Sentenza di Cassazione Penale Sez. 4 Num. 44337 Anno 2024
Penale Sent. Sez. 4 Num. 44337 Anno 2024
Presidente: COGNOME NOME
Relatore: COGNOME
Data Udienza: 12/11/2024
SENTENZA
sul ricorso proposto da:
NOME nato il 20/05/1951
avverso l’ordinanza del 29/06/2024 del GIP TRIBUNALE di NAPOLI
udita la relazione svolta dal Consigliere NOME COGNOME
lette le conclusioni del PG, in persona del Sostituto Procuratore NOME COGNOME che ha chiesto il rigetto del ricorso.
RITENUTO IN FATTO
1. Con ordinanza del 22 marzo 2018, il Giudice per le indagini preliminari del Tribunale di Napoli rigettò la richiesta di restituzione e dispose la confisca di undic quadri (reperti dal n. 23 al n. 32), indicati nell’allegato 3) del verbale di sequest eseguito in data 14 novembre 2006 dai Carabinieri del Nucleo Tutela Patrimonio Culturale nell’ambito del procedimento penale n. 5814/2012 RGNR iscritto nei confronti di NOME COGNOME per i reati di cui agli artt. 292 e 295 d.P.R. 23 gennaio 1973 n. 43 e 483 cod. pen. L’istanza di restituzione era stata proposta, nell’interesse di NOME, dopo la definizione del procedimento (avvenuta in data 8 novembre 2013 per intervenuta prescrizione), perché il Giudice non aveva disposto sul corpo di reato. NOME propose ricorso per Cassazione contro il provvedimento di rigetto, ma la Terza Sezione penale di questa Corte con ordinanza n. 1518/19 del 14 ottobre 2018 qualificò il ricorso come opposizione ai sensi dell’art. 667, comma 4, cod. proc. pen. e dispose la trasmissione degli atti al Tribunale di Napoli.
Con ordinanza del 18 maggio 2021, adottata de plano, il Giudice dell’esecuzione respinse l’opposizione e confermò la confisca.
Contro questo provvedimento, COGNOME propose ricorso deducendo: che la confisca era stata disposta senza che la sussistenza del fatto fosse stata accertata nel contraddittorio delle parti; che il Giudice aveva genericamente e apoditticamente sostenuto l’interesse culturale delle opere in sequestro senza motivare sul punto e richiamando l’art. 174 d.lgs. 22 gennaio 2004 n. 42, ma tale riferimento non era pertinente, atteso che COGNOME non era stato sottoposto ad indagini per aver illecitamente esportato i quadri, ma per aver cercato di farli rientrare in Italia senza denunciarli all’autorità doganale; che anche il riferiment all’art. 176 d.lgs. n. 42/2004 era improprio, atteso che, riguardo alle opere d’arte di cui si tratta, non poteva operare alcuna presunzione assoluta di appartenenza al patrimonio dello Stato; che nessun argomento era stato sviluppato a sostegno della ritenuta illecita circolazione delle opere, avvenuta all’estero a partire epoca remota e, comunque, molto precedente all’acquisto da parte di RAGIONE_SOCIALE.
Con sentenza n. 9456/22 del 16 gennaio 2022, il ricorso fu accolto e l’ordinanza impugnata fu annullata, con rinvio per nuovo esame al medesimo giudice dell’esecuzione, in diversa composizione personale, al quale fu chiesto: di instaurare un regolare contraddittorio tra le parti e di accertare «la ricorrenza degl elementi costitutivi dei reati ipotizzati in sede di archiviazione per prescrizione delle ragioni della loro attribuibilità all’indagato (e attuale ricorrente)».
Nel fissare i principi di diritto cui il giudice del rinvio avrebbe dovuto attener
la sentenza di annullamento osservò (pagg. 6 e 7 della motivazione):
che non era sufficiente a disporre la confisca la constatazione che i beni in sequestro costituivano oggetto del reato di contrabbando senza altro aggiungere , o specificare, né in ordine alle opere e alle loro qualità e caratteristiche, né alla condotta;
che, anche con riferimento alle ipotizzate violazioni del d.lgs. n. 42/2004, era necessario chiarire quale condotta fosse stata attribuita al ricorrente e, in particolare, se egli avesse realizzato «un indebito trasferimento all’estero di cose di interesse artistico, sanzionato dall’art. 174, comma 1, d.lgs. n. 42 del 2004, che consente la confisca delle cose ai sensi del terzo comma della medesima disposizione», ovvero (in alternativa) se egli si fosse impossessato di beni culturali appartenenti allo Stato, così realizzando il reato di cui all’art. 176 d.lgs. n. 42/2004 «che però riguarda solamente i beni, tra quelli di cui all’art. 10 , che appartengono allo Stato ai sensi dell’art. 91 e cioè le cose indicate nell’art. 10 da chiunque e in qualunque modo ritrovate nel sottosuolo o sui fondali marini».
Con riferimento al reato di cui all’art. 174, comma 1, d.lgs. n. 42/2004 la sentenza rescindente rilevò che i beni sottoposti a confisca erano stati sequestrati nel porto di Napoli al momento del loro ingresso in Italia e nell’ordinanza impugnata non v’era alcun riferimento «a precedenti indebiti trasferimenti dall’Italia verso l’estero» (pag. 6 della motivazione). Quanto al reato di cui all’art. 176 d.lgs. n.42/2004, con la sentenza di annullamento fu sottolineato: che l’ordinanza impugnata non aveva indicato «le ragioni di fatto in base alle quali i beni confiscati dovrebbero essere ritenuti appartenenti allo Stato» essendo necessario a tal fine «l’accertamento del cosiddetto interesse culturale, o che i medesimi presentino un particolare pregio o siano qualificati come culturali da un provvedimento amministrativo»; che «tali accertamenti non sono necessari solamente nel caso di beni appartenenti allo Stato, mentre essi occorrono per quelli, come le opere pittoriche su tela, suscettibili di possesso anche da parte di privati, in relazione ai quali non opera la presunzione assoluta di appartenenza allo Stato di cui all’art. 91».
Investito della richiesta di dissequestro quale giudice di rinvio, con ordinanza del 29 giugno 2024, oggetto del presente ricorso, il Giudice per le indagini preliminari del Tribunale di Napoli ha disposto:
la restituzione all’avente diritto di due dei reperti in sequestro (punti 23 e 28 dell’allegato n. 3 al citato verbale);
la «definitiva confisca e attribuzione all’Erario» delle altre nove opere pittoriche in sequestro (punti 24, 25, 26, 27, 29, 30, 31 e 32 dell’allegato 3 al citato verbale).
Per meglio comprendere i termini della questione e i motivi di ricorso si deve chiarire che il Giudice dell’esecuzione ha disposto un accertamento peritale sulle opere delle quali è stata chiesta la restituzione e tale accertamento si è svolto nel contraddittorio delle parti. L’ordinanza impugnata riferisce (pag. 4) che, secondo la (non contestata) valutazione del perito, nove di queste opere sono «di pregio assoluto, di importante rilievo storico e artistico, appartenenti a scuole pittoriche quotate, recanti tracce rilevanti nell’ambito della storia dell’arte». U di queste inoltre – la «Madonna con Bambino» reperto 10 dell’allegato n. 3 al verbale di sequestro – è stata oggetto «sin dal 1923 di una notifica di interesse culturale».
Muovendo da queste premesse, il Giudice dell’esecuzione ha ritenuto che le nove opere cui il perito ha attribuito le caratteristiche sopra indicate dovessero essere confiscate perché rientranti tra i beni mobili che presentano interesse artistico e storico appartenenti allo Stato. Ha ritenuto, dunque, che, nel caso di specie, non fosse necessaria la dichiarazione di interesse culturale di cui all’art. 13 d.lgs. n. 42/2004; dichiarazione richiesta – ai sensi dell’art. 10, comma 3, lett. del medesimo decreto – «per le cose immobili e mobili che presentano interesse artistico, storico e archeologico o etnoantropologico particolarmente importante» solo se «appartenenti a soggetti diversi da quelli indicati al comma 1».
Secondo il Giudice dell’esecuzione:
la disciplina prevista dal d.lgs. n. 42/2004 «costituisce l’ideale prosecuzione e sintesi di tutta la legislazione precedente in materia, dove non espressamente abrogata, a partire dal R.D. 30 gennaio 1913 n. 363, vigente all’epoca della dichiarazione di interesse relativa alla Madonna con Bambino» reperto 10 dell’allegato n. 3 al verbale di sequestro;
poiché i beni culturali di cui si tratta sono «opere di eccezionale riliev artistico, molto rilevanti dal punto di vista culturale perché provenienti da scuol pittoriche italiane del 1300 e del 1400 al più tardi», l’esportazione definitiva vietata dall’art. 65, commi 1 e 2, d.lgs. n. 42/2004 senza che sia necessaria la notifica di una dichiarazione di interesse culturale;
pertanto, queste opere sono state «oggetto, negli anni, di esportazione illecita» penalmente rilevante ai sensi dell’art. 174 d.lgs. n. 42/2004 (ogg confluito nell’art. 518 undecies cod. pen.);
L’ordinanza impugnata sostiene:
che «il precetto sanzionatorio di cui al citato art. 174 non fa riferimento ai soli beni culturali riconosciuti tali con la dichiarazione prevista dall’art. 13 Codice dei beni culturali e del paesaggio, ma, più in generale, a cose di interesse artistico, storico, archeologico, etnoantropologico, bibliografico, documentale
archivistico, in maniera da tutelare le cose che sarebbero suscettibili di dichiarazione di interesse culturale, anche qualora quest’ultima non sia concretamente intervenuta»;
che, pertanto, costituisce reato l’esportazione di ogni bene di indubbio rilievo culturale che avvenga «senza attestato di libera circolazione o licenza di esportazione», provvedimenti la cui mancanza è la sola condizione richiesta per l’esistenza del reato;
che tali documenti non furono chiesti né ottenuti «da RAGIONE_SOCIALE e/o dai suoi danti causa» e, infatti, il ricorrente non ha prodotto documentazione attestante la regolarità dei suoi acquisti, ma tutte le opere si trovavano negli Stati Uniti (vi erano state dunque illegittimamente esportate) e da lì RAGIONE_SOCIALE le ha spedite in Italia, occultate in doppi fondi ricavati in un container, indicando nella polizza ci carico che quel container conteneva «masserizie ed effetti personali» del valore dichiarato di € 2.000 (poi rettificato in € 12.000-15.000);
che pertanto egli non può considerarsi «estraneo» al reato di cui all’art. 174 d.lgs. n. 42/2004 del quale le opere costituiscono il provento;
che i beni provento di questo reato, come espressamente previsto dallo stesso art. 174, al comma 3, «salvo che appartengano a persona estranea al reato» sono sempre soggetti a confisca;
che il ricorrente si occupa professionalmente del commercio di opere d’arte ed era consapevole del loro valore e pregio storico-artistico.
2.1. Il Giudice dell’esecuzione ha espressamente escluso che fossero applicabili nel caso di specie le fattispecie incriminatrici previste dall’art. 518 decies cod. pen. (importazione illecita di beni culturali) e 518 octies cod. pen. (falsificazione di scrittura privata relativa a beni culturali) perché introdot nell’ordinamento in epoca successiva ai fatti (con la legge 9 marzo 2022 n. 22). Ha omesso, inoltre, ogni riferimento all’art. 176 d.lgs. n. 42/2004 (impossessamento illecito di beni culturali appartenenti allo Stato) perché – come già aveva rilevato la sentenza rescindente – questa norma riguarda soltanto i beni culturali appartenenti allo Stato ai sensi dell’articolo 91 del medesimo decreto e, quindi, solo i beni culturali trovati nel sottosuolo o sui fondali marini.
Ha escluso, infine, che la confisca dovesse essere disposta ai sensi dell’art. 301 d.P.R. 23 gennaio 1973 n. 43 in materia di contrabbando doganale perché ha ritenuto che la dichiarazione doganale con la quale NOME aveva falsamente affermato di voler importare masserizie di esiguo valore integrasse l’illecito amministrativo di cui all’art. 303 d.P.R. n. 43/1973 così rubricato «Differenze rispetto alla dichiarazione di merci destinate alla importazione definitiva, al deposito o alla spedizione ad altra dogana». La statuizione sul punto è definitiva e dunque non v’è ragione di valutare se tale qualificazione giuridica sia
corretta o il fatto potesse essere inquadrato entro l’ambito operativo della fattispecie di cui agli artt. 292 e 295, comma 2, lett. c) del T.U. doganale per la quale era avvenuta l’iscrizione nel registro notizie di reato e alla quale fa riferimento il decreto di archiviazione dell’8 novembre 2013.
Contro l’ordinanza del 29 giugno 2024 (depositata il 10 luglio 2024) NOME COGNOME ha proposto tempestivo ricorso per mezzo dei difensori di fiducia muniti di procura speciale.
Il ricorso consta di un unico articolato motivo col quale il ricorrente deduce: violazione dell’art. 627, comma 3, cod. proc. pen. sostenendo che il giudice di rinvio non si sarebbe attenuto ai principi di diritto enunciati nella sentenza di annullamento; violazione dell’art. 2, comma 1, cod. pen. anche con riferimento agli artt. 25, comma 2, Cost. e 7 CEDU, per essere stata fatta applicazione retroattiva di una norma (l’art. 174 d.lgs. n. 24/2004) che non era in vigore quando la ritenuta esportazione illecita si verificò; violazione degli artt. 10 e 174 d.lgs. n. 24/2004 e vizi di motivazione per essere stata ritenuta applicabile la fattispecie incriminatrice di cui al citato art. 174 anche in relazione a opere per le quali non vi è stata la dichiarazione di interesse culturale di cui all’art. 13 d.lg n. 24/2004; violazione dell’art. 174, comma 3, d.lgs. n. 24/2004 e vizi di motivazione per essere stata disposta la confisca sull’assunto che NOME non fosse estraneo a reati non attribuibili a lui né sotto il profilo oggettivo né sotto profilo soggettivo.
A sostegno di questi motivi la difesa osserva quanto segue.
Come il perito ha precisato (pag. 32 dell’elaborato peritale), «nessuna delle opere d’arte di cui si discute risulta essere mai stata inserita nella Banca dati dei beni culturali illecitamente sottratti gestita dal Ministero della Cultura».
La «Madonna con Bambino» (indicata in perizia al n. 10 – reperto 31 dell’allegato 3 al decreto di sequestro) è l’unica opera dichiarata di interesse culturale ed è stata oggetto di tale dichiarazione nel 1923, ma risulta essere stata venduta in epoca precedente alla notifica del provvedimento ad un collezionista belga che la portò a Bruxelles e, il 30 giugno 1965, fu venduta dalla Casa d’aste RAGIONE_SOCIALE‘s ad un collezionista londinese (NOME COGNOME) che in epoca successiva, ma non accertata, la portò New York.
La perizia ha collocato nel tempo anche l’esportazione dall’Italia delle altre opere (nessuna delle quali è stata dichiarata di interesse culturale ai sensi dell’art. 13 d.lgs. n. 42/2004) e si tratta sempre di esportazioni assai risalenti nel tempo: la più recente, avvenuta presumibilmente nel 1996, è quella accertata per l’opera «NOME COGNOME sul ponte Sublicio» (indicata in perizia col n. 5 – reperto 27 dell’allegato 3 al decreto di sequestro).
Osserva la difesa, che l’art. 174 d.lgs. n. 42/2004 è stato introdotto in epoc:a ben successiva a quella in cui le opere furono esportate sicché il giudice avrebbe dovuto verificare, opera per opera, «quale fosse il regime vincolistico presente al tempo della esportazione e se vi fosse (e quale fosse) una disposizione incriminatrice alla quale ricondurre l’illecita esportazione» (così testualmente pag. 14 e 15 dell’atto di ricorso). I difensori sostengono inoltre che, diversamente da quanto sostenuto nell’ordinanza impugnata, tutti i beni diversi da quelli di cui all’art. 91 d.lgs. n. 42/2004 – e quindi tutte le cose diverse da quelle «indicate nell’art. 10 da chiunque e in qualunque modo ritrovate nel sottosuolo o sui fondali marini» – possono essere oggetto di proprietà tanto dello Stato quanto dei privati, sicché l’esportazione illecita delle opere in parola avrebbe potuto essere ipotizzata solo ai sensi dell’art. 10, comma 3, lett. a) d.lgs. n. 42/2004 e se fosse intervenuta la dichiarazione di interesse culturale prevista dal citato art. 13.
La difesa rileva che la sentenza rescindente aveva esplicitamente chiesto al giudice di rinvio (pag. 7) di «dare atto delle ragioni che consentono di ritenere sussistenti tutti gli elementi costitutivi dei reati ipotizzati a carico del ricorr , nonché delle ragioni, in relazione alle fattispecie di reato ravvisabili considerazione della natura e della qualità dei beni che ne sono stati l’oggetto e delle modalità della condotta, che consentono di disporre la confisca delle opere in sequestro» e sostiene che l’ordinanza impugnata ha disatteso questi principi perché non ha individuato alcun elemento oggettivo che possa ricollegare Almagià alle pregresse condotte di asserita esportazione illecita, contestandogli solo (con palese inversione dell’onere della prova) di non aver fornito documentazione idonea a comprovare le modalità di acquisto delle opere d’arte di cui si tratta. Rileva, inoltre, che il ricorrente ha prodotto – per quanto possibile in ragione del lungo tempo trascorso – documentazione atta a comprovare le modalità dell’acquisto, avvenuto, nella massima parte, da «galleristi noti e al di sopra di ogni sospetto ovvero addirittura da Case d’asta rinomate a livello internazionale». Sostiene che, per il tempo trascorso – e perché, in alcuni casi, si tratta di beni pervenuti in successione al ricorrente dal padre NOME COGNOME – non può stupire che la documentazione riguardante l’acquisto di ciascuna opera non sia stata rinvenuta e prodotta. Rileva peraltro che, pur in mancanza di tale documentazione, sarebbe stato onere dell’accusa provare il coinvolgimento del ricorrente nelle illecite esportazioni, asseritamente avvenute ad opera di terzi ben prima che RAGIONE_SOCIALE acquistasse le opere di cui si tratta. Corte di Cassazione – copia non ufficiale
La difesa osserva, infine (pag. 29 e 30 dell’atto di ricorso):
che la giurisprudenza cui fa riferimento l’ordinanza impugnata, secondo la quale la protezione assicurata dall’art. 174 d.lgs. n. 42/2004 si estende a tutti i beni “oggettivamente” culturali indipendentemente dal fatto che siano stati
oggetto di una preventiva e formale dichiarazione di interesse culturale, «amplia ben oltre il testo della legge il concetto di bene culturale sottoposto a protezione penale rispetto a quello precisamente definito dall’art. 10, comma 3, d.lgs. n. 42/2004»;
che si tratta di una giurisprudenza «formatasi nell’ultimo quindicennio» e quindi «in epoca successiva all’acquisto delle opere da parte di RAGIONE_SOCIALE e del lorD rimpatrio in Italia, avvenuto nel 2006»;
che l’introduzione di tale nuovo concetto oggettivo di “bene culturale” rappresenta una «evoluzione giurisprudenziale del tutto imprevedibile all’epoca in cui Almagià ha effettuato l’acquisto» delle opere in sequestro, la circolazione delle quali, «in assenza di qualsiasi formale dichiarazione di interesse proveniente dall’Autorità amministrativa», egli poteva ritenere pienamente legittima.
In sintesi, secondo la difesa, la motivazione dell’ordinanza impugnata non consente di comprendere perché l’odierno ricorrente non sarebbe estraneo alle condotte di pregressa esportazione delle opere e perché «non dovrebbe considerarsi in buona fede quando le ha acquistate presso Case d’asta di fama internazionale, ovvero presso importanti gallerie».
Il Procuratore Generale ha depositato conclusioni scritte chiedendo il rigetto del ricorso.
La difesa ha replicato con memoria del 6 novembre 2024.
CONSIDERATO IN DIRITTO
1. Il ricorso è infondato.
Per ragioni di logica espositiva devono essere esaminati per primi i rilievi formulati dalla difesa in ordine alla interpretazione e applicazione delle norme in materia di tutela del patrimonio artistico e alla pretesa applicazione retroattiva dell’art. 174 d.lgs. n. 42/2004.
2.1. Già con la legge 20 giugno 1909 n. 364 il legislatore introdusse disposizioni a tutela delle «antichità e belle arti». Erano soggette alle disposizioni di quella legge, ai sensi dell’art. 1, «le cose immobili e mobili che abbiano interesse, storico, paletnologico o artistico». Nel 1927, tale ambito operativo fu esteso (dal Regio decreto-legge 24 novembre 2027 n. 2461 convertito nella legge 31 maggio 1928 n. 1240) anche alle cose immobili e mobili di interesse «paleontologico».
La legge del 1909 stabiliva:
che le cose indicate nell’art. 1 fossero inalienabili se di proprietà dello Stato, dei Comuni delle Provincie, di «fabbricerie e confraternite», di «enti morali ecclesiastici e di qualsiasi natura» e di «ogni ente morale riconosciuto» e che la vendita di queste cose potesse essere autorizzata solo con provvedimento ministeriale «quando non derivi danno alla loro conservazione e non ne sia menomato il pubblico godimento» (art. 2 legge n. 364/1909);
che le cose indicate nell’art. 1 di proprietà di soggetti privati cui era sta «notificato, nelle forme stabilite dal regolamento, l’importante interesse» non potessero essere cedute a terzi senza che il proprietario ne facesse «denuncia al Ministero della pubblica istruzione» (art. 5 legge n. 364/1909).
L’art. 8 della legge n. 364/1909, si occupava dell’esportazione delle cose di «interesse storico, archeologico o artistico» vietandola, se costituiva «un danno grave per la storia, l’archeologia o l’arte, ancorché per tali cose non sia stata fatta la diffida di cui all’art. 5». Se il proprietario di cose indicate nell’art. 1 inten esportarle, doveva «farne denunzia all’Ufficio esportazione» che doveva valutare se l’esportazione fosse gravemente dannosa per la storia, l’archeologia o l’arte. In caso positivo, l’esportazione era vietata; in caso negativo, era rilasciata licenza di esportazione e indicato l’importo della tassa dovuta. Ai sensi dell’art. 33 della legge in esame, «l’esportazione consumata o tentata» delle cose di cui all’art. 1, era considerata contrabbando e punita ai sensi del testo unico della legge doganale: «a) quando la cosa non sia presentata alla dogana; b) quando la cosa sia presentata, ma con falsa dichiarazione, o nascosta, o frammista ad oggetti di altro genere, in modo da far presumere il proposito di sottrarla alla licenza di esportazione e al pagamento della tassa relativa».
Fin dal 1909, dunque, l’esportazione delle cose di interesse storico archeologico o artistico era vietata in linea di principio e consentita solo previa autorizzazione delle autorità competenti, a prescindere dal fatto che si trattasse di beni appartenenti allo Stato, a enti pubblici, morali o ecclesiastici, oppure a privati e – in quest’ultimo caso – anche a prescindere dal fatto che il bene fosse già stato dichiarato di «importante interesse». Anche in mancanza di tale dichiarazione, infatti, la denuncia di esportazione era necessaria per consentire alle autorità preposte di valutare se l’uscita del bene dal territorio italiano potesse essere consentita o fosse gravemente dannosa per lo Stato. La violazione dell’art. 33 legge 364/1909 comportava la confisca della cosa.
2.2. La legislazione successiva ha modificato la disciplina appena descritta, ma non ne ha mutato l’impostazione.
La legge 10 giugno 1939 n. 1089 (Tutela delle cose di interesse artistico o storico), infatti, manteneva la distinzione tra cose di proprietà pubblica e cose di
proprietà di privati delle quali sia stato «notificato l’interesse particolarmente importante», ma anche questa legge, all’art. 35, vietava l’esportazione delle cose indicate nell’art. 1 (contenente un elenco più ampio di quello previsto dall’art. 1 legge 364/1909) «quando presentino tale interesse che la loro esportazione costituisca un ingente danno per il patrimonio nazionale». Anche la legge n. 1089/39 stabiliva, quale condizione della liceità dell’esportazione di qualsiasi bene di interesse artistico o storico, che il proprietario avesse fatto denuncia di esportazione e ottenuto la relativa licenza (art. 36). L’art. 66 legge n. 1086/1939 puniva con la multa «l’esportazione, anche soltanto tentata, delle cose previste dalla presente legge: a) quando la cosa non sia presentata alla dogana; b) quando la cosa sia presentata, ma con dichiarazione falsa o dolosamente equivoca, ovvero venga nascosta o frammista ad oggetti per sottrarla alla licenza di esportazione e al pagamento della tassa relativa». Stabiliva, inoltre, al comma 3, che la cosa dovesse essere confiscata «in conformità delle norme della legge doganale relative alle cose oggetto di contrabbando». Quest’ultima disposizione fu dichiarata illegittima dalla Corte costituzionale con sentenza n. 2 del 1987 «nella parte in cui prevede la confisca di opere tutelate ai sensi dell’art. 1 della L. n. 1089 del 1939 che siano state oggetto di esportazione abusiva, anche quando risultino di proprietà di un terzo che non sia l’autore del reato e non ne abbia tratto in alcun modo profitto».
Per quanto riguarda i beni appartenenti a privati, dunque, ai sensi della legge n. 1089/39 (così come per la legge n. 364/1909), il divieto di esportazione non riguardava i soli beni per i quali fosse stato «notificato l’interesse particolarmente importante». Nel vigore della legge n. 1089/39, infatti, la giurisprudenza di legittimità ebbe occasione di affermare: «Il delitto di cui all’art. 66 legge 10 giugno 1939, n. 1089, riguarda tutti i beni descritti dall’art. 1 legge detta, a prescindere dal fatto che siano stati o meno, oggetto di previa notifica ministeriale previsl:a dall’art. 3, comma primo. Pertanto, per l’ipotizzabilità del reato e per la conseguente obbligatoria confisca è sufficiente che la cosa abbia un intrinseco valore storico od artistico, stante la finalità della legge di impedire in ogni modo la esportazione clandestina di beni culturali» (Sez. 2, n. 1253 del 28/02/1995, COGNOME, Rv. 201588).
2.3. La legge 30 marzo 1998 n. 88 – che ha modificato, aggiornandola, la legge n. 1089/39 – non ne ha mutato l’impianto.
Dopo le modifiche introdotte dalla legge n. 88/1998, infatti, l’art. 35 della legge n.1089/39 stabiliva: al comma 1, «È vietata, se costituisca danno per il patrimonio storico e culturale nazionale, l’uscita dal territorio della Repubblica dei beni di cui all’art. 1 , che, in relazione alla loro natura o al contesto s culturale di cui fanno parte, presentino interesse storico, artistico, archeologico,
etnografico, bibliografico, documentale o archivistico»; al comma 4, «Per i beni culturali non assoggettati ai divieti del presente articolo i competenti uffici esportazione rilasciano l’attestato di libera circolazione»; al comma 5, «nella valutazione circa il rilascio o il rifiuto dell’attestato di libera circolazione, gli di esportazione si attengono agli indirizzi di carattere generale stabiliti da Consiglio nazionale per i beni culturali e ambientali».
Ai sensi dell’art. 36 nel nuovo testo, inoltre, chi voleva «far uscire dal territori della Repubblica beni culturali» era tenuto a «farne denuncia e presentarli ai competenti uffici di esportazione, indicando, contestualmente e per ciascuno di essi, il valore venale». L’ufficio di esportazione, accertata la congruità del valore indicato, doveva rilasciare o negare «con motivato giudizio, l’attestato di libera circolazione». Il comma 4, dell’art. 36 legge 1089/39 (come modificato dalla legge n. 88/98) stabiliva che l’attestato di libera circolazione (di validità triennale) fos redatto in tre originali, uno dei quali «è consegnato all’interessato e deve accompagnare la circolazione del bene».
Nel modificare l’art. 66 della legge 1089/39, la legge n. 88/98 non ne ha ristretto l’ambito operativo. Ha stabilito, infatti, la pena della reclusione o del multa per «chiunque trasferisce negli Stati membri dell’Unione Europea o esporta verso paesi terzi cose di interesse artistico, storico archeologico, etnografico, bibliografico, documentale o archivistico senza aver ottenuto il prescritto attestato di libera circolazione o la prescritta licenza di esportazione».
Quanto alla confisca, adeguando il dettato normativo alla citata sentenza n. 2/1987 della Corte costituzionale, il legislatore ha stabilito: «il giudice dispone la confisca delle cose, salvo che queste appartengano a persona estranea al reato. La confisca ha luogo in conformità delle norme della legge doganale, relative alle cose oggetto di contrabbando».
2.3. Anche il Testo Unico delle disposizioni legislative in materia di beni culturali e ambientali di cui al d.lgs. 29 ottobre 1999 n. 490 (in vigore dall’1.1 gennaio 2000 al 30 aprile 2004) disciplinava la dichiarazione di particolare interesse dei beni culturali appartenenti a privati. Ai sensi dell’art. 10, comma 2, del citato Testo unico le disposizioni del Titolo I, capo II, sezioni I e II, del Capo III, sezioni I e II si applicavano alle cose indicate nell’art. 2, comma 1, lett. a) di proprietà privata («cose immobili e mobili che presentano interesse artistico, storico archeologico, o demo-etno-antropologico»), nonché ai beni indicati nell’art. 2, comma 4, lett. c), («gli archivi e i singoli documenti, appartenenti privati, che rivestono notevole interesse storico») «solo se intervenuta la notifica» della dichiarazione di particolare interesse. Questo limite non riguardava, però, le disposizioni del Titolo I, capo IV, nelle quali era disciplinata la circolazione i ambito internazionale dei beni culturali e, infatti, l’art. 65 del d.lgs. n. 490/
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(c25J
vietava l’uscita dal territorio della Repubblica di tutti i beni «indicati nell’art. di quelli indicati nell’art. 3, comma 1, lett. a), e) ed f)], se «costituisce danno p il patrimonio storico e culturale nazionale», senza distinguere tra i beni privati per i quali fosse intervenuta la notifica di particolare interesse e quelli per i quali t notifica non era intervenuta.
Ai sensi dell’art. 123 d.lgs. n. 490/99: «chiunque trasferisce all’estero cose di interesse artistico, storico, archeologico, demo-etno-antropologico, bibliografico, documentale o archivistico, nonché quelle indicate dall’art. 3, comma 1, lettere d), e), f), senza attestato di libera circolazione o licenza di esportazione» è punito con la reclusione o con la multa. L’art. 123, comma 3, prevedeva inoltre (riproducendo il testo dell’art. 66 legge n. 1089/39 come sostituito dalla legge n. 88/98) la confisca obbligatoria delle cose illecitamente esportate «salvo che queste appartengano a persona estranea al reato.».
2.4. Non difforme è la disciplina contenuta nel d.lgs. 22 gennaio 2004 n. 42 (codice dei beni culturali e del paesaggio) cui il provvedimento impugnato Fa riferimento.
Se è vero, infatti, che ai sensi dell’art. 10 , comma 3, lett. a) di questo decreto sono beni culturali «quando sia intervenuta la dichiarazione prevista dall’articolo 13: a) le cose immobili e mobili che presentano interesse artistico, storico, archeologico o etnoantropologico particolarmente importante, appartenenti a soggetti diversi da quelli indicati al comma 1» (vale a dire a soggetti privati); è pur vero che, ai sensi dell’art. 65, comma 3, lett. a) d.lgs. n. 42/2004 (nel testo vigente all’epoca del sequestro), fuori dai casi previsti dai commi 1 e 2 (ove si fa riferimento ai beni culturali mobili indicati nell’art. 10, commi 1, 2 e 3), «è soggetta ad autorizzazione, secondo le modalità stabilite nella presente sezione e nella sezione II dì questo Capo, l’uscita definitiva dal territorio della Repubblica: a) delle cose, a chiunque appartenenti, che presentino interesse culturale, siano opera di autore non più vivente e la cui esecuzione risalga ad oltre cinquanta anni».
L’art. 65, comma 3, lett. a) è stato modificato dalla Legge 4 agosto 2017, n. 124 che ha portato da cinquanta a settant’anni prima l’epoca cui deve risalire l’esecuzione di un’opera perché la stessa possa presentare interesse culturale e ha limitato l’autorizzazione all’esportazione alle opere «il cui valore, fatta eccezione per le cose di cui all’allegato A, lettera B, numero 1, sia superiore ad euro 13.500». Tale modifica – certamente favorevole all’esportatore – non rileva nel caso oggetto del presente ricorso, atteso che tutte le opere delle quali il provvedimento impugnato ha disposto la confisca risalgono al 1300/1400 e il perito nominato dal Giudice ne ha indicato il valore in misura superiore a 13.500 euro (pag. 51 dell’elaborato peritale, prodotto dalla difesa in allegato all’atto di ricorso).
Ai sensi dell’art. 68 del d.lgs. n. 42/2004, «chi intende far uscire in INDIRIZZO
definitiva dal territorio della Repubblica le cose e i beni indicati nell’art. 65, comma 3, deve farne denuncia e presentarli al competente ufficio di importazione che può rilasciare o negare «con motivato giudizio, anche sulla base delle segnalazioni ricevute, l’attestato di libera circolazione». Il comma 5 stabilisce (come già stabiliva l’art. 36 della legge 1089/39, modificato dalla legge n. 88/98) che l’attestato di libera circolazione abbia validità triennale e sia redatto in tre origina uno dei quali «è consegnato all’interessato e deve accompagnare la circolazione dell’oggetto».
L’art. 174 d.lgs. n. 42/2004 punisce con la reclusione o con la multa: «chiunque trasferisce all’estero cose di interesse artistico, storico, archeologico, etnoantropologico, bibliografico, documentale o archivistico, nonché quelle indicate dall’art. 11, comma 1, lettere f), g) e h), senza attestato di liber circolazione o licenza di esportazione». Ai sensi del comma 3 (che riproduce il testo dell’art. 123, comma 3, d.lgs. n. 490/99 e dell’art. 66, comma 3, legge n. 1089/39 come modificato dalla legge n. 88/98) «il giudice dispone la confisca delle cose, salvo che queste appartengano a persona estranea al reato.».
2.5. Per concludere questo breve excursus normativo è doveroso ricordare che la legge marzo 2022 n. 22 (in vigore dal 23 marzo 2022) ha abrogato l’art. 174 d.lgs. n.42/04 e, attualmente, l’uscita o esportazione illecita di beni culturali punita dall’art. 518 undecies cod. pen., applicabile a chiunque trasferisca all’estero «beni culturali, cose di interesse artistico, storico, archeologico, etnoantropologico, bibliografico, documentale o archivistico o altre cose oggetto di specifiche disposizioni di tutela ai sensi della normativa sui beni culturali, senza attestato di libera circolazione o licenza di esportazione». La confisca dei beni illecitamente trasferiti all’estero è prevista, oggi, dall’art. 518 duodevicies cod. pen. in base al quale: «il giudice dispone in ogni caso la confisca delle cose indicate all’articolo 518 undecies, che hanno costituito l’oggetto del reato, salvo che queste appartengano a persona estranea al reato. In caso di estinzione del reato, il giudice procede a norma dell’articolo 666 del codice di procedura penale. La confisca ha luogo in conformità alle norme della legge doganale relative alle cose oggetto di contrabbando».
Da quanto esposto emerge: che l’esportazione di beni di interesse storico e artistico quali sono quelli oggetto del presente procedimento, è stata sempre vietata, in assenza di un provvedimento autorizzativo rilasciato dall’autorità competente, da tutte le leggi succedutesi dal 1909 ad oggi; che tale divieto ha costantemente riguardato anche beni di proprietà di privati in relazione ai quali non vi fosse stata la notifica dell’importante interesse culturale; che, fin dal 1909, per poter procedere a regolare esportazione, il proprietario di beni di interesse
storico artistico doveva denunciare l’intenzione di esportare, così da consentire agli uffici competenti di verificare se il bene potesse uscire dall’Italia l’esportazione dovesse essere vietata. A ciò deve aggiungersi che, come illustrato, l’esportazione di beni di valore artistico in mancanza di apposito provvedimento autorizzativo è stata prevista come reato, almeno a far data dal 1909.
La continuità nel tempo delle fattispecie incriminatrici – pur diverse tra loro è evidente, come è evidente che – a differenza di quanto sostenuto dalla difesa nei motivi di ricorso e nella memoria del 6 novembre 2024 – l’illecita esportazione non riguarda soltanto i beni di proprietà privata di importante interesse culturale, ma qualsiasi bene che abbia interesse storico o artistico. Perché una esportazione possa definirsi illecita, infatti, non è necessario che il bene esportato fosse già stato ritenuto di interesse artistico o storico, ma è necessario verificare che lo sia e in questo senso si è pronunciata la sentenza rescindente quando ha affermato (pag. 7 della motivazione) che, per verificare se fosse integrato il reato di illecit esportazione (o il reato di impossessamento illecito di beni culturali) era necessario accertare il «cosiddetto interesse culturale» e verificare se i beni «presentino un particolare pregio o siano qualificati come culturali da un provvedimento amministrativo». Tale accertamento, infatti, è sempre necessario, salvo che i beni appartengano allo Stato per presunzione di legge, ma tale presunzione è prevista dall’art. 91 d.lgs. n. 42/2004 (ed era prevista dalla legislazione previgente) solo per «le cose indicate nell’art. 10 da chiunque e in qualunque modo ritrovate nel sottosuolo o sui fondali marini». Al di fuori di questi casi, dunque, la “culturalità del bene deve essere accertata e – per giurisprudenza costante – può essere desunta dalle caratteristiche oggettive dei beni (Sez. 3, n. 24988 del 16/07/2020, COGNOME, Rv. 279756; Sez. 3, n. 24344 del 15/05/2014, COGNOME, Rv. 259305; Sez. 3, n. 41070 del 07/07/2011, COGNOME, Rv. 251295; Sez. 3, n. 35226 del 28/06/2007, COGNOME, Rv. 237403). Corte di Cassazione – copia non ufficiale
Come si è detto, la giurisprudenza di legittimità si era pronunciata in tal senso anche nel vigore della legge 1089/39 affermando che, per l’ipotizzabilità del delitto di cui all’art. 66 di questa legge e per la conseguente obbligatoria confisca «è sufficiente che la cosa abbia un intrinseco valore storico od artistico, stante la finalità della legge di impedire in ogni modo la esportazione clandestina di beni culturali» (Sez. 2, n. 1253 del 28/02/1995, COGNOME, Rv. 201588).
Alla luce di quanto già esposto, tale interpretazione è conforme alla lettera della legge e non si tratta – come la difesa vorrebbe sostenere – di una interpretazione estensiva. La sottoposizione a protezione penale comprende infatti, per espressa volontà legislativa, tutti i beni “oggettivamente” cultura indipendentemente dalla notifica di una preventiva e formale dichiarazione di interesse culturale.
Ne consegue che, a differenza di quanto sostenuto dalla difesa, per quanto rileva in questa sede il concetto di bene culturale cui si riferisce la tutela penale non è mutato nel corso del tempo né la giurisprudenza ne ha mutato l’interpretazione «nell’ultimo quindicennio».
Per verificare se sia stato commesso il delitto di esportazione illecita (un delitto che – come già chiarito – esiste dal lontano 1909) è dunque necessario verificare: in positivo, che il bene abbia un intrinseco valore storico o artistico; negativo, che sia uscito dal territorio nazionale in mancanza di un provvedimento a utorizzativo.
Nel caso oggetto del presente provvedimento la verifica dell’intrinseco valore storico artistico delle opere è stata compiuta sulla base di un accertamento peritale il cui contenuto, per questa parte, non è controverso.
La difesa sostiene, tuttavia, che, poiché l’esportazione risulta essere avvenuta in epoca molto risalente nel tempo, non sarebbe possibile escludere che un provvedimento autorizzativo vi fosse. Osservano i difensori che, nella quasi totalità dei casi, l’esportazione non è certamente stata compiuta da Almagià e l’ordinanza impugnata ha ritenuto che egli non fosse «estraneo al reato» ipotizzando un acquisto avvenuto in mala fede. Sostengono che la buona fede del ricorrente non può essere esclusa sol perché egli non è stato in grado di produrre un provvedimento di autorizzazione all’esportazione e la documentazione relativa all’acquisto delle opere.
La difesa rileva in proposito: che, come anche la perizia ha accertato, alcune delle opere che RAGIONE_SOCIALE cercò di trasferire dagli Stati Uniti all’Italia erano giunte negli Stati Uniti a seguito di vendite eseguite da case d’asta di fama internazionale; che non è noto se l’acquirente fosse proprio Almagià ed anzi, in alcuni casi, si può escludere che lo fosse. I difensori del ricorrente si dolgono, infine, che l’ordinanza impugnata abbia escluso la buona fede di RAGIONE_SOCIALE solo perché egli non ha esibito documentazione relativa all’acquisto e rileva che, per ciascuno dei beni sequestrati, il ricorrente ha fornito le informazioni a sua disposizione atte a comprovare la regolarità del possesso.
Questa Corte di legittimità ha già avuto modo di occuparsi della confisca di opere di valore artistico oggetto del reato di esportazione illecita commesso da ignoti e ha affermato:
che la confisca «deve essere disposta obbligatoriamente anche in caso di decreto di archiviazione emesso per cause che non attengono alla sussistenza del fatto, e salvo che la cosa appartenga a persona estranea al reato, anche se il privato non sia responsabile dell’illecito o comunque non abbia riportato condanna,
poiché trattasi di misura recuperatoria di carattere amministrativo la cui applicazione è rimessa al giudice penale a prescindere dall’accertamento di una responsabilità penale» (Sez. 3, n. 11269 del 10/12/2019, dep. 2020, The Pierpont Morgan Library, Rv. 278764 – 01; nello stesso senso, Sez. 3, n. 19692 del 21/03/2018, Gour, Rv 272870):
– che quando – come nel caso di specie – la cosa appartiene a un terzo, questi «in caso di collegamento del proprio diritto con l’altrui reato, ha l’onere di provare il proprio affidamento incolpevole ingenerato da una situazione di apparenza sulla liceità della provenienza del bene che renda scusabile l’ignoranza o il difetto di diligenza» (Sez. 3, Sentenza n. 11269 del 10/12/2019, citata, Rv. 278764 – 02).
5.1. L’art. 174, comma 3, d.lgs. n. 42/2004 e – in precedenza – l’art. 123, comma 3, d.lgs. n. 490/99 e l’art. 66, comma 3, legge n. 1089/39 come modificato dalla legge n. 88/98 espressamente escludono l’operatività della confisca se il bene appartiene a persona estranea al reato. Come si è detto, infatti, il testo originario dell’art. 66, comma 3, legge n. 1089/39, è stato dichiarato costituzionalmente illegittimo (con sentenza Corte cost. n. 2 del 1987) nella parte in cui prevedeva «la confisca di opere tutelate ai sensi dell’art. 1 della L. n. 1089 del 1939 che siano state oggetto di esportazione abusiva, anche quando risultino di proprietà di un terzo che non sia l’autore del reato e non ne abbia tratto in alcun modo profitto».
Come la citata sentenza n. 11269/2019 ha opportunamente chiarito (pag. 5 della motivazione), poiché la vendita di beni di valore storico o artistico avvenuta in violazione di legge è nulla, il concetto di “appartenenza” previsto dall’art. 174, comma 3, d.lgs. n. 42/2004 non coincide «con le categorie civilistiche di acquisto del diritto di proprietà». Se ne desume che, in questi casi, il legislatore ha sancito «la prevalenza della aspettativa (se anche così solo la si voglia definire) de terzo privato sul diritto di proprietà dello Stato». Ai fini della confisca, dunque, o un bene culturale appartenga, «in un senso anche atecnico» ad un terzo privato, è necessario verificare se detto terzo sia “estraneo” al reato.
Sul punto, la sentenza in esame, richiamando principi già affermati in precedenza, ha ritenuto (e si tratta di argomentazione che il Collegio condivide e alla quale intende dare continuità): «che non può considerarsi estraneo al reato, non solo chi abbia posto in essere un contributo di partecipazione o di concorso allo stesso, ma anche chi abbia ricavato vantaggi ed utilità da esso, ovvero qualsiasi giovamento dalla sua commissione, per tale dovendosi intendere qualsivoglia condizione di favore anche non materiale, derivante dal fatto costituente reato (Sez. 3, n. 22 del 30/11/2018, Clark, Rv. 274745; in motivazione, Sez. U., n. 9 del 28/04/1999, COGNOME, Rv. 213510); allo stesso tempo, tuttavia, deve restare fermo il limite – che solo consente di ritenere
compatibili le previsioni derogatorie incentrate su tale stretta nozione con l’art. 27, comma 1, Cost., secondo quanto anche affermato da Corte cost. n. 2 del 1987» rappresentato dalla connotazione soggettiva della “buona fede” del terzo, ovvero, come testualmente affermato dalle Sezioni Unite, dalla “non conoscibilità, con l’uso della diligenza richiesta dalla situazione concreta, del rapporto di derivazione della propria posizione soggettiva dal reato commesso”» (Sez. U., n. 9 del 28/04/1999, COGNOME, cit.)».
Da qui l’affermazione (resa esplicita dalla terza sezione penale nella sentenza n. 11269/2019, che la riprende dalla sentenza Sez. U n. 9/1999 ) secondo la quale il terzo ha l’onere «di provare i fatti costitutivi della pretesa fatta valere sulla c confiscata, ovvero di dare la dimostrazione di tutti gli elementi concorrenti ad integrare le condizioni di “appartenenza” e di “estraneità al reato”, dalle quali dipende l’operatività della situazione impeditiva o limitativa del potere di confisca esercitato dallo Stato»; affermazione alla quale si accompagna la precisazione che, «nell’ipotesi di collegamento del proprio diritto con l’altrui condotta delittuosa» terzo deve provare un «affidamento incolpevole ingenerato da una situazione di apparenza che rendeva scusabile l’ignoranza o il difetto di diligenza» (sentenza n. 11269/2019, pag. 6 della motivazione)
Applicando questi principi al caso in esame, l’ordinanza impugnata ha ritenuto che, essendo evidente il particolare pregio artistico o storico dei quadri di cui si tratta, ed essendo NOME COGNOME esperto della materia e collezionista di opere d’arte (come già, prima di lui, esperti della materia e appassionati collezionisti erano la madre e il padre, NOME COGNOME), la “buona fede” del ricorrente non potesse essere desunta – in mancanza di ogni documentazione relativa ai passaggi intermedi – solo dal fatto che alcune opere (non tutte invero) risultino essere state acquistate presso case d’asta rinomate oppure presso importanti gallerie. Ha sottolineato inoltre che, quando furono sequestrate, le opere erano nascoste nel doppio fondo di un container.
La motivazione fornita non presenta profili di contraddittorietà o manifesta illogicità, è conforme alle indicazioni fornite dalla sentenza rescindente e non contrasta con i principi di diritto sopra illustrati.
Ed infatti, esaminando in estrema sintesi, le vicende relative a ciascuna opera d’arte così come ricostruite dal perito e riportate nell’ordinanza impugnata si comprende quanto segue.
6.1. Il reperto indicato col n. 24 nell’allegato 3) al verbale di sequestr (indicato dal perito come reperto n. 2) compare in un catalogo Sotheby’s relativo ad un’asta tenutasi il 9 luglio 1975 con l’indicazione della generica «provenienza da un gentiluomo» e non è noto chi ne sia stato l’acquirente. NOME ha sostenuto
di averlo acquistato all’asta nel 1997 presso la galleria Tajan di Parigi, ma non ha prodotto documentazione in tal senso sicché si tratta di una mera all gazione che non trova riscontro negli accertamenti peritali (pag. 41 dell’elaborato peritale).
6.2. Il reperto indicato col n. 25 nell’allegato 3) al verbale di sequestro (indicato dal perito come reperto n. 3), risulta essere uscito dall’Italia e portat negli Stati Uniti tra il 1934 e il 1943. Il ricorrente documenta fotograficamente che, in data non certa, il quadro era in una casa (forse a casa del padre) e prova per testi (dichiarazioni rese da NOME COGNOME al difensore di NOME) che nei primi anni ’90 custodiva l’opera nella propria abitazione a New York. Sostiene che l’opera fu acquistata nel 1948 dal padre, NOME COGNOME, presso la Casa d’aste Parke-Bernet di New York, ma non fornisce documentazione a sostegno di tale affermazione e non è manifestamente illogico aver ritenuto che, se l’acquisto fosse regolarmente avvenuto, la relativa documentazione (atta anche a dimostrare il valore dell’opera) sarebbe stata diligentemente custodita. A ciò deve aggiungersi che, come il perito riferisce a pag. 42 del proprio elaborato, «la ricerca sui cataloghi della galleria d’aste Parke-Bernet di New York, per il periodo indicato dal ricorrente, ha dato esito negativo».
6.3. Il reperto indicato col n. 26 nell’allegato 3) al verbale di sequestro (indicato dal perito come reperto n. 4), compare a Parigi nel 1992 in un’asta tenuta da NOME COGNOME presso l’Hotel Drouot. Il bene era dunque uscito dall’Italia in epoca precedente al 1992. Il ricorrente sostiene di averlo acquistato nell’asta svoltasi all’Hotel Drouot, ma anche in questo caso si tratta di mera allegazione e non è illogico aver ritenuto che la documentazione relativa ad un tale acquisto, se regolarmente eseguito, sarebbe stata diligentemente custodita.
6.4. Il reperto indicato col n. 27 nell’allegato 3) al verbale di sequestro (indicato dal perito come reperto n. 5), appare a Roma, nel 1996, ad un’asta RAGIONE_SOCIALE, non sono note le identità del proprietario che aveva chiesto la vendita e neppure quella dell’acquirente. Nello stesso anno l’opera è genericamente segnalata da Christie’s, ma il perito riferisce che non compare sui cataloghi dì questa casa d’aste (da lui esaminati) nel periodo compreso tra il 1995 e il 1997. In sintesi: l’opera risulta essere uscita dall’Italia nel 1996; l’esportazione no risulta autorizzata; non sono noti altri spostamenti e passaggi proprietari; il ricorrente non ha fornito indicazioni specifiche sulle modalità con le quali ne entrato in possesso.
6.5. I due reperti unitariamente indicati col n. 29 nell’allegato 3) al verbale di sequestro (indicati dal perito come reperti n. 7 e 8), sono segnalati a New York, presso la galleria Piero COGNOME, nel 1984. Il ricorrente ha dichiarato di averl acquistati presso quella galleria nel 1986, ma non ha prodotto documentazione relativa all’acquisto. Risulta, inoltre, che nel 1983, la società «RAGIONE_SOCIALE chiese
l’autorizzazione alla importazione temporanea dalla Svizzera di queste opere per esporle alla Mostra Mercato Internazionale d’antiquariato di Firenze; che queste opere non furono mai effettivamente esposte in Italia e, tuttavia, fu richiesta una licenza di esportazione definitiva in favore della stessa «RAGIONE_SOCIALE», che fu concessa il 4 ottobre 1983.
L’ordinanza impugnata osserva che la «RAGIONE_SOCIALE» è risultata inesistente e nel 1986, durante le indagini, furono sequestrate ad Almagià fatture in bianco su carta intestata «RAGIONE_SOCIALE» (una denominazione simile a quella della inesistente «RAGIONE_SOCIALE). Secondo il Giudice di merito, ciò fa pensare che la simulata importazione possa essere avvenuta ad opera del ricorrente al fine di ottenere fraudolentemente una regolare licenza di esportazione. La difesa si duole di tale argomentazione sostenendone il carattere meramente congetturale, ma ai fini che qui interessano, da questa argomentazione si può prescindere.
Si deve rilevare, infatti, che RAGIONE_SOCIALE ha sostenuto di aver acquistato i reperti nel 1986 presso la galleria INDIRIZZO di New York e, se così fosse, egli avrebbe dovuto essere in possesso della licenza di esportazione del 1983 che, invece, non ha prodotto. Ne consegue che gli indizi evidenziati nell’ordinanza non consentono di ritenere né apodittica, né manifestamente illogica la motivazione con la quale il Giudice dell’esecuzione ha sostenuto che la licenza di esportazione fu fraudolentemente ottenuta a seguito di una importazione fittizia e non rileva se tale fittizia importazione sia ascrivibile ad RAGIONE_SOCIALE o a terzi. V’è prova, infatti, c i due reperti erano usciti clandestinamente dall’Italia in epoca anteriore al 1983 ed erano già segnalati a New York nel 1961, in un catalogo RAGIONE_SOCIALE senza che ne fosse nota né la proprietà né l’acquirente.
6.6. Secondo il ricorrente, il reperto indicato col n. 30 nell’allegato 3) a verbale di sequestro (indicato dal perito come reperto n. 9), sarebbe stato acquistato negli anni ’40 dal padre NOME COGNOME presso la galleria Parke-Bernet di New York. Il ricorrente non fornisce documentazione atta a comprovare un regolare acquisto presso questa galleria e non è manifestamente illogico aver ritenuto che, se l’acquisto fosse regolarmente avvenuto, la relativa documentazione (atta anche a dimostrare il valore dell’opera) sarebbe stata custodita con la diligenza dovuta, tanto più che l’acquirente era un collezionista e un esperto della materia. Non è illogico neppure aver ritenuto che non fornisca elementi sulla provenienza dell’opera la constatazione che la teste NOME COGNOME l’abbia vista a casa del ricorrente nei primi anni ’90.
6.7. Il reperto indicato col n. 31 nell’allegato 3) al verbale di sequestro (indicato dal perito come reperto n. 10) è una «Madonna con Bambino» attribuita in un primo tempo a Taddeo di Agnolo Gaddi e poi a NOME dì Cione. Dall’ordinanza impugnata e dalla relazione peritale risulta che quest’opera apparteneva alla
«collezione COGNOME», uscì dall’Italia nel 1923 senza che le competenti autorità avessero rilasciato la prescritta autorizzazione, fu oggetto di una notifica di interesse culturale indirizzata alla Galleria COGNOME (cui la tavola era stata affidata per la vendita), ma il titolare, NOME COGNOME sostenne di aver ricevuto la notifica quando la vendita era già avvenuta. Nel 1923 l’opera era a Bruxelles nella collezione NOME COGNOME. Fu dunque esportata senza autorizzazione e – come si è chiarito – nel 1923 questa autorizzazione era necessaria ai sensi dell’art. 8 legge n. 364/1909. L’art. 33 di questa legge, inoltre, sanzionava penalmente l’esportazione clandestina. L’opera risulta essere stata in seguito trasferita a Londra dove, nel 1965, fu acquistata ad un’asta RAGIONE_SOCIALE dal collezionista e mercante d’arte NOME COGNOME. Il ricorrente sostiene di aver acquistato quest’opera presso la galleria Piero INDIRIZZO di New York nel 1984, ma – ancora una volta – non fornisce documentazione di tale acquisto e non è illogico aver ritenuto che, in assenza di documentazione attestante la lecita provenienza di un’opera di grande valore illecitamente uscita dall’Italia nel 1923, l’acquirente non possa essere considerato in buona fede solo per il fatto di essersi asseritamente rivolto ad una rinomata galleria. Come si è detto, la “buona fede” necessaria ad escludere la confisca può ritenersi sussistente se il terzo prova un «affidamento incolpevole ingenerato da una situazione di apparenza che rendeva scusabile l’ignoranza o il difetto di diligenza» e tale situazione non può ritenersi sussistente nel caso di specie. La natura del bene, infatti, rendeva particolarmente penetranti le verifiche che RAGIONE_SOCIALE avrebbe dovuto compiere per poter legittimamente opporre la propria buona fede alle pretese dello Stato italiano.
6.8. Il ricorrente sostiene di aver acquistato il reperto indicato col n. 33 nell’allegato 3) al verbale di sequestro (indicato dal perito come reperto n. 11) nel 1986 presso la Sotheby’s di New York nel 1986, ma non esibisce documentazione atta a dimostrare l’acquisto. Il perito riferisce che il 6 marzo 1986 l’opera fu vist a casa di Almagià a New York dallo storico dell’arte NOME COGNOME e anche la test:e NOME COGNOME ha dichiarato di averla vista in quella casa nei primi anni ’90. Questi dati, tuttavia, non forniscono indicazioni sulla regolarità dell’acquisto. L’opera, che faceva parte della collezione di NOME COGNOME presso INDIRIZZO in Firenze, risulta essere uscita illegittimamente dall’Italia nel 1959. Basta osservare allora che non è manifestamente illogico, alla luce dei principi di diritto enunciati al paragrafo 5, aver ritenuto che la mera allegazione di un acquisto avvenuto presso una rinomata Casa d’aste non sia idonea a provare la “buona fede” necessaria ad affermare l’estraneità al reato del terzo detentore della cosa.
Per quanto esposto, il ricorso è infondato e non merita accoglimento. Ed invero, pur in presenza di elementi di collegamento tra il diritto rivendicato e la
condotta delittuosa altrui, COGNOME non ha fornito prova dei fatti costitutivi della pretesa fatta valere sui reperti confiscati e non ha dato dimostrazione di tutti gli elementi concorrenti ad integrare le condizioni di “appartenenza” e di “estraneità al reato”, dalle quali dipende l’operatività della situazione impedítiva o limitativa del potere di confisca esercitato dallo Stato. Non ha fornito, infatti, prove attendibili di un affidamento incolpevole ingenerato da una situazione di apparenza che rendeva scusabile la sua ipotizzata ignoranza o avrebbe potuto scusare il difetto di diligenza.
Al rigetto consegue la condanna del ricorrente al pagamento delle spese processuali.
P.Q.M.
Rigetta il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese processuali.
Così deciso il 12 novembre 2024
Il Consigli re estensore
Il Presidente