIALE nonché della medesima società nel suo complesso e di tutti i beni mobili, immobili e mobili registrati, saldi attivi dei conti corr rapporti bancari/postali di qualsiasi natura facenti parte del suo compendio aziendale; società ritenuta integralmente nella disponibilità del proposto, atteso che NOME COGNOME formalmente indicato come amministratore, in numerosi atti depositati presso l’Agenzia delle Entrate di Trapani sarebbe stato indicato come «coltivatore diretto», mentre il fratello NOME veniva indicato quale
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«imprenditore». In realtà, la qualità che negli atti pubblici si attribuisce a contraenti non avrebbe alcun rilievo giuridico e non fornirebbe la prova della loro professione, fermo restando che nell’atto costitutivo della RAGIONE_SOCIALE (così come in quelli delle altre due società partecipate da NOME COGNOME) questi sarebbe qualificato come «imprenditore». In ogni caso, che NOME COGNOME fosse il legale rappresentante della società e ne avesse sempre avuto la gestione sarebbe attestato dalle dichiarazioni di professionisti che avevano avuto rapporti di lavoro con la RAGIONE_SOCIALE secondo quanto emerso in sede di indagini difensive ex art. 391 cod. proc. peri. Deduzioni, queste ultime, ritenute apoditticamente irrilevanti dalla Corte di appello, con conseguente inesistenza della motivazione.
NOMECOGNOME NOME, NOME e NOME COGNOME nonché NOME COGNOME hanno proposto ricorso per cassazione avverso il predetto decreto della Corte di appello per mezzo dei difensori di fiducia, avv.ti NOME COGNOME e NOME COGNOME deducendo cinque distinti motivi di impugnazione, di seguito enunciati nei limiti necessari alla motivazione ex art. 173 disp. att. cod. proc. pen.
3.1. Con il primo motivo, il ricorso lamenta, ai sensi dell’art. 606, comma 1, lett. b) e c), cod. proc. peri., la inosservanza o erronea applicazione della legge penale e di norme processuali stabilite a pena di nullità, laddove la Corte ha riaffermato la pericolosità sociale qualificata di NOME COGNOME ponendola a fondamento della conferma delle statuizioni ablatorie. Secondo il decreto, il giudice della prevenzione, pur avendo un potere valutativo autonomo rispetto ai giudizi diretti all’accertamento della responsabilità penale, non potrebbe «revisionare i precedenti giudicati». In realtà, ciò che si chiedeva era soltanto un’autonoma disamina degli elementi di prova, alla quale la Corte territoriale si sarebbe sottratta, nonostante la prospettazione di circostanze inedite, come gli esiti di intercettazioni comprovanti vessazioni e richieste estorsive cui NOME COGNOME era stato, negli anni, assoggettato, nonché le dichiarazioni rese al riguardo dal proposto, l’indicazione dei mafiosi che si approvvigionavano dalle sue ditte senza pagare e le deposizioni rese, al Tribunale di prevenzione, dal sottotenente COGNOME e dal colonnello COGNOME comprovanti le denunzie di COGNOME dopo la sua scarcerazione, che avevano consentito di arrestare soggetti di rilievo del sodalizio mafioso. Infine, dall’audizione dell’amministratore giudiziario, dott. COGNOME sarebbe emerso che, al momento del suo insediamento, le ditte di COGNOME avevano una esposizione debitoria che minacciava di eroderne il capitale in virtù di debiti, ammontanti a circa 10.000.000,00 euro, verso imprese riconducibili a Cosa Nostra. Ebbene, su tali emergenze il decreto impugnato non spenderebbe una parola, non confrontandosi nemmeno con gli argomenti addotti con l’atto di appello.
3.2. Con il secondo motivo, il ricorso censura, ex art. 606, comma 1, lett. b) e c), cod. proc. pen., la inosservanza o erronea applicazione della legge penale e di norme processuali stabilite a pena di nullità, laddove la Corte ha confermato la confisca dei beni acquisiti tra il 1971 e il 1999, in epoca differente da quella della pericolosità di NOME COGNOME. In particolare, nel ripercorrere «gli elementi dai quali è possibile desumere l’appartenenza di COGNOME a Cosa nostra», si indicherebbero solo gli episodi accertati dalle due condanne per concorso in associazione mafiosa a suo carico e cioè: il “prestito” di 75.000.000 lire erogato a NOME COGNOME su richiesta di NOME COGNOME, nel 1999; l’aver fatto da intermediario tra mafioso NOME COGNOME e il titolare della RAGIONE_SOCIALE onde sondarne la disponibilità a pagare il pizzo, tra il 1999 e il 2000; l’avere concordato con COGNOME, dopo il 2003, un “consorzio” per i lavori del c.d. raddoppio ferroviario che avrebbero dovuto essere eseguiti nel palermitano. In considerazione di ciò i Giudici di appello, in applicazione dei principi di diritto della sentenza COGNOME, avrebbero dovuto far riferimento alla perimetrazione temporale della pericolosità, tra il 1999 e il 2007, per determinare i beni per i quali confermare la confisca, acquisiti a partire dal 1999. La Corte, invece, in violazione di legge, avrebbe confermato la misura con riferimento a «tutte le componenti patrimoniali e utilità acquisiti dal 1971 al 2007». Sotto altro profilo, si denuncia la totale mancanza di motivazione, nella parte in cui il decreto asserisce apoditticamente che la pericolosità sociale di NOME COGNOME coinvolgerebbe il suo intero percorso imprenditoriale, dal 1971 (data di inizio dell’attività di impresa) al 2007, richiamando le sentenze di condanna di cui si è detto, che, tuttavia, avrebbero riguardato fatti ben precisi e occasionali favori alla consorteria mafiosa in un periodo di tempo circoscritto. Invero, come la Corte aveva chiarito in premessa, «risulta estranea» al concetto di appartenenza alle associazioni di cui all’art. 416-bis cod. pen. «la mera collateralità che non si sostanzi in sintomi di un apporto individuabile alla vita della compagine criminale», come nel caso della condotta che, nella consapevolezza dell’illecito, si muova in una indefinita area di contiguità al gruppo mafioso. In ogni caso, le annotazioni dei Carabinieri, risalenti agli anni ’70, avrebbero costituito mere ipotesi investigative rimaste prive di seguito. E quanto alle dichiarazioni dei collaboratori, quelle di COGNOME farebbe riferimento a fatti successivi al 1999, mentre da quelle di COGNOME e COGNOME, relative a periodi più recenti dei primi anni ’70, emergerebbe esclusivamente un preteso trattamento di favore di COGNOME per il pagamento del «pizzo», senza che la Corte abbia compiuto un autonomo esame di esse, quantomeno in termini di attendibilità intrinseca. Corte di Cassazione – copia non ufficiale
3.3. Con il terzo motivo, il ricorso denuncia, ai sensi dell’art. 606, comma 1, lett. b) e c), cod. proc. pen., la inosservanza o erronea applicazione della legge penale e di norme processuali stabilite a pena di nullità, laddove la Corte ha
confermato il provvedimento di confisca in difetto dei presupposti normativi. Con i motivi di appello si era sottolineato che difettava la dimostrazione di un qualsivoglia vantaggio di natura patrimoniale conseguito dal proposto in forza della attività illecita che egli avrebbe commesso, in particolare per le condotte oggetto della prima condanna (il «prestito» di 75.000.000 di lire a NOME COGNOME, mai restituito da quest’ultimo; il sondaggio nei confronti del titolare della Mercatone Uno di Carini – seguito da un netto rifiuto – sulla disponibilità a versare il «pizzo» alla famiglia mafiosa locale); il consorzio auspicato da COGNOME per i lavori del passante ferroviario, che non si realizzò mai e i cui lavori iniziarono nel 2008, quando le imprese di COGNOME erano già sottoposte a misura di prevenzione, dopo la data ultima, il 2007, indicata dalla Corte di appello per delimitare la pericolosità sociale del proposto. Ciò non avrebbe consentito di dimostrare che l’azienda fosse «frutto di attività illecita» o che essa si fosse avvalsa, nello svolgimento della sua attività, delle aderenze mafiose del titolare. La Corte dopo avere dato atto che «non vi è dubbio che l’origine del patrimonio di COGNOME NOME è illecita; non è dimostrato, infatti, che vi sia mai stato il conferimento di capitali mafiosi nel patrimonio delle sue aziende» (pag. 20) – la Corte non avrebbe indicato in che cosa si sarebbe estrinsecata la posizione privilegiata attribuitagli ovvero quali concreti vantaggi egli avrebbe ricevuto. La motivazione, dunque, anche sul punto sarebbe del tutto mancante.
Analogamente, quanto alla sproporzione tra i redditi dichiarati dal nucleo familiare del proposto e gli acquisti effettuati nel corso degli anni, i Giudici d appello si sarebbero limitati a riportare le conclusioni dei periti del Tribunale (pagg. 18 e ss.) e le loro repliche alle osservazioni dei consulenti di parte (pag. 23). Tuttavia, nell’atto di appello proposto nell’interesse di NOME COGNOME, NOME COGNOME NOME, NOME COGNOME e NOME COGNOME classe ’80, la ricostruzione dei periti sarebbe stata sottoposta a serrata critica, attraverso doglianze che il decreto avrebbe ignorato completamente.
3.4. Con il quarto motivo, il ricorso deduce, ex art. 606, comma 1, lett. b) e c), cod. proc. pen., la inosservanza o erronea applicazione degli artt. 117, primo comma, 18, d.lgs. n. 159 del 2011, 2 cod. pen., 11 preleggi, 6 e 7 Cedu, 117, 125, 41 e 42 Cost., 1 prot. 1 Cedu, 2-bis, comma 6-bis, legge n. 575 del 1965, 10, comma 1, lett. d), n. 4, decreto-legge 23 maggio 2008, n. 92.
I ricorrenti lamentano l’applicazione del d.lgs. n. 159 del 2011 e non della precedente normativa del procedimento di prevenzione, benché la proposta risalga al 2007. Invero, l’art. 18 d.lgs. n. 159 del 2011 consente l’applicazione della misura patrimoniale anche a prescindere dalla applicazione della misura personale, fondata sulla attualità della pericolosità sociale del proposto. Ciò alla luce dell’ad 117, comma 1, d.lgs. n. 159 del 2011, il quale prevede che le disposizioni contenute nel libro I non si applicano ai procedimenti nei quali, alla data di entrata
in vigore del decreto, fosse già stata formulata proposta di applicazione della misura, continuando ad applicarsi le norme previgenti. Nella vicenda in parola, la pretesa di procedere a confisca di prevenzione nei confronti di NOME COGNOME e dei terzi intervenienti poggerebbe sulla applicabilità retroattiva dell’art. 18 d.lgs. n. 159 del 2011, rispetto alla quale il decreto impugnato presentava una motivazione inesistente o – comunque – meramente apparente.
3.5. Con il quinto motivo, il ricorso lamenta, ex art. 606, comma 1, lett. b) ed e), cod. proc. pen., la inosservanza o erronea applicazione degli artt. 25, 41, 42, 111, 117, 125 Cost., 125, comma 3, cod. proc. pen., 24, d.lgs. n. 159 del 2011. Il decreto presenterebbe una motivazione inesistente o apparente, avendo la Corte di appello escluso l’esame di elementi legittimanti l’applicazione della misura patrimoniale a danno dei terzi, avendo disatteso le indicazioni esegetiche provenienti dalla Corte costituzionale (sent. n. 291 del 2013). La misura ablatoria su NOME COGNOME, NOME COGNOME e NOME COGNOME sarebbe motivata, quanto all’impresa individuale di NOME COGNOME, sul fatto che, pochi mesi dopo l’avvio dell’attività, il titolare aveva effettuato apporti per complessivi 270.000 euro (da rettificare in 285.000), in misura sproporzionata rispetto alle sue capacita reddituali e patrimoniali; quanto alla Ico.RAGIONE_SOCIALE, costituita il 27 settembre 2012 da NOME e NOME COGNOME, che aveva operato in stretta sinergia con l’impresa individuale di NOME COGNOME, i finanziamenti che si presumono erogati nel 2013 da parte di NOME e NOME COGNOME non risulterebbero compatibili con le suddette risorse reddituali, considerato che nel 2005 i due COGNOME, che all’epoca avevano 15 e 13 anni, avevano acquistato due unità immobiliari del complesso Calamancina RAGIONE_SOCIALE per un valore di 63.000,00 euro per atto, senza che il decreto dicesse alcunché sulla legittimità delle risorse documentata dalla difesa con produzione in data 12 marzo 2022. Inoltre, quanto agli apporti per complessivi 270.000 euro, i periti avrebbero individuato come apporto delle somme mai sborsate dall’impresa, essendosi al cospetto di acquisti effettuati a mezzo di emissione di titoli cambiari, con piena corrispondenza tra il valore di essi, il valore degli automezzi e quello risultante dagli atti pubblici di compravendita. Né la Corte avrebbe motivato in ordine alla implausibilità di un impegno finanziario da parte di NOME COGNOME a fronte del sequestro di tutti i suoi beni disposto nel procedimento n. 275/2007, in un periodo in cui non era più pericoloso. In ogni caso, quanto a 97.800,00 euro (su 285.000) si sarebbe raggiunta già in primo grado la dimostrazione di legittimità della provenienza delle somme, posto che la somma residua corrisponderebbe alla soglia di indebitamento raggiunta da NOME COGNOME con cambiali per acquistare i beni strumentali all’azienda e non ricorrendo a finanziamenti personali o immissioni di capitale. Tale circostanza sarebbe del tutto negletta da parte della Corte, con macroscopica omessa motivazione sul punto. Corte di Cassazione – copia non ufficiale
Quanto, poi, alla RAGIONE_SOCIALE, secondo il decreto i periti avrebbero accertato che i finanziamenti erogati nel 2013 a favore della società da parte di NOME e NOME COGNOME non sarebbero compatibili con le risorse disponibili agli stessi. Tuttavia, nell’ambito dello stesso procedimento il perito NOME COGNOME sentito all’udienza del 7 novembre 2018, avrebbe invece concluso che la differenza tra Entrate e Uscite dal 2008 al 2016 evidenzierebbe valori positivi con eccezione degli anni 2010 e 2016, con ciò rendendo inesistente o apparente la motivazione che avrebbe affermato genericamente una sproporzione non risultante affatto.
Parimenti omessa sarebbe la motivazione sul punto: sia della pericolosità (per il proposto esclusa dopo il 2007/008) in riferimento all’epoca di accertamento (2013); sia della comprovata capienza e proporzione delle risorse di start up e di finanziamento dinamico in relazione alle due aziende confiscate, COGNOME NOME e RAGIONE_SOCIALE posto che, come ha affermato il dott. COGNOMEperito nel proc 28/2017), la somma progressiva degli anni considerati (2008-2016) risulterebbe sempre positiva, per complessivi 180.898,70 euro.
Infine, con riferimento alla confisca dei beni di NOME NOME e NOME COGNOME, in particolare per il secondo di essi, si denuncia l’omessa integrale valutazione delle allegazioni documentali difensive circa la legittimità della provenienza dei beni, allegate alla memoria del 12 ottobre 2013. In particolare, si evidenzia la violazione di legge in relazione al ragionamento prodromico alle omissioni motivazionali specifiche segnalate, avente ad oggetto la collazione temporale di c.d. pericolosità specifica (1971/2007) ascritta al proposto.
Infine, si osserva che la possibilità di disporre la misura ablativa su beni acquisiti successivamente al periodo di pericolosità, conclusosi nel 2007, sarebbe subordinata all’esistenza di una pluralità di indici fattuali altamente dimostrativi della diretta derivazione delle acquisizioni patrimoniali dalla provvista formatasi nel periodo dell’attività delittuosa, i quali non sarebbero stati in alcun modo indicati dal decreto impugnato. Esso, quindi, sarebbe privo di motivazione sulla confisca della Luigi Impastato Ditta Individuale (costituita nel settembre 2011) e della RAGIONE_SOCIALE (costituita il 27 settembre 2012).
Quanto al periodo precedente al 2007, la posizione degli intervenienti verrebbe acriticamente travolta da generalizzazioni tese a eludere un preciso dovere accertativo fondato dall’evidenza probatoria dei dati, trasformando la confisca di prevenzione in una forma di confisca generale dei beni in violazione del principio di legalità e di proporzione. Né sarebbe possibile, per giustificare la confisca di interi compendi aziendali, ricorrere alla categoria della «impresa mafiosa», che consente di colpire intere attività economiche contaminate, indipendentemente dall’origine illecita del patrimonio, sul presupposto che non sia possibile operare alcuna distinzione, stante il carattere unitario dell’azienda, tra l’apporto di componenti lecite e quello imputabile a illecite risorse. Ciò in quanto, nella specie,
non sarebbe stato accertato, stante il totale silenzio del decreto impugnato, se il consolidamento e l’esponenziale espansione delle aziende del proposto siano stati, sin dall’inizio, agevolati dall’organizzazione mafiosa.·
CONSIDERATO IN DIRITTO
I ricorsi sono infondati e, pertanto, devono essere respinti.
Muovendo dall’analisi dei motivi del ricorso proposto nell’interesse di NOME COGNOME le censure difensive devono ritenersi infondate.
I Giudici di merito hanno compiuto, alla stregua di due sentenze ormai definitive che lo hanno condannato per concorso esterno all’associazione mafiosa Cosa nostra, una accurata ricostruzione degli elementi che consentono di qualificare NOME COGNOME quale «appartenente» a un’associazione mafiosa nell’intero arco di tempo in cui egli aveva esercitato la sua attività imprenditoriale, ovvero dal 1971 al 2007, anno in cui egli aveva avviato la sua collaborazione con la giustizia, giungendo alla logica conclusione che le società a lui riconducibili dovessero essere qualificate come «mafiose». Ciò alla luce dell’indirizzo giurisprudenziale secondo il quale la nozione di «appartenenza mafiosa», più ampia di quella di «partecipazione», è caratterizzata dalla connessione occasionale con gli scopi fondanti il gruppo associativo, senza che sia necessario che le condotte siano connotate da un vincolo stabile con il sodalizio criminale, risultando invece estranea al concetto la mera collateralità che non si sostanzi in sintomi di un apporto individuabile alla vita della compagine criminale (Sez. U, n. 111 del 30/11/2017, dep. 2018, COGNOME, in motivazione).
All’uopo, i Giudici della prevenzione hanno richiamato le dichiarazioni dei collaboratori di giustizia, le intercettazioni telefoniche e finanche i «pizzini scambiatisi tra taluno degli imputati per giungere a delineare un quadro nel quale NOME COGNOME aveva prestato del denaro su richiesta o comunque la regia di NOME COGNOME, aveva funto da intermediario tra il capocosca NOME COGNOME e il titolare della Mercatone Uno per indurre quest’ultimo a pagare il «pizzo» e, ancora, si era prestato, con le sue imprese operanti nel settore del calcestruzzo, a collaborare con l’associazione criminale quale interfaccia legale grazie alla quale quest’ultima avrebbe avuto l’accesso al sistema degli appalti pubblici, ricevendo in cambio, anche grazie alla provata relazione con soggetti apicali della consorteria mafiosa (come NOME COGNOME e NOME COGNOME), un supporto per affermarsi con posizione dominante sullo scenario imprenditoriale locale. Tale ruolo è stato esercitato attraverso una pluralità di società, tutte variamente collegate o comunque operativamente interconnesse, quali la RAGIONE_SOCIALE, intervenuta nell’ambito della speculazione edilizia del
residence Calannancina di S. Vito Lo Capo; la RAGIONE_SOCIALE, la quale, anche con la fittizia intestazione alla RAGIONE_SOCIALE, aveva partecipato a varie gare di appalto, eludendo, attraverso l’escamotage della cessione di ramo di azienda alla seconda, le misure interdittive disposte dalla prefettura (v. decreto del tribunale pag. 30); la RAGIONE_SOCIALE, che aveva ceduto alla RAGIONE_SOCIALE un ramo di azienda avente per oggetto l’attività estrattiva con modalità anomale indicative di una gestione sostanzialmente comune delle società (pag. 43 decreto del Tribunale). Vicende, queste, che secondo la non irragionevole ricostruzione accolta hanno riscontrato i già ricordati elementi di prova sul ruolo esercitato da NOME COGNOME e sulla riferibilità al medesimo delle aziende richiamate.
Analogamente, quanto alle quote societarie formalmente intestate al fratello NOME, odierno ricorrente, la verificata sproporzione tra i suoi redditi leciti e gli investimenti economici effettuati giustifica pienamente, sul piano logico, la ricostruzione compiuta dai decreti impugnati in ordine alla loro riferibilità al proposto, in uno con le circostanze più sopra evidenziate in ordine all’asservimento delle stesse agli interessi del sodalizio; e giustifica, pertanto, l’ablazione delle stesse. In tale complessiva ricostruzione, invero, non può annettersi alcun decisivo rilievo, in specie in rapporto al ristretto perimetro della cognizione di legittimità circoscritto ai soli casi di violazione di legge ovvero di motivazione mancante o di tutto apparente, al fatto che NOME COGNOME possa avere esercitato, alla stregua delle dichiarazioni assunte in sede di investigazioni difensive, un qualche ruolo operativo all’interno della RAGIONE_SOCIALE, non potendo tale circostanza ritenersi indicativa, come ben spiegato dalla Corte di appello, della sicura riferibilità delle quote confiscate allo stesso ricorrente e non al fratello proposto.
Ne consegue, dunque, la complessiva infondatezza del ricorso.
Infondati sono anche i ricorsi presentati nell’interesse di NOME COGNOME, NOME COGNOME, NOME COGNOME, NOME COGNOME e NOME COGNOME.
3.1. Con il primo motivo, i ricorrenti, in qualità di eredi di NOME COGNOME, lamentano che la Corte di appello abbia confermato il giudizio di pericolosità sociale qualificata già riconosciuta dal primo Giudice; questione che pongono in ragione del meccanismo di surroga legale previsto dall’art. 18, commi 2 e 3, d.igs. n. 159 del 2011, tenuto conto del decesso di NOME COGNOME nelle more del giudizio di secondo grado.
Sul punto, il Collegio condivide la corretta affermazione della Corte d’appello secondo cui il Giudice della prevenzione, pur potendo «utilizzare elementi probatori e indiziari tratti dai procedimenti penali e procedere ad una nuova e autonoma valutazione dei fatti ivi accertati, purché dia atto in motivazione delle ragioni per cui essi siano da ritenere sintomatici della attuale pericolosità del
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proposto» (Sez. 2, n. 26774 del 30/04/2013, COGNOME, Rv. 256819 – 01) «non è competente a revisionare i precedenti giudicati», ricostruendo i fatti in maniera contrastante rispetto al giudicato penale, che, nel caso di specie, ha riconosciuto la responsabilità di NOME COGNOME per concorso esterno in associazione mafiosa in ben due circostanze.
Nel caso di specie, la sua appartenenza al sodalizio, accertata dalle sentenze richiamate, è stata retrodatata a un periodo di gran lunga precedente, valorizzando talune informative concernenti episodi risalenti agli anni ’70 ed evidenziando gli specifici elementi di fatto che, contrariamente a quanto opinato dalla difesa, non consentivano di qualificarlo come «imprenditore vittima», quantomeno sino al 2007, allorché egli aveva iniziato a collaborare con la giustizia, recidendo i rapporti con il contesto criminale di riferimento e beneficiando di una congrua riduzione di pena proprio a seguito dell’assoluzione per il periodo successivo al dicembre 2007 dichiarata dalla Corte di appello con la sentenza del 14 marzo 2014 (nel proc. pen n. 4019/2013).
Né appare fondato il rilievo difensivo secondo cui i Giudici di merito avrebbero omesso di confrontarsi con il dato relativo agli ingenti crediti che NOME COGNOME nei confronti delle imprese riconducibili ad esponenti di Cosa nostra, asseritamente sintomatici della qualità di vittima e non di imprenditore appartenente all’associazione criminale, al quale le imprese non avrebbero fatto mancare un sollecito adempimento. Tale argomento difensivo, invero, risulta essere stato specificamente vagliato già dal provvedimento di primo grado e ripreso da quello di appello, proprio nell’affrontare la peculiarità dei rapporti tra associazione mafiosa e imprenditori e la molteplice veste questi ultimi possono assumere a seconda del concreto atteggiarsi, necessariamente fluido e dinamico, dei rapporti con la cosca.
3.2. Con il secondo motivo, i ricorsi deducono, sotto il profilo di una asserita violazione di legge, che i beni acquisiti tra il 1971 e il 1999 si collocherebbero al di fuori della perinnetrazione temporale evincibile dalle sentenze di condanna di COGNOME per concorso esterno. In particolare, si evidenzia come detti acquisti sarebbero precedenti sia al prestito di 75 milioni di lire effettuato a beneficio NOME COGNOME su richiesta di NOME COGNOME, avvenuto nel 1999, sia all’intermediazione svolta da COGNOME al fine di consentire il perfezionamento dell’estorsione ai danni del titolare della RAGIONE_SOCIALE, collocabile tra il 1999 e il 2000, sia, infine, all’accordo con COGNOME per i lavori del cd. raddoppio ferroviario, collocabili a partire dal dicembre 2003.
Sul punto, come condivisibilmente osservato dal Procuratore generale in sede di requisitoria scritta, occorre ribadire che l’appartenenza ad una associazione mafiosa può configurarsi anche quando la condotta del proposto, pur non riconducibile ad una vera e propria partecipazione al gruppo criminale, sia
apprezzabile in termini di vicinanza all’associazione tale da risultare, attraverso il contributo fattivo dal medesimo prestato alle attività e allo sviluppo del sodalizio (Sez. 2, n. 27855 del 22/03/2019, Valenza, Rv. 277402 – 01); e anche quanto, come nel presente caso, gli elementi sintomatici di tale «vicinanza» non siano sfociati in un procedimento penale. In argomento, infatti, la giurisprudenza di legittimità ha affermato che «il giudice della prevenzione può ritenere la riconducibilità del proposto ad una delle categorie di pericolosità di cui agli artt. 1 e 4 d.lgs. 6 settembre 2011, n. 159, anche indipendentemente dall’esistenza di sentenze di condanna che abbiano accertato la pregressa commissione di reati, a condizione che la valutazione incidentale a tal fine compiuta non sia smentita da esiti assolutori di eventuali procedimenti penali, eccezion fatta per il caso in cui tali esiti siano dipesi dal riconoscimento di cause estintive; nondimeno detto giudice non può basare il suo accertamento su meri sospetti, ma è tenuto a prendere in considerazione fatti storicamente apprezzabili, l’efficacia dimostrativa dei quali deve essere più elevata in relazione alla pericolosità cd. generica, con la conseguenza che la riconduzione del proposto ad una delle categorie di questa non può essere fondata su semplici informazioni contenute nelle banche dati in uso alle forze di polizia non accompagnate da aggiornamenti in ordine ai relativi sviluppi procedimentali» (Sez. 1, n. 36080 del 11/09/2020, COGNOME, Rv. 280207 – 01).
Nel caso di specie, i provvedimenti impugnati hanno richiamato le note dei Carabinieri di Partinico e le sintesi delle dichiarazioni dei collaboratori di giustizi (v. pag. 21 e 22 decreto impugnato) dalle quali emergeva come NOME COGNOME fosse stato destinatario di una proposta di diffida già nel 1977 e come sia risultato che, nel 1978, egli fissasse, per il tramite del fratello NOME, degli abboccamenti con appartenenti a Cosa nostra (quali NOME COGNOME, NOME COGNOME e NOME COGNOME), per giungere alla non illogica conclusione che l’attività di impresa esercitata da NOME COGNOME fosse stata asservita, fin dal suo inizio, nel 1971, agli interessi dell’associazione mafiosa, sicché il perimetro della pericolosità qualificata dovesse essere correttamente fissato a partire da quel momento. Una ricostruzione, questa, con la quale il ricorso sostanzialmente non si confronta, risultando, sul punto, aspecifico.
3.3. Con il terzo motivo, i ricorrenti lamentano la mancanza di presupposti per la conferma della confisca, non essendo stato dimostrato il vantaggio che sarebbe derivato ad NOME COGNOME dai rapporti con esponenti di Cosa nostra.
Osserva, nondimeno, il Collegio che i decreti di merito hanno puntualmente evidenziato come l’intera attività imprenditoriale di COGNOME si fosse sviluppata grazie ai rapporti da lui intrattenuti con gli esponenti della criminalità organizzata siciliana, avendo egli riportato due condanne per concorso esterno ad associazione mafiosa, integrato dal 1999 al 2007 ed essendovi inequivocabili riscontri all’esistenza di importanti contatti, fin dai primi anni ’70, con esponenti di
elevatissimo rango del sodalizio, indicativi di uno stretto rapporto con le figure apicali e, in definitivi, di una messa a disposizione delle aziende del proposto rispetto agli interessi della cosca.
Dunque, diversamente da quanto opinato dalle difese, deve ritenersi che i provvedimenti di merito abbiano adeguatamente posto in luce le ragioni per le quali è stato ritenuto che l’esercizio dell’attività imprenditoriale e il suo progressiv consolidamento abbiano costituito il concreto vantaggio conseguito da NOME COGNOME nel contesto di quel rapporto sinallagmatico con il sodalizio che generalmente sostanzia la condotta concorsuale dell’imprenditore contiguo, secondo la logica della «collusione» affaristica reciprocamente vantaggiosa (v. Sez. 6, n. 38995 del 21/06/2017, COGNOME, non massimata).
Quanto, poi, alla situazione creditoria nei confronti di talune aziende riconducibili ad esponenti mafiosi, deve ritenersi che essa sia stata dedotta in maniera generica, collocandola in una dimensione temporale non necessariamente coincidente con quella del consolidamento operativo delle aziende del proposto. Come condivisibilmente osservato dal decreto impugnato, del resto, la concreta esperienza giudiziaria ha dimostrato che i rapporti instaurabili tra imprenditori e soggetti mafiosi sono caratterizzati da una fenomenologia poliedrica, nella quale può realizzarsi, nel tempo, il passaggio dalla categoria dell’imprenditore «vittima» a quella dell’imprenditore «colluso», e viceversa, ovvero che coesista, in capo al medesimo imprenditore, la duplice veste di «colluso» e di «vittima», in considerazione delle peculiarità di ciascuna realtà locale e dei rapporti fra le forze in campo nonché della logica mafiosa del maggior profitto.
Quanto, poi, alla asserita sproporzione tra i redditi leciti e gli investimenti da parte dei ricorrenti, la Corte di merito ha puntualmente indicato gli elementi sintomatici di essa, rinviando alla perizia (v. pag. 26 e 27 decreto impugnato) ed evidenziando come le ulteriori argomentazioni svolte nell’atto di appello fossero reiterative di quelle già adeguatamente valutate dal primo Giudice, fornendo una pur sintetica motivazione che non può certo di dirsi mancante.
3.4. Con il quarto motivo i ricorrenti lamentano l’applicazione dell’art. 18, d.lgs. n. 159 del 2011, che consente l’applicazione della misura patrimoniale anche a prescindere dalla previa applicazione di quella personale, piuttosto che alla precedente normativa, che invece non lo consente, ritenuta nella specie applicabile sul presupposto che la proposta risalisse al 2007.
Il motivo è, però, manifestamente infondato.
A pag. 2 del decreto di primo grado è stato, infatti, riportato che la proposta di applicazione della misura di prevenzione era stata avanzata dal Pubblico ministero in data 11 ottobre 2017. Pertanto, a tale dato temporale deve farsi riferimento ai fini dell’applicazione della normativa vigente all’epoca, secondo la
previsione dell’art. 117, d.lgs. n. 159 del 2011, essendo irrilevante il fatto che i sequestri fossero stati disposti in epoca precedente, ovvero a decorrere dal 2008.
Inoltre, la Procura della Repubblica avanzò contestualmente le proposte di applicazione della misura personale e di quella patrimoniale; e soltanto nel corso del procedimento di prevenzione intervenne la morte del proposto, il 3 agosto 2022, in pendenza del giudizio di appello. Dunque, del tutto correttamente i Giudici della prevenzione hanno ritenuto applicabile al caso di specie le disposizioni introdotte dal d.lgs. n. 159 del 2011.
3.5. Con il quinto motivo i ricorrenti deducono violazione di legge anche sotto il profilo dell’assenza di motivazione in relazione al rigetto dell’istanza di revoca della confisca, avanzata con riferimento ad alcuni specifici beni.
Quanto all’apporto della somma di 285.000 euro alla ditta individuale COGNOME NOME, il decreto impugnato rinvia a quanto accertato nella perizia in ordine al versamento, pochi mesi dopo l’avvio dell’attività, della somma indicata, chiaramente sproporzionata rispetto alle capacità reddituali del soggetto che lo aveva effettuato.
Secondo la difesa, il Tribunale avrebbe ritenuto che parte di tale somma, in misura pari a per 97.800 euro, fosse giustificata da alcuni apporti documentati. In realtà, come precisato dal decreto di primo grado (pagg. 51 e 52), la predetta somma riguardava il capitale utilizzato per la creazione dell’impresa e non i successivi apporti effettuati dall’imprenditore. Né appare decisiva la circostanza, peraltro non riportata nei decreti, che a fronte del versamento stesso erano state sottoscritte cambiali, posto che queste ultime avrebbero dovuto essere comunque onorate e non essendo stata indicata la provvista costituita a garanzia del pagamento, resta il dato, non giustificato, di una totale sproporzione rispetto ai redditi accessibili al finanziatore, tale da giustificare sul piano logico, in rapport al peculiare contesto in cui l’operazione si inseriva, l’affermazione della provenienza illecita delle somme.
Quanto, ancora, ai finanziamenti alla RAGIONE_SOCIALE effettuati da NOME e NOME COGNOME nel 2013, i decreti di merito hanno ritenuto che essi, diversamente dalla quota del capitale sociale, fossero incompatibili con le risorse a disposizione degli stessi.
Sul punto, la difesa lamenta che l’accertamento di cui i decreti di merito aveva dato atto non abbia tenuto di quanto ricavabile dalla perizia Orlando. Tuttavia, dal tenore dei due provvedimenti non emerge affatto che essa sia stata utilizzata nel presente procedimento, atteso che il decreto oggi impugnato, a pag. 27, richiama unicamente i contenuti della perizia Speciale-COGNOME, di cui afferma la congruità, senza che la difesa sia in grado di controbattere sul punto. Quanto, poi, ai prospetti riepilogativi indicati nel ricorso, essi non riguardano i redditi di NOME e NOME COGNOME ma quelli dell’intero nucleo familiare, del tutto irrilevanti rispetto all
32,
società in parola, dovendo essi al più essere rapportati agli investimenti comp nel periodo compreso tra il 2008 e il 2016, non solo per la detta società.
Quanto, ancora, alla omessa valutazione delle produzioni difensive effettuat a sostegno delle argomentazioni con cui NOME, NOME e NOME COGNOME
hanno chiesto la revoca della confisca di beni immobili e quote societarie, so infondate. Invero, gli immobili sono tutti stati acquisiti entro il 2007,
valgono le considerazioni già svolte; mentre con riferimento alle società costit successivamente, la Corte di appello ha evidenziato come i capitali immess
successivamente all’inizio dell’attività fossero del tutto incompatibili condizioni reddituali dei ricorrenti, di talché si è ritenuto, con ragionament
non può dirsi illogico né tantomeno mancante, che per l’acquisto delle stesse, assenza di plausibili allegazioni, fossero state utilizzate risorse illecite
disposizione del proposto e provenienti dalla attività di impresa mafiosa proposto. Ne consegue che l’opposta tesi svolta in ricorso, finisce per risolver
una mera critica alla motivazione, quale mancanza di condivisione della decision assunta, ma non anche una mancanza o apparenza della motivazione, che
costituiscono gli unici profili scrutinabili in sede di legittimità.
Alla luce delle considerazioni che precedono, i ricorsi devono essere rigettati, con condanna dei ricorrenti al pagamento delle spese processuali.
PER QUESTI MOTIVI
Rigetta i ricorsi e condanna i ricorrenti al pagamento delle spese processual Così deciso in data 20 febbraio 2024
Il Presidente NOME
Il Consigliere estensore u2 C1Ren di