Sentenza di Cassazione Penale Sez. 1 Num. 11456 Anno 2025
In nome del Popolo Italiano
Penale Sent. Sez. 1 Num. 11456 Anno 2025
Presidente: COGNOME
Relatore: NOME
Data Udienza: 05/03/2025
PRIMA SEZIONE PENALE
– Presidente –
NOME COGNOME NOME COGNOME
R.G.N. 663/2025
NOME COGNOME
SENTENZA
sui ricorsi proposti da:
COGNOME NOME nata a TORRE ANNUNZIATA il 11/01/1952
COGNOME NOME nato a TORRE ANNUNZIATA il 12/10/1953
COGNOME NOME nato a TORRE ANNUNZIATA il 13/06/1956
COGNOME NOME nato a TORRE ANNUNZIATA il 10/05/1958
COGNOME NOME nato a TORRE ANNUNZIATA il 21/11/1954
COGNOME NOME nata a TORRE ANNUNZIATA il 01/12/1959
avverso l’ordinanza del 28/11/2024 del GIP del TRIBUNALE di Napoli
Udita la relazione svolta dal Consigliere NOME COGNOME;
lette le conclusioni del Sostituto Procuratore generale NOME COGNOME che ha concluso per il rigetto dei ricorsi.
Dato avviso al difensore.
RITENUTO IN FATTO
Con il provvedimento impugnato, il Giudice per le indagini preliminari del Tribunale di Napoli, in funzione di giudice dell’esecuzione, ha rigettato l’opposizione proposta nell’interesse dei terzi NOME COGNOME NOME COGNOME, NOME COGNOME, NOME COGNOME, NOME COGNOME e NOME COGNOME avverso l’ordinanza emessa dallo stesso giudice in data 26 luglio 2023 con la quale era stata rigettata la richiesta di revoca della confisca dei beni immobili intestati ai suddetti, ordinata con la sentenza del Giudice dell’udienza preliminare del Tribunale di Napoli in data 4 maggio 2015, irrevocabile in data 15 settembre 2017, che aveva condannato NOME COGNOME, NOME COGNOME e NOME COGNOME per i reati di associazione mafiosa e in tema di armi, rilevando la notorietà del fatto che l’immobile ‘INDIRIZZO‘, nell’ambito del quale si trovano le unità immobiliari dei terzi, era la base operativa e la ‘fortezza’ del clan camorristico COGNOME ed era
nella piena ed esclusiva disponibilità dell’organizzazione mafiosa.
Ricorrono NOME COGNOME, NOME COGNOME, NOME COGNOME, NOME COGNOME, NOME COGNOME e NOME COGNOME a mezzo del difensore e procuratore speciale avv. NOME COGNOME che chiedono l’annullamento dell’ordinanza impugnata, denunciando la violazione di legge, in riferimento agli articoli 240 e 416bis cod. pen. e 125 cod. proc. pen., per mancanza del presupposto della confisca poichØ i beni immobili sono di proprietà dei ricorrenti, soggetti estranei al giudizio e ai reati accertati con la richiamata sentenza divenuta irrevocabile, il diritto di proprietà dei quali non ha alcuna derivazione dai suddetti reati, avendo i medesimi acquistato gli immobili nel 1946 e poi per successione ereditaria nel 1974, cioŁ ben prima che sorgesse l’organizzazione camorristica con la quale, comunque, mai vi Ł stato alcun collegamento.
¨ apodittica l’affermazione secondo la quale sarebbe notorio che l’edificio, nel quale si trovano le unità immobiliari di proprietà dei ricorrenti, costituisse la base dell’organizzazione mafiosa, tanto che i medesimi non avrebbero esercitato il diritto di proprietà perchØ non avrebbero mai avuto la disponibilità degli immobili.
Il giudice dell’esecuzione non ha fatto applicazione dei principi affermati con la sentenza Sez. U, n. 11170 del 25/09/2014 – dep. 2015, Uniland Spa, Rv. 263684 – 01.
CONSIDERATO IN DIRITTO
1. I ricorsi sono infondati.
¨ preliminare chiarire che non Ł corretta l’affermazione difensiva secondo la quale, in applicazione dell’art. 1147, comma terzo, cod. civ., la buona fede del terzo proprietario Ł presunta e basta che vi sia stata al momento dell’acquisto.
¨ necessario prendere le mosse dal concetto di terzo, i diritti del quale sono salvaguardati dal legislatore prevalendo, in caso di buona fede, anche sulla sanzione della confisca.
Terzo Ł la persona estranea al reato, ovvero la persona che non solo non abbia partecipato alla commissione del reato, ma che da esso non abbia ricavato vantaggi e utilità (Sez. 2, n. 11173 del 14/10/1992, COGNOME, Rv 193422; Sez. 3, n. 3390 del 19/01/1979, COGNOME, Rv 141690, secondo le quali non può considerarsi estraneo al reato il soggetto che da esso abbia ricavato vantaggi e utilità); soltanto colui che versi in tale situazione oggettiva e soggettiva può vedere riconosciuta la intangibilità della sua posizione giuridica soggettiva e l’insensibilità di essa agli effetti del provvedimento di confisca.
La sentenza COGNOME (Sez. U, n. 9 del 28/04/1999, COGNOME, Rv. 213511), alla quale il Collegio intende dare continuità, ha precisato che al requisito oggettivo, integrato dalla non derivazione di un vantaggio dall’altrui attività criminosa, deve aggiungersi la connotazione soggettiva della buona fede del terzo, intesa come «non conoscibilità, con l’uso della diligenza richiesta dalla situazione concreta, del predetto rapporto di derivazione della propria posizione soggettiva dal reato commesso dal condannato».
Si tratta di considerazioni del tutto ragionevoli che sono state ribadite dalla sentenza SU, Uniland, cit. e che costituiscono ulteriore argomento a favore della competenza in materia del giudice penale, dal momento che deve essere accertata la estraneità del terzo al reato nel senso dinanzi precisato.
2.1. Il concetto di buona fede per il diritto penale Ł, dunque, diverso da quello di buona fede civilistica a norma dell’art. 1147 cod. civ., dal momento che anche i profili di colposa inosservanza di doverose regole di cautela escludono che la posizione del soggetto acquirente o che vanti un titolo
sui beni da confiscare o già confiscati sia giuridicamente da tutelare.
Quanto all’onere della prova della buona fede, la sentenza SU, Uniland, cit., ha precisato che l’inversione dell’onere della prova, derivante dalla precedente SU, COGNOME, cit., non trova fondamento in norme giuridiche; ciò che, invece, sembra del tutto ragionevole pretendere Ł un onere di allegazione a carico del terzo che voglia far valere un diritto acquisito sul bene in ordine agli elementi che concorrono a integrare le condizioni di appartenenza del bene e di estraneità al reato dalle quali dipende l’operatività della situazione impeditiva o limitativa del potere di confisca esercitato dallo Stato.
Una siffatta rigorosa impostazione trova giustificazione nel fatto che la confisca dei beni Ł disposta perchØ viene accertato, a seguito di un processo penale, che i beni oggetto del provvedimento costituiscono una ‘proprietà’ del clan nonchØ il luogo nel quale veniva esercitato il dominio mafioso, dunque un bene utilizzato per commettere il reato.
Tanto premesso, il giudice dell’esecuzione ha sottolineato, senza ricevere una specifica critica dai ricorrenti, che tutti gli immobili, facendo parte del ‘INDIRIZZO‘, furono oggetto di appropriazione da parte del clan COGNOME, nØ, in proposito, i ricorrenti hanno allegato alcunchØ di segno contrario in merito alla disponibilità effettiva e concreta delle porzioni immobiliari reclamate o in merito a un eventuale tentativo di rientrarne in possesso.
Si tratta di una decisiva affermazione, quella relativa allo spoglio dei beni effettuato dal clan ai danni dei precedenti formali proprietari, che Ł rimasta non contestata dai ricorrenti, i quali si limitano ad allegare di essere divenuti proprietari fin da epoca remota, senza però neppure dedurre di avere mantenuto la disponibilità e il possesso dei beni dopo l’avvento del clan.
3.1. In proposito, l’ordinanza espone gli elementi di fatto che derivano dalle investigazioni di polizia dai quali si desume che negli immobili in questione dimoravano dei soggetti privi di lecito e documentato legame con i proprietari ricorrenti, a dimostrazione, sia del mancato esercizio da parte di costoro dei poteri di signoria che spettano al proprietario, sia della connivenza con la situazione di fatto imposta dal clan, sia dell’esercizio, da parte di quest’ultimo, dei poteri di fatto sulla cosa che ne rappresentano il possesso incontrastato.
I ricorsi sono muti in proposito: essi agitano esclusivamente i titoli di acquisito che risalgono agli anni ’40 e ’70 del secolo scorso.
3.2. La ritenuta disponibilità dell’intero edificio da parte del sodalizio mafioso, l’assenza di prova del possesso effettivo e dell’uso degli immobili in esame da parte degli istanti, nonchØ della buona fede degli stessi, consentono di ritenere sussistenti, così come ribadito dal giudice dell’esecuzione, i presupposti della disposta confisca ai sensi dell’art. 416bis , settimo comma, cod. pen.
Come affermato in motivazione da Sez. 5, n. 8217 del 2022, il legislatore ha previsto che alla condanna per il reato ex art. 416bis cod. pen. segue «la confisca obbligatoria delle cose che servirono o furono destinate a commettere il reato e delle cose che ne sono il prezzo, il prodotto, il profitto o che ne costituiscono l’impiego», formula che estende l’obbligo della confisca a beni per i quali l’articolo 240, primo comma, cod. pen. si limita a disporre la confisca facoltativa. Nell’ambito delle «cose che servirono o furono destinate a commettere il reato» devono ricomprendersi tutti i beni destinati a essere utilizzati ai fini dell’attività dell’associazione. Sussiste, come si Ł detto, una relazione specifica e stabile tra il bene e l’illecito che testimonia l’esistenza di un rapporto strutturale e strumentale.
L’origine del bene (la cui riconducibilità all’iniziativa economica del soggetto responsabile del reato, nelle ipotesi di confisca allargata, ex art. 240bis cod. pen., Ł alla base della nozione di disponibilità del bene in capo al condannato – cfr. in motivazione Sez. 1, n. 35762 del 2019) non appare assumere rilievo decisivo in relazione alla confisca ex art. 416bis , settimo comma cod. pen.,
per la quale deve essere valorizzato, in particolare, lo stabile asservimento in disparte l’intestazione fittizia del bene all’attività dell’associazione per la realizzazione del suo progetto criminale, con il consenso o la non opposizione del formale proprietario.
3.3. Il giudice dell’esecuzione, sul punto, ha evidenziato che ‘Palazzo Fienga’, nella sua totalità, era stato destinato all’attività del clan che ne aveva il possesso incontrastato e il controllo esclusivo, evidenziando il rapporto strumentale esistente tra detto bene e le finalità e l’agire del sodalizio mafioso, condizione, rispetto alla quale, la buona fede dei terzi – ritenuta non dimostrata nel caso di specie – appare irrilevante in ragione dell’accertato difetto di vigilanza in capo agli stessi in relazione all’utilizzo e alla destinazione dei beni dei quali erano formalmente proprietari.
NØ appaiono emergere ulteriori profili di valutazione tali da consentire di ritenere viziato il giudizio di merito relativo alla affermata disponibilità dei beni immobili da parte del clan e alla loro concreta destinazione quale base operativa e ‘fortezza’ dell’organizzazione mafiosa.
Non Ł possibile, in particolare, ipotizzare la buona fede dei formali proprietari in presenza di una piena conoscibilità del fatto illecito relativo all’appropriazione e all’uso dei predetti beni e del contestuale mancato esercizio delle prerogative proprie da parte del proprietario, che non ha neppure allegato o dedotto di essere stato impedito od ostacolato dal clan nell’esercizio di dette prerogative, ovvero di non avere potuto esercitare il diritto proprio a causa della presenza e dell’azione del clan.
Piuttosto, il difetto di buona fede, che si Ł tradotto anche nel volontario mancato esercizio delle prerogative del diritto di proprietà, Ł reso palese dalla candida affermazione dei ricorrenti di non essere stati al corrente del fatto notorio costituito dalla piena e incontrastata disponibilità di ‘Palazzo Fienga’ da parte del clan COGNOME; circostanza, non solo accertata nei vari procedimenti giudiziari che si sono succeduti negli ultimi trent’anni, ma che risulta nota, come hanno verificato i giudici di merito, a chiunque abbia frequentato quelle zone.
3.4. Sotto altro profilo, anche l’affermazione del giudice dell’esecuzione, secondo la quale la domanda sarebbe del tutto generica perchØ non sono indicati in termini precisi gli immobili dei quali si chiede la restituzione, Ł rimasta senza specifica contestazione, sicchØ se ne deve dedurre che la stessa Ł quantomeno infondata, non potendosi specificamente individuare i beni reclamati, a ulteriore dimostrazione dell’inconsistenza della pretesa dominicale.
Al rigetto dei ricorsi consegue, ai sensi dell’art. 616 cod. proc. pen., la condanna dei ricorrenti al pagamento delle spese del procedimento.
P.Q.M.
Rigetta i ricorsi e condanna i ricorrenti al pagamento delle spese processuali.
Così Ł deciso, 05/03/2025
Il Consigliere estensore NOME COGNOME
Il Presidente NOME COGNOME