Sentenza di Cassazione Penale Sez. 1 Num. 23355 Anno 2025
Penale Sent. Sez. 1 Num. 23355 Anno 2025
Presidente: COGNOME
Relatore: COGNOME
Data Udienza: 12/03/2025
SENTENZA
sui ricorsi proposti da: COGNOME nato a FRANCAVILLA FONTANA il 04/04/1953 COGNOME NOME nato a GROTTAGLIE il 15/12/1973
avverso l’ordinanza del 29/10/2024 del GIP TRIBUNALE di BRINDISI
udita la relazione svolta dal Consigliere NOME COGNOME lette le conclusioni del PG NOME COGNOME che ha chiesto il rigetto del ricorso;
RITENUTO IN FATTO
Con l’ordinanza in epigrafe, il Giudice per le indagini preliminari del Tribunale di Brindisi, in funzione di giudice dell’esecuzione, pronunciandosi sull’opposizione proposta da NOME COGNOME e NOME COGNOME avverso il provvedimento del 25 gennaio 2021, con il quale il suddetto Giudice, nella stessa funzione, aveva disposto la confisca di beni ai sensi dell’art. 240-bis cod. pen., in parziale accoglimento dell’opposizione, ordinava la restituzione dei seguenti beni, già sottoposti a sequestro preventivo:
utile dominio del fondo rustico in agro di Grottaglie (TA) alla contrada INDIRIZZOora INDIRIZZO con sovrastante villino composto da piano terra e primo piano della superficie complessiva, fra area coperta e scoperta, di mq 6.858;
due villette, costituenti un unico corpo, sviluppantesi su due livelli, in Leporano (TA), alla località INDIRIZZO – INDIRIZZO – traversa di INDIRIZZO con annesso terreno pertinenziale.
Con lo stesso provvedimento, il giudice adito ordinava la confisca dei seguenti beni, già sottoposti a sequestro preventivo:
fabbricato in Grottaglie (TA), INDIRIZZO composto da un’abitazione della consistenza di 12 vani e della superficie catastale di mq 307, con annessi giardino pertinenziale, garage e locale deposito;
box auto al piano seminterrato del complesso edilizio sito in Grottaglie, INDIRIZZO angolo INDIRIZZO della superficie catastale di mq 22;
quota di nominali C 100.000,00 di partecipazione nella RAGIONE_SOCIALE pari al 100% del capitale sociale;
quota di nominali C 100.000,00 di partecipazione nella RAGIONE_SOCIALE pari al 100% del capitale sociale;
tutti i beni costituiti in azienda delle società le cui quote sociali sono state sottoposte a vincolo reale nella misura del 100%;
il compendio aziendale e delle quote sociali della RAGIONE_SOCIALE e RAGIONE_SOCIALE
Avverso la suddetta ordinanza hanno proposto ricorso per cassazione i due interessati, per il tramite dei loro difensori e procuratori speciali, articolando seguenti quattro motivi.
2.1. Con il primo motivo, si deduce violazione di legge in relazione all’art. 407, comma 3, cod. proc. pen., atteso che l’informativa n. 89460 redatta dalla Guardia di Finanza il 20 febbraio 2020 – con cui è stata accertata la “sproporzione” quale presupposto imprescindibile per l’applicazione della confisca “allargata” e unica prova della sua sussistenza – sarebbe stata acquisita oltre il termine normativamente previsto di durata delle indagini preliminari e pochi giorni prima
della pronuncia della sentenza di applicazione della pena (25 febbraio 2020) nei confronti dei due imputati, oggi ricorrenti.
Si sostiene in ricorso che il giudice dell’esecuzione non possa estendere la latitudine della sua operatività al di fuori di quanto emerso e accertato nel giudizio di cognizione, di tal che detto giudice deve sottostare alle previsioni di cui all’art 407, comma 3, cod. proc. pen. sui termini di durata per le indagini preliminari.
Da tanto discende la conseguenza per cui, se un provvedimento di confisca, come nel caso di specie, si fondi su atti di indagine compiuti dopo la scadenza del termine citato, qualora tali atti abbiano efficacia probatoria – nello specifico, quanto al presupposto della “sproporzione” – non possono essere utilizzati.
Il giudice a quo sarebbe incorso in un “abbaglio”, confondendo un atto d’indagine avente efficacia probatoria (la menzionata informativa della Guardia di Finanza, volta ad accertare la “sproporzione”) con un atto d’indagine volto unicamente ad accertare l’esistenza e la formazione temporale di beni nella disponibilità degli imputati, suscettibile di essere eseguito anche successivamente alla scadenza dei termini di cui all’art. 407, comma 3, cod. proc. pen.
2.2. Con il secondo motivo, si denuncia la violazione dell’art. 649 cod. proc. pen. (ne bis in idem), contestandosi che sia stato intrapreso un nuovo giudizio (avente ad oggetto l’accertamento della sproporzione) in relazione al medesimo fatto (il reato-spia che della confisca allargata costituisce, unitamente alla sproporzione, il presupposto applicativo).
2.3. Con il terzo motivo, si eccepisce la violazione dell’art. 240-bis cod. pen., avendo il giudice di merito erroneamente inteso che potessero formare oggetto di confisca tutti i beni acquistati nel “periodo sospetto” e non la “porzione di essi” corrispondente, per valore, a quello dell’accertata sproporzione.
2.4. Con il quarto ed ultimo motivo si solleva questione di legittimità costituzionale degli artt. 444 cod. proc. pen. e 240-bis cod. proc. pen. in relazione agli artt. 3, 24 e 111 Cost., nonché rispetto all’art. 107 di cui alla Direttiva U 2024/1260 del 24 aprile 2024, avendo il giudice dell’esecuzione confermato la confisca di tutti i beni acquistati dagli imputati negli anni 2009-2013 in violazione del principio dell’intangibilità del giudicato.
Il Procuratore generale di questa Corte, nella sua requisitoria scritta, ha concluso per il rigetto del ricorso.
Nell’interesse dei ricorrenti sono stati trasmessi motivi aggiunti, recanti la data del 20 febbraio 2025, con i quali si ribadisce: che la sproporzione non può essere accertata dopo il termine delle indagini preliminari; che la confisca ex art. 240-bis cod. pen. è una nuova pena rispetto a quella disposta con il patteggiamento; che la confisca può riguardare solamente i beni del valore della sproporzione e non di tutti i beni in caso di sproporzione; che non è legittima una
confisca successiva ad una sentenza di patteggiamento divenuta irrevocabile.
Sempre nell’interesse dei ricorrenti è stata anche trasmessa una memoria di replica alle conclusioni del Procuratore generale, recante la data del 7 marzo 2025.
CONSIDERATO IN DIRITTO
I ricorsi vanno rigettati, perché, nel complesso, infondati.
Destituito di fondamento, sul piano giuridico, è il primo motivo di ricorso, con cui si reitera l’eccezione, già precedentemente proposta in sede di merito, di inutilizzabilità delle indagini patrimoniali svolti dalla Guardia di Finanza i violazione dell’art. 407, comma 3, cod. proc. pen. (in quanto avviate dopo la notifica dell’avviso ex art. 415-bis cod. proc. pen. e concluse il 20 febbraio 2020, cinque giorni prima della sentenza di applicazione della pena emessa nei confronti dei due imputati COGNOME e SCATIGNA).
Il giudice adito ha respinto l’eccezione conformandosi all’orientamento consolidato della giurisprudenza di legittimità, secondo cui, ai fini dell’adozione di un provvedimento di sequestro preventivo funzionale alla confisca di cui all’art. 12-sexies del d.l. n. 306 del 1992 (oggi art. 240-bis cod. pen.), i relativi atti di indagine sono utilizzabili anche se espletati in epoca successiva alla scadenza dei termini delle indagini preliminari (Sez. 4, n. 10208 del 29/01/2020, COGNOME, Rv. 278646 – 01; Sez. 6, n. 17252 del 22/01/2010, De Rito, Rv. 247081 – 01; Sez. 6, n. 35376 del 28/05/2008, COGNOME e altro, Rv. 240931 – 01).
Nelle richiamate decisioni si è osservato che la confisca introdotta dall’art. 12sexies dl. 8 giugno 1992 n. 306 (ipotesi particolari di confisca) si configura, per i suoi presupposti (i reati-spia oggi elencati nel catalogo di cui all’art. 240-bis cod. pen.), per il suo oggetto (denaro, beni e altre utilità di cui il condannato non può giustificare la provenienza e di cui, per interposta persona fisica o giuridica, risulta essere titolare o avere la disponibilità a qualsiasi titolo in valore sproporzionato al proprio reddito dichiarato ai fini delle imposte o alla propria attività economica) e per la sua funzione, come una misura di sicurezza “atipica” di carattere patrimoniale (affine alla omologa misura di prevenzione), ricollegata al processo penale per i reati predetti (Sez. U, n. 29022 del 30/05/2001, Derouach, Rv. 219221 – 01).
Il procedimento predisposto per la confisca è, pertanto, seppur accessorio, tuttavia, autonomo rispetto a quello relativo alle indagini per l’accertamento dei delitti in questione e all’acquisizione delle relative prove, di cui, anzi, presuppone l’esaurimento con successiva condanna (o patteggiamento) dell’imputato.
Il sequestro ex art. 12-sexies cit., a differenza del sequestro preventivo di cui
all’art. 321 cod. proc. pen., va, infatti, ricondotto a un’attività d’indagine ch innesta un subprocedimento di natura cautelare reale, di iniziativa del RM., che è indipendente dall’attività di indagine che sorregge la richiesta di rinvio a giudizio e con finalità diversa da quest’ultima, in quanto funzionale alla confisca dei beni sequestrati connessa all’eventuale sentenza di condanna (Sez. 6, n. 17252 del 2010, cit.).
Si è precisato che la scadenza del termine stabilito per le indagini preliminari non preclude il compimento di qualsiasi attività procedimentale, ma solo degli atti che hanno la funzione di ricercare ed acquisire le prove.
Pertanto, dopo la scadenza del termine per il compimento delle indagini preliminari, il RM. può ben svolgere accertamenti patrimoniali sull’indagato, funzionali non ad acquisire la prova nei suoi confronti, ma a sottoporre a sequestro preventivo eventuali beni che possano aggravare o protrarre le conseguenze del reato o agevolare la commissione di altri reati ovvero essere oggetto di confisca (come nel caso di specie). Da qui la piena legittimità, pur dopo la scadenza del termine di cui all’art. 407 cod. proc. pen., della richiesta e della concessione da parte del G.I.P. del provvedimento impositivo di un vincolo cautelare reale, provvedimento che non ha alcuna efficacia probatoria, né tale efficacia può essere ravvisata negli atti che siano finalizzati ad individuare i beni su cui imporre il vincolo d’indisponibilità (Sez. 6, n. 35376 del 2008, cit.).
Ne consegue che il sequestro preventivo disposto in funzione della confisca “allargata” non è soggetto al termine stabilito dall’art. 407 cod. proc. pen. per la durata delle indagini preliminari nel processo penale e l’eccezione di inutilizzabilità dei relativi atti di indagine deve, in conclusione, ritenersi infondata, come correttamente affermato dal giudice a quo.
3. Parimenti infondato è il secondo motivo di ricorso.
La difesa dei ricorrenti lamenta che, dapprima in sede di cognizione, con la sentenza di applicazione della pena emessa dal G.I.P. del Tribunale di Brindisi in data 25 febbraio 2020 (irrevocabile il 19 novembre 2020), e poi con il provvedimento impugnato, emesso il 25 gennaio 2021, dallo stesso G.I.P., in funzione di giudice dell’esecuzione, lo stesso fatto-reato di estorsione sarebbe stato sanzionato due volte: dal giudice di cognizione, con la confisca ordinaria dei beni sottoposti a sequestro preventivo il 30 novembre 2018, costituenti profitto del reato; dal giudice dell’esecuzione, con la confisca “per sproporzione” ex art. 240-bis cod. pen.
La doglianza non ha pregio.
Come già esposto a proposito del motivo che precede, va ribadito che il procedimento modellato dal legislatore per la confisca presenta carattere di autonomia rispetto a quello relativo alle indagini per l’accertamento dei delitti-spia
oggi elencati nell’art. 240-bis cod. pen. e all’acquisizione delle relative prove, di cui, anzi, presuppone l’esaurimento con successiva condanna (o patteggiamento) dell’imputato.
Del tutto correttamente, quindi, il giudice dell’esecuzione ha respinto la deduzione difensiva, riproposta in ricorso, osservando che, nel caso di specie, si è in presenza di un procedimento di esecuzione direttamente collegato a quello di cognizione penale, che muove dal presupposto già acclarato dell’accertamento dell’esistenza del reato, ormai non più in discussione e sul quale più non si torna, per applicare una misura di sicurezza prevista come obbligatoria; confisca che, inoltre, obbedisce agli ulteriori presupposti applicativi – diversi dal reato-spia che i beni da acquisire si trovino nella disponibilità diretta o indirett dell’interessato e che presentino un valore sproporzionato rispetto al reddito da quest’ultimo dichiarato ovvero all’attività economica dal medesimo esercitata (Sez. U, n. 33451 del 29/05/2014, Repaci e altri, Rv. 260247 – 01).
A tale ultimo riguardo, non è superfluo ricordare che la condanna (anche mediante sentenza di applicazione di pena concordata) per la commissione di un reato-spia costituisce solo il presupposto necessario, ma non sufficiente, per disporre la confisca speciale obbligatoria in discorso, dal momento che la presunzione iuris tantum dell’origine illecita dei beni del condannato (si presume «che il condannato abbia commesso non solo il delitto che ha dato luogo alla condanna, ma anche altri reati, non accertati giudizialmente, dai quali deriverebbero i beni di cui egli dispone»: così, in motivazione, Corte cost. sent. n. 33 del 2018) sorge non per effetto della mera condanna, ma anche dall’accertamento – con onere della relativa prova a carico del Pubblico ministero – della sproporzione tra tali beni e il reddito dichiarato o le attività economiche del condannato stesso, senza che si debba ricercare alcun nesso di derivazione tra i beni confiscabili ed il reato per cui è stata pronunciata condanna, e neppure tra i medesimi beni e una più generica attività criminosa del condannato: sproporzione che non consiste in una qualsiasi discrepanza tra guadagni e possidenze, ma in uno squilibrio incongruo e significativo, da verificare con riferimento al momento dell’acquisizione dei singoli beni (giurisprudenza di legittimità costante a partire da Sez. U, n. 920 del 17 dicembre 2003, deo. 2004, COGNOME, Rv. 226490 – 01).
Sempre sul tema del diritto a non essere punito ovvero giudicato due volte per lo stesso fatto, va rammentato che, con riferimento alla sentenza resa dalla CEDU nel caso COGNOME contro Italia (sentenza del 29 ottobre 2013), la Corte costituzionale (sentenza n. 49 del 2015: in considerazione dell’interpretazione del contenuto di tale pronuncia prospettata dalle ordinanze che la questione di costituzionalità avevano sollevato) ha avuto modo di precisare che, con tale decisione, la Corte EDU ha sottolineato (con ciò adeguandosi a precedente
decisione) che: «l’art. 7 della CEDU esige una dichiarazione di responsabilità da parte dei giudici nazionali, che possa permettere di addebitare il reato (paragrafo 71), poiché non si può avere una pena senza l’accertamento di una responsabilità personale (paragrafo 69). Non è in definitiva concepibile un sistema che punisca coloro che non sono responsabili paragrafo 66), in quanto non dichiarati tali con una sentenza di colpevolezza (paragrafo 67)».
Trattasi, all’evidenza, di un principio (nessuna sanzione è da infliggere se non preceduta da accertamento di responsabilità personale) che nel caso di specie è stato rispettato, dal momento che l’accertamento della responsabilità dei ricorrenti per la commissione del delitto di estorsione è contenuto nella sopra richiamata sentenza, irrevocabile, di applicazione di pena a norma dell’art. 444 cod. proc. pen., costituente presupposto necessario per disporre la confisca in discussione.
In altre parole, dalla citata sentenza della Corte EDU non è dato desumere che la confisca obbligatoria di cui si discute debba essere necessariamente disposta con la sentenza di condanna per il reato presupposto, ma solo che la stessa sia conseguenza di accertamento giudiziale di responsabilità per la commissione di tale reato da parte della persona i cui beni debbano essere confiscati (Sez. 1, n. 16122 del 28/02/2018, dep. 2019, COGNOME, Rv. 276183 01).
Per tali ragioni, anche il secondo motivo deve ritenersi infondato.
Inammissibile, per genericità, è la censura introdotta con il terzo motivo di ricorso, inerente al tema della “sproporzione”.
Si deduce, in sintesi, violazione dell’art. 240-bis cod. pen. perché il giudice dell’esecuzione ha confiscato tutti i beni acquisiti dai ricorrenti nel periodo “sospetto”, mentre avrebbe dovuto confiscare solo la “porzione” di essi corrispondente, per valore, a quello dell’accertata sproporzione (pag. 10 del ricorso).
A pag. 12, la difesa illustra con un esempio cosa intende dire esattamente con l’ultima affermazione: se la sproporzione, consistente nel saldo tra entrate e uscite, è di 400 euro e il valore dei beni acquistati è 900, il giudice può confiscare non l’intero valore dei beni (900), ma solo quello della sproporzione (400), che rappresenterebbe, in tesi, l’illecita accumulazione.
Il motivo, pur enunciando un principio che, in astratto, potrebbe reputarsi corretto, resta, tuttavia, relegato sul piano, appunto, della teorica affermazione, nel senso, cioè, che esso non si traduce in coerenti sviluppi specificamente critici da correlare a ciascuno dei beni confiscati ai ricorrenti nel periodo di “ragionevolezza temporale” (dal 2009 al 2013).
A ciò va aggiunto che il ricorso non si confronta con un dato probatorio di rilevante importanza per apprezzare la sproporzione – che qui si contesta – tra
capacità reddituali dei coniugi COGNOME e spese/investimenti documentati.
Si tratta, in particolare, dei reiterati depositi in contanti, effettuati in quadriennio quasi sempre connotato da assenza di prelevamenti, di cui si dà atto a pag. 26 del provvedimento impugnato nei seguenti termini: a) nel 2009, versamenti di denaro contante per complessivi C 157.125,00 “che non trovano giustificazione nei redditi dichiarati né da COGNOME NOME, le cui retribuzioni da lavoro dipendente risultano percepite a mezzo di bonifico bancario, né da COGNOME NOME, il cui reddito d’impresa è di entità inferiore ai versamenti rilevati”; b) nel 2010, ricorrenti versamenti di denaro contante, in assenza di prelevamenti, per complessivi C 101.550,00, privi di giustificazione; c) nel 2011, ricorrenti versamenti di denaro contante, in assenza di prelevamenti, per complessivi C 79.258,00, privi di giustificazione; d) nel 2012, ulteriori versamenti di denaro contante, in assenza di prelevamenti, per complessivi C 28.200,00, privi di giustificazione; e) nel 2013, ancora, versamenti di denaro contante, in assenza di prelevamenti, per complessivi C 34.250,00, privi di giustificazione.
L’omesso confronto con dati, come quelli appena esposti, di indubbia rilevanza, nonché con il dato della omessa quantificazione “delle ingenti spese sostenute in contanti per le ristrutturazioni di alcuni degli immobili acquistati nel corso degli anni dai due imputati”; la mancata considerazione critica della conferma del giudizio di sproporzione documentato, in autonome tabelle, anche nell’ipotesi irrealistica di assenza di spese per consumi (il saldo fra entrate e uscite restava, comunque, negativo), conducono ad attribuire al motivo in esame il carattere di genericità, anche per aspecificità, che ne determina l’inammissibilità nella presente sede.
Infondato è l’ultimo motivo di ricorso.
Va ricordato il principio enunciato da Sez. U, Derouach, secondo il quale «La confisca dei beni patrimoniali dei quali il condannato per determinati reati non sia in grado di giustificare la provenienza, prevista dall’articolo 12-sexies d.l. 8 giugno 1992 n. 306, convertito in legge 8 agosto 1992 n. 356, come modificato dal d.l. 20 giugno 1994 n. 399, convertito in legge 8 agosto 1994 n. 501, può essere disposta anche dal giudice dell’esecuzione che provvede “de plano”, a norma degli articoli 676 e 667, comma 4, cod. proc. pen., ovvero all’esito di procedura in contraddittorio a norma dell’art. 666 dello stesso codice, salvo che sulla questione non abbia già provveduto il giudice della cognizione, con conseguente preclusione processuale».
Posto che è indiscutibile, alla luce dell’enunciato principio, la possibilità per il giudice dell’esecuzione di disporre, se non abbia già provveduto il giudice della cognizione, la confisca obbligatoria, quale pacificamente si considera la confisca
“allargata”, nessuna violazione del giudicato può ravvisarsi nel caso di specie, in cui, dopo che il giudice della cognizione aveva disposto la confisca facoltativa del
“profitto” del reato, ai sensi del primo comma dell’art. 240 cod. pen., il giudice dell’esecuzione ha legittimamente disposto la confisca obbligatoria ai sensi dell’art.
240-bis cod. pen., che, come già precisato, obbedisce a diversi presupposti.
La questione di legittimità costituzionale che avrebbe voluto sollevare in argomento la difesa deve, quindi, reputarsi manifestamente infondata.
6. I ricorsi, in conclusione, devono essere rigettati, dal che discende la condanna dei ricorrenti al pagamento delle spese processuali.
P.Q.M.
Rigetta i ricorsi e condanna i ricorrenti al pagamento delle spese processuali.
Così deciso in Roma, il 12 marzo 2025
Il Consigliere estensore
Il Presidente