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Confisca beni terzi: la buona fede non basta

La Corte di Cassazione ha confermato la confisca di immobili di proprietà di terzi, situati in un edificio utilizzato come base operativa da un’organizzazione criminale. I ricorrenti sostenevano di essere proprietari in buona fede da decenni, ma la Corte ha rigettato il ricorso. La sentenza chiarisce che nel contesto della confisca beni terzi, la ‘buona fede’ penale è più stringente di quella civile: non basta la titolarità formale, ma occorre dimostrare di non aver potuto conoscere l’uso illecito del bene con la dovuta diligenza e di non aver omesso di esercitare i propri diritti di proprietà, di fatto consentendo al clan di impossessarsene.

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Pubblicato il 20 settembre 2025 in Diritto Penale, Giurisprudenza Penale, Procedura Penale

Confisca Beni Terzi: Quando la Buona Fede del Proprietario Non Salva l’Immobile

La lotta alla criminalità organizzata passa anche attraverso l’aggressione ai patrimoni illeciti, ma cosa succede quando i beni utilizzati da un clan appartengono a terzi? Una recente sentenza della Corte di Cassazione affronta il delicato tema della confisca beni terzi, stabilendo principi rigorosi sul concetto di ‘buona fede’ del proprietario formale. Il caso riguarda un intero edificio, noto per essere la ‘fortezza’ di un’associazione mafiosa, le cui unità immobiliari erano intestate a persone che si dichiaravano estranee ai fatti criminali.

I Fatti del Caso: Un Palazzo Conteso tra Proprietà Formale e Dominio Mafioso

La vicenda giudiziaria ha origine dalla confisca di diversi appartamenti situati in un noto palazzo, ordinata a seguito della condanna irrevocabile di alcuni esponenti di un clan camorristico per associazione mafiosa e reati in materia di armi. I proprietari formali degli immobili, terzi rispetto al procedimento penale, si sono opposti al provvedimento. Essi sostenevano di aver acquisito la proprietà per acquisto diretto e successione ereditaria in epoche remote (anni ’40 e ’70), ben prima della nascita dell’organizzazione criminale, e di non aver mai avuto alcun collegamento con essa.

Il Giudice dell’esecuzione, tuttavia, aveva rigettato la loro richiesta di revoca della confisca, evidenziando un fatto notorio: l’intero edificio era da tempo la base operativa e la ‘fortezza’ del clan, che ne aveva la piena ed esclusiva disponibilità. I proprietari formali non avevano mai esercitato un reale possesso né avevano tentato di rientrare in possesso dei loro beni, di fatto subendo passivamente lo spoglio da parte del clan.

La Decisione della Corte: Rigetto dei Ricorsi e Conferma della Confisca

I terzi proprietari hanno presentato ricorso in Cassazione, lamentando una violazione di legge. A loro avviso, la confisca era illegittima perché i beni erano di loro proprietà, erano stati acquisiti lecitamente molto tempo prima e non avevano alcuna derivazione dai reati contestati. La Corte di Cassazione ha ritenuto i ricorsi infondati, confermando integralmente la decisione del giudice dell’esecuzione e condannando i ricorrenti al pagamento delle spese processuali. La sentenza si articola su una precisa interpretazione del ruolo e degli obblighi del terzo proprietario.

Le motivazioni della Corte sulla confisca beni terzi

La Corte ha sviluppato il suo ragionamento su tre pilastri fondamentali, che definiscono i confini della tutela del terzo nel procedimento di prevenzione e penale.

Il Concetto di “Buona Fede” nel Diritto Penale

Il punto cruciale della decisione è la distinzione tra la ‘buona fede’ del diritto civile (art. 1147 c.c.), che è presunta, e quella richiesta nel diritto penale per salvare un bene dalla confisca. Secondo i giudici, la buona fede penalistica è molto più stringente: non si limita alla mancata partecipazione al reato. Il terzo deve essere completamente estraneo al crimine, non deve averne tratto alcun vantaggio e, soprattutto, deve dimostrare una ‘non conoscibilità’ qualificata. Ciò significa che deve provare di non aver potuto conoscere, usando la diligenza richiesta dalla situazione concreta, il legame tra la propria posizione e il reato commesso da altri. La passività e l’omessa vigilanza sul proprio bene, che di fatto ne consentono l’uso da parte di un’organizzazione criminale, escludono la buona fede.

L’Onere della Prova e la Mancata Vigilanza

Contrariamente a quanto sostenuto dai ricorrenti, non vi è un’inversione dell’onere della prova a loro sfavore. Tuttavia, spetta al terzo che vuole far valere il suo diritto un ‘onere di allegazione’. Egli deve fornire elementi concreti per dimostrare la sua estraneità al reato e la sua buona fede. Nel caso di specie, i ricorrenti si sono limitati a produrre i titoli di proprietà risalenti a decenni prima, senza però allegare nulla riguardo all’effettivo esercizio dei loro diritti di proprietà o a eventuali tentativi di opporsi all’occupazione da parte del clan. La Corte ha definito ‘candida’ l’affermazione dei ricorrenti di non essere a conoscenza di un fatto notorio come il controllo del palazzo da parte del clan, circostanza accertata in numerosi procedimenti giudiziari e nota a chiunque frequentasse la zona.

Il Legame Strumentale tra l’Immobile e il Clan

La confisca disposta ai sensi dell’art. 416-bis, settimo comma, cod. pen. è obbligatoria per le ‘cose che servirono o furono destinate a commettere il reato’. La Corte ha ribadito che in questa categoria rientrano tutti i beni stabilmente asserviti all’attività dell’associazione. L’intero edificio era stato destinato ad essere la base logistica e la ‘fortezza’ del sodalizio, creando un rapporto strutturale e strumentale tra il bene e l’illecito. In questa prospettiva, l’origine lecita del bene (l’acquisto decenni prima) diventa irrilevante di fronte al suo stabile asservimento al progetto criminale, avvenuto con il mancato esercizio delle prerogative proprietarie che equivale a una forma di consenso o, quantomeno, a una colpevole mancanza di vigilanza.

Le conclusioni

Questa sentenza invia un messaggio chiaro: la proprietà non è un diritto assoluto che può essere esercitato in modo disinteressato rispetto al contesto sociale e legale. I proprietari di beni, specialmente in aree ad alta densità criminale, hanno un dovere di vigilanza. La mancata opposizione all’uso illecito di un immobile da parte di un’organizzazione mafiosa può portare alla perdita del bene stesso, anche se il titolo di proprietà è formalmente inattaccabile e di origine lecita. La buona fede, per essere giuridicamente rilevante e proteggere dalla confisca beni terzi, deve essere attiva e dimostrabile, non una mera dichiarazione di ignoranza o estraneità.

Quando un bene di un terzo può essere confiscato in un procedimento per associazione mafiosa?
Un bene di proprietà di un terzo può essere confiscato se risulta che è stato utilizzato o destinato a commettere il reato di associazione mafiosa. È necessario che esista un rapporto strumentale e stabile tra il bene e l’attività criminale, come nel caso di un immobile usato come base operativa del clan.

Cosa si intende per ‘buona fede’ del terzo proprietario per evitare la confisca?
La ‘buona fede’ nel diritto penale è più rigorosa di quella civile. Non basta essere formalmente proprietari ed estranei al reato. È necessario dimostrare di non aver potuto conoscere, con la diligenza richiesta dalle circostanze, l’uso illecito del bene. La passività, il mancato esercizio dei diritti di proprietà e l’omessa vigilanza che consentono a un clan di impossessarsi del bene escludono la buona fede.

A chi spetta l’onere di dimostrare la buona fede per impedire la confisca?
Al terzo proprietario spetta un ‘onere di allegazione’. Deve cioè fornire al giudice elementi di fatto concreti e prove che dimostrino non solo la sua estraneità al reato, ma anche la sua buona fede, intesa come impossibilità di conoscere l’uso criminale del bene e come attivo esercizio dei propri diritti di proprietà.

La selezione delle sentenze e la raccolta delle massime di giurisprudenza è a cura di Carmine Paul Alexander TEDESCO, Avvocato a Milano, Pesaro e Benevento.

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