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Confisca denaro: quando è illegittima per spaccio

Un individuo è stato condannato per detenzione di stupefacenti. La Corte di Cassazione, con la sentenza n. 10065/2025, ha annullato la confisca denaro disposta a suo carico. La Corte ha stabilito che, per questo tipo di reato, la confisca è legittima solo se l’accusa fornisce la prova concreta che il denaro sia il provento dell’attività illecita, non potendo invertire l’onere della prova sull’imputato.

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Pubblicato il 17 settembre 2025 in Diritto Penale, Giurisprudenza Penale, Procedura Penale

Confisca Denaro e Spaccio: La Cassazione Fissa i Limiti

La Corte di Cassazione, con una recente sentenza, interviene per delineare con precisione i presupposti per la confisca denaro in relazione ai reati di droga, ribadendo un principio di garanzia fondamentale: l’onere della prova spetta all’accusa. La decisione analizza il caso di un uomo condannato per detenzione di stupefacenti, la cui vicenda processuale ha portato i giudici supremi a chiarire quando la somma di denaro trovata in possesso di un imputato può essere legittimamente sottratta.

Il Caso in Esame: Dalla Condanna alla Questione della Confisca

La vicenda trae origine dalla condanna di un uomo da parte del Tribunale. In sede di appello, la Corte territoriale aveva riqualificato il reato nella fattispecie di lieve entità prevista dall’art. 73, comma 5, del d.P.R. 309/1990, rideterminando la pena ma confermando la confisca di una somma di denaro sequestrata.

L’imputato ha proposto ricorso in Cassazione lamentando diversi vizi, tra cui spiccava la questione della legittimità della confisca. La difesa sosteneva che non fosse stato provato alcun collegamento tra il denaro e l’attività di spaccio, contestando l’affermazione generica dei giudici di merito secondo cui tale somma fosse provento del reato. Inoltre, veniva contestata la rideterminazione della pena come violazione del divieto di reformatio in pejus.

La Decisione della Cassazione sulla Confisca Denaro

Il punto centrale della sentenza della Cassazione riguarda il motivo di ricorso sulla confisca denaro. I giudici hanno ritenuto questo motivo fondato, annullando la sentenza impugnata su questo specifico punto, senza rinvio, e ordinando la restituzione della somma all’avente diritto.

La Corte ha censurato la decisione dei giudici di merito per aver impropriamente addossato all’imputato l’onere di giustificare la provenienza lecita del denaro sequestrato. Questo approccio, secondo la Cassazione, costituisce un’inversione dell’onere della prova non consentita dalla legge per la fattispecie di reato contestata.

Riqualificazione del Reato e Divieto di Reformatio in Pejus

Un altro aspetto rilevante affrontato dalla Corte è quello relativo al presunto peggioramento della pena a seguito della riqualificazione del reato in appello. La Cassazione ha ritenuto infondato questo motivo, chiarendo un importante principio. Quando il giudice di appello riqualifica giuridicamente il fatto (ad esempio, da spaccio ordinario a spaccio di lieve entità), egli non è vincolato alla pena base stabilita in primo grado. La diversità e autonomia del reato riqualificato gli consentono di determinare la sanzione ex novo, nel rispetto dei nuovi limiti edittali, senza che ciò costituisca una violazione del divieto di reformatio in pejus.

Le Motivazioni della Sentenza

La Corte Suprema ha fondato la sua decisione sull’annullamento della confisca su un principio consolidato (jus receptum). Per il reato di cui all’art. 73, comma 5, del Testo Unico Stupefacenti, la confisca non segue le regole speciali (come quelle dell’art. 12-sexies D.L. 306/1992, che prevedono una presunzione di illeceità), ma le condizioni generali previste dall’art. 240 del codice penale. Ciò significa che è necessario un accertamento rigoroso del nesso di pertinenzialità tra il bene da confiscare (il denaro) e il reato. Affermare genericamente un collegamento con lo stupefacente sequestrato e, quindi, apoditticamente la sua natura di provento di reato, è insufficiente. Spetta all’accusa dimostrare concretamente tale nesso, e non all’imputato provare l’origine lecita dei suoi soldi.

Conclusioni

La sentenza in esame rafforza le garanzie difensive nel processo penale, in particolare per quanto riguarda le misure patrimoniali. Stabilisce chiaramente che non può esserci automatismo tra il sequestro di denaro e la successiva confisca in casi di spaccio di lieve entità. Il Pubblico Ministero ha l’obbligo di fornire elementi di prova concreti che dimostrino che quella somma specifica è il frutto dell’attività illecita. In assenza di tale prova, il denaro deve essere restituito. Questa decisione rappresenta un importante baluardo contro le presunzioni di colpevolezza e l’inversione dell’onere probatorio a danno dell’imputato.

In caso di spaccio di lieve entità, il denaro trovato in possesso dell’imputato può essere sempre confiscato?
No. Secondo la sentenza, per procedere alla confisca del denaro è necessario che l’accusa dimostri che quel denaro costituisce il provento o il profitto del reato. Non è sufficiente affermare un collegamento generico e non si può pretendere che sia l’imputato a doverne giustificare la provenienza lecita.

Se il giudice d’appello riqualifica il reato in una fattispecie meno grave, può comunque infliggere una pena calcolata diversamente da quella del primo grado?
Sì. La Corte ha stabilito che la riqualificazione giuridica del fatto conferisce al giudice d’appello autonomia nel determinare la pena, senza essere vincolato ai calcoli del primo grado. Questo non viola il divieto di “reformatio in pejus” (peggioramento della condanna), poiché il reato è considerato diverso.

A chi spetta l’onere di provare che il denaro sequestrato è frutto di attività illecita?
L’onere della prova spetta all’accusa. La sentenza annulla la confisca proprio perché era stato impropriamente addossato all’imputato l’onere di giustificare la provenienza lecita del denaro, mentre spetta al Pubblico Ministero dimostrare il suo collegamento con il reato.

La selezione delle sentenze e la raccolta delle massime di giurisprudenza è a cura di Carmine Paul Alexander TEDESCO, Avvocato a Milano, Pesaro e Benevento.

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