Sentenza di Cassazione Penale Sez. 5 Num. 13649 Anno 2024
Penale Sent. Sez. 5 Num. 13649 Anno 2024
Presidente: COGNOME NOME COGNOME NOME
Relatore: NOME COGNOME
Data Udienza: 17/01/2024
SENTENZA
sul ricorso proposto da:
COGNOME NOME NOME NOME FORLI il DATA_NASCITA
avverso il decreto del 07/07/2023 della CORTE APPELLO di BOLOGNA
udita la relazione svolta dal Consigliere COGNOME;
letta la requisitoria del Sostituto Procuratore Generale, NOME COGNOME, che ha concluso per l’inammissibilità del ricorso;
letta la memoria del difensore della ricorrente, AVV_NOTAIO, che ha insistito per l’accoglimento del ricorso.
RITENUTO IN FATTO
Con il provvedimento indicato in epigrafe la Corte d’Appello di Bologna confermava il decreto n. 16 del 2023 emesso dal Tribunale di Bologna su beni di NOME COGNOME, nell’ambito di un procedimento di prevenzione patrimoniale nei confronti di NOME COGNOME.
Avverso tale decisione la RAGIONE_SOCIALE ha proposto ricorso per cassazione, con il difensore di fiducia AVV_NOTAIO, affidandosi a due motivi di impugnazione, di seguito ripercorsi, entro i limiti di cui all’art. 173 disp. att. cod. proc. pen.
2.1. Con il primo motivo la ricorrente denunzia la nullità dell’ordinanza per carenza di motivazione ed erronea applicazione della legge penale nella misura in cui non si è pronunciata sul motivo di appello afferente la violazione del proprio diritto alla salute e alla risocializzazione, derivante dal diniego della richiesta di utilizzare la vettura Fiat 500, ricompresa nella misura di prevenzione.
2.2. Mediante il secondo motivo la ricorrente deduce illogicità della motivazione del provvedimento impugNOME nella misura in cui ha ritenuto che, nel periodo tra il 2013 e il 2019, era ancora in essere un rapporto tra la stessa e l’COGNOME, coniuge dal quale era tuttavia separata, e di qui assunto che avrebbe acquistato i beni oggetto della misura grazie ai proventi derivanti dalle attività illecite di quest’ultimo.
CONSIDERATO IN DIRITTO
Il primo motivo di ricorso è manifestamente infondato poiché la Corte territoriale, nell’ambito di un giudizio impugNOMErio contro il decreto applicativo della misura di prevenzione patrimoniale sui beni della RAGIONE_SOCIALE, non avrebbe dovuto essere chiamata a pronunciarsi su circostanze esulanti i presupposti dello stesso, ossia su successivi provvedimenti emanati quanto alla possibilità di utilizzo di una vettura ricompresa tra i beni oggetto della misura, talché alcuna omissione di decisione può ravvisarsi rispetto a una questione che non poteva essere demandata, nell’ambito del sindacato impugNOMErio contro tale provvedimento, alla Corte d’appello.
Il secondo motivo è inammissibile poiché con esso si deduce un vizio di motivazione del provvedimento impugNOME.
Come è noto, infatti, in tema di procedimento di prevenzione, il ricorso per cassazione, anche a seguito dell’entrata in vigore del d.lgs. 6 settembre 2011, n. 159, è ammesso soltanto per violazione di legge, nozione in
cui può essere ricompresa la motivazione inesistente o meramente apparente del provvedimento, che ricorre, peraltro, solo quando il decreto omette del tutto di confrontarsi con un elemento potenzialmente decisivo nel senso che, singolarmente considerato, sarebbe tale da poter determinare un esito opposto del giudizio (v., ex ceteris, Sez. 6, n. 21525 del 18/06/2020, lvlule’, Rv. 279284 – 01). Vi è dunque che non può essere dedotto, neppure nell’assetto vigente, salvo abbia dato luogo ad una motivazione solo apparente, il vizio di illogicità manifesta (cfr. Sez. U, n. 33451 del 29/05/2014, COGNOME, v. 260246 – 01).
Nel caso in esame non sussiste il vizio dedotto dalla COGNOME, poiché il provvedimento impugNOME ha ampiamente argomentato sulle ragioni per le quali ha ritenuto che i beni intestati alla stessa ed oggetto del decreto erano stati acquisiti con i proventi derivanti dall’attività illecita del coniuge.
In primo luogo, quanto alla sussistenza di un rapporto tra i due nel periodo ricompreso tra il 2013 e il 2019, la Corte territoriale ha sottolineato, replicando alla tesi difensiva di una separazione di fatto tra i coniugi, che la stessa non potrebbe essere desunta né per l’intervenuta separazione dei beni dei medesimi con atto notarile del 30 maggio 2013, né per la differente residenza anagrafica, a fronte di una serie di circostanze concrete, di maggiore rilievo istruttorio, deponenti in senso contrario.
A riguardo la pronuncia impugnata ha in particolare valorizzato numerosi elementi, ossia, tra l’altro, che: in occasione dell’arresto del 13 giugno 2019, l’COGNOME era stato fermato alla guida di una vettura intestata alla moglie e in un garage della stessa era stata rinvenuta sostanza stupefacente oggetto dell’attività di spaccio del primo; nel periodo trascorso agli arresti domiciliari, nel 2019, il prevenuto era stato accolto dalla COGNOME presso la sua abitazione, nella quale venivano rinvenute sostanze stupefacenti destinate allo spaccio ed era evaso a bordo di un’auto intestata alla medesima ricorrente; l’COGNOME aveva continuato, sino alla chiusura dello stesso nel 2021, ad avere la delega ad operare sul conto della moglie.
In secondo luogo, il provvedimento oggetto di ricorso ha diffusamente motivato in ordine all’insussistenza di redditi di provenienza lecita della COGNOME idonei a giustificare l’acquisto dei beni intestati alla stessa oggetto della misura di prevenzione, sia ritenendo non provato che l’acquisto di alcuni beni era avvenuto con denaro doNOMEle dal padre sin dall’anno 1999, sia valorizzando i risultati negativi dell’attività economica svolta dalla società RAGIONE_SOCIALE. A quest’ultimo riguardo, del resto, la Corte d’appello di Bologna ha ricordato il consolidato principio per il quale ciò che assume rilievo per vagliare la sussistenza della situazione di squilibrio patrimoniale che giustifica la confisca disposta ex art. 24 del d.lgs. n. 159 del 2011 sono solo i redditi dichiarati e non
anche quelli derivanti da evasione fiscale (cfr., ex aliis, Sez. 1, n. 12629 del 16/01/2019, PG. c. Macri’, Rv. 274988-01).
Alla dichiarazione di inammissibilità segue la condanna della ricorrente, ai sensi dell’art. 616 cod.proc.pen., al pagamento delle spese del procedimento e della somma di euro tremila in favore della Cassa delle ammende, atteso che l’evidente inammissibilità dei motivi di impugnazione, non consente di ritenere la ricorrente medesima immune da colpa nella determinazione delle evidenziate ragioni di inammissibilità (cfr. Corte Costituzionale, n. 186 del 13.6.2000).
P.Q.M.
Dichiara inammissibile il ricorso e condanna la ricorrente al pagamento delle spese processuali e della somma di euro tremila in favore della Cassa delle ammende.
Così deciso in Roma, nella camera di consiglio del 17 gennaio 2024
Il Consigliere Estensore
II Presidente