Sentenza di Cassazione Penale Sez. 1 Num. 30630 Anno 2025
Penale Sent. Sez. 1 Num. 30630 Anno 2025
Presidente: COGNOME
Relatore: COGNOME
Data Udienza: 21/05/2025
SENTENZA
sui ricorsi proposti da: NOME nato a NOLA il 04/10/1962
NOME nata a NOLA il 31/03/1966
avverso l’ordinanza del 31/01/2025 della CORTE ASSISE APPELLO di NAPOLI
udita la relazione svolta dal Consigliere NOME COGNOME;
lette le conclusioni del PG NOME COGNOME che ha chiesto dichiararsi inammissibile il ricorso;
RITENUTO IN FATTO
La Corte di cassazione torna, per la terza volta, ad occuparsi dell’istanza, presentata da NOME COGNOME e NOME COGNOME quali terzi estranei al reato, per ottenere la revoca della confisca disposta, ai sensi dell’art. 12-sexies I. n. 356 del 1992, per quanto qui rileva, su un fabbricato rurale sito in Noia, in INDIRIZZO Narni (foglio 31, part. 22 del Catasto di Noia), acquistato dal predetto NOME COGNOME e da suo fratello NOME in data 5 maggio 1993, anteriormente alla emissione del decreto di sequestro preventivo del bene, recante la data del 10 maggio 1994.
Il sequestro preventivo era stato adottato dal G.i.p. del Tribunale di Napoli nell’ambito del procedimento definito con sentenza in data 28 novembre 2000 della Corte di assise di Napoli, irrevocabile il 14 giugno 2007, con la quale, tra gli altri imputati, NOME COGNOME NOME COGNOME e NOME COGNOME erano stati condannati per il reato di cui all’art. 416-bis cod. pen. e per numerosi omicidi ed era stata disposta la confisca di alcuni dei beni in sequestro, tra cui l’immobile oggetto di contestazione.
Il 20 febbraio 2013 la Corte di merito aveva disposto l’esecuzione dell’ordine di confisca.
Va precisato che né sequestro preventivo, né confisca risultano essere stati mai trascritti.
1.1. Il primo incidente di esecuzione, introdotto con istanza proposta dal solo NOME COGNOME quale terzo interessato, in data 8 ottobre 2015, veniva definito con ordinanza di rigetto resa dalla Corte di assise di appello di Napoli il 15 marzo 2017, divenuta definitiva il 5 aprile 2017.
1.2. Il secondo incidente di esecuzione, introdotto dall’COGNOME e da NOME COGNOME con istanza del 30 ottobre 2019, si era concluso con ordinanza reiettiva del 16 novembre 2022, in seguito annullata dalla Corte di cassazione per mancato rispetto del principio del contraddittorio.
In esito al giudizio di rinvio, la Corte territoriale, con ordinanza del 17 gennaio 2024, aveva dichiarato inammissibile l’istanza, valutandola come mera riproposizione di precedente analoga istanza già respinta.
Detto provvedimento veniva annullato, in sede di legittimità, con sentenza Sez. 1, n. 45560 del 2024, in quanto il contenuto del nuovo incidente di esecuzione non poteva considerarsi coincidente con quello dell’incidente proposto nel 2015 dal solo ESPOSITO, nella parte in cui prospettava nuovi elementi di fatto a sostegno del medesimo petitum, mai esaminati in precedenza o esaminati solo in parte o per una diversa finalità.
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1.2.1. In esito al susseguente giudizio di rinvio, con ordinanza depositata il 19 febbraio 2025, la Corte di assise di appello di Napoli respingeva, ancora una volta, l’istanza di revoca della confisca de qua, limitata, come detto, al fabbricato rurale sito in Noia.
Secondo il giudice dell’esecuzione (pag. 13), la stipula dell’originario contratto di vendita di quelle aree, interessate da un comune programma di lottizzazione e speculazione edilizia concertato tra gli elementi di spicco del sodalizio criminale investigato in sede di cognizione penale, come riferito dallo stesso NOME COGNOME e intestate a soggetti comunque legati al clan, tra cui NOME COGNOME l’immediato frazionamento e la successiva vendita effettuata da tali personaggi ad altri soggetti vicini al clan medesimo, la vendita da parte del COGNOME di una porzione consistente della part. 24 (di 1 ha e 19 are come desumibile dal contratto di compravendita) e del fabbricato ai coniugi in comunione dei beni NOME COGNOME la successiva vendita, nel 2004, da parte di NOME COGNOME al fratello NOME della quota di fabbricato acquistato con quest’ultimo, nonostante il sequestro e la confisca disposta in primo grado (sentenza del 28 novembre 2000), denotavano la partecipazione di tutti i soggetti indicati nell’atto del 1993 all’accordo simulatorio, tra i quali l’attuale istante e i congiunti, legati da vincoli di parentela a quel NOME COGNOME segnalato dalla p.g. come pregiudicato vicino al COGNOME.
Deponevano, in tal senso, del resto:
il valore dell’intera area intestata a NOME COGNOME, pari a 3 ha, 35 are, 63 ca, già frazionata dalla più vasta area di 16,7 ha (50 moggi per come riferito dall’COGNOME), che, secondo le dichiarazioni dell’COGNOME, era stata pagata oltre un miliardo e mezzo di vecchie lire per ettaro (30 milioni a moggio), “…quindi oltre 450.000.000 di lire” (sembrerebbe il reale valore dell’area intestata al COGNOME), “di gran lunga superiore al valore dichiarato negli atti di compravendita” relativi alle porzioni di beni acquistati;
il valore effettivo della parte di fondo ceduto agli istanti (1 ha 75 are), pari a ben oltre 225.000.000 di lire (derivante dalle somme delle frazioni di terreno intestate a NOME COGNOME, NOME COGNOME, NOME COGNOME, NOME COGNOME citate nell’atto);
il valore irrisorio indicato nell’atto di acquisto del 1991, corrispondente a quello catastale, di certo tale da non garantire a NOME COGNOME dante causa dei sette acquirenti (tra i quali NOME COGNOME a sua volta dante causa degli odierni ricorrenti), un profitto consistente, come sostenuto dalla difesa;
il programma di lottizzazione ed edificazione per il quale l’COGNOME e gli altri si erano determinati all’acquisto investendo i proventi delle estorsioni, i
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previsione, non già di vendite a prezzi inferiori come quelli risultanti dagli atti compravendita, ma di notevoli incrementi di valore;
l’impossibilità che quel programma fosse ignorato in quel contesto territoriale, dove il clan operava quotidianamente con l’avallo di appartenenti alle istituzioni (il giudice a quo richiama le dichiarazioni rese sul punto da COGNOME e dall’imprenditore edile COGNOME, nonché lo scioglimento del Comune per infiltrazioni mafiose);
il valore irrisorio del prezzo della metà del fabbricato indicato nell’atto del 2004, rimasto costante nonostante i nove anni trascorsi;
la circostanza che in tale ultimo contratto si dava atto dell’esistenza di un’ipoteca giudiziale iscritta a favore del Banco di Napoli s.p.a. per lire 220.000.000, iscritta presso la Conservatoria RR.II. di Caserta il 24 ottobre 1996 e in relazione alla quale i venditori avevano dichiarato estinto il relativo debito garantito la successiva cancellazione: elemento, quest’ultimo, che, ad avviso del giudice dell’esecuzione, era significativo del reale valore della quota di fabbricato.
Proseguiva la Corte di assise di appello osservando che la nomina di un amministratore giudiziario contestuale al decreto di sequestro e le vicende del procedimento, conclusosi con la sentenza di primo grado resa nel 2000, confermata nel 2005 e irrevocabile dal 2007, attestavano che tale vicenda e il vincolo sul bene non potevano essere ignorati dagli attuali istanti, nonostante la mancata trascrizione.
Ne conseguiva l’assenza di buona fede nella scelta dell’ESPOSITO di procedere alla stipula nel 2004 e di attivarsi, per la restituzione del bene, solo nel 2016, ventidue anni dopo il sequestro e otto anni dopo il passaggio in giudicato della sentenza confermativa della confisca, ossia quando il lungo periodo di tempo trascorso, lo sviluppo urbanistico del territorio e la stessa evoluzione delle dinamiche criminali avrebbero potuto rendere difficili gli accertamenti in ordine alla mancata esecuzione della confisca.
Solo in questo modo si spiegava anche come la richiesta di restituzione del fabbricato fosse stata avanzata nel 2016 e quella dei terreni nel 2019, per poi essere esclusa con nota successivamente allegata e precisata in sede di udienza camerale.
Concludendo sul punto, il giudice adito reputava infondata, alla luce di quanto esposto, la deduzione difensiva volta a sostenere la mancanza di elementi in ordine al ruolo di prestanome svolto da NOME COGNOME che si sarebbe limitato a effettuare una operazione immobiliare a fini speculativi (che tale non era perché effettuata a prezzi inferiori al valore reale del fondo e dell’immobile) e, a maggior ragione, quella volta a sostenere la mancanza di elementi in ordine ai successivi acquirenti, tra cui NOME COGNOME e NOME COGNOME in relazione ai quali un
ulteriore elemento era costituito non solo dalle cifre risultanti dall’atto compravendita, non proporzionate al valore dei beni per come descritto da NOME COGNOME e alla speculazione in atto rientrante nel programma criminale, ma anche dalla sproporzione dei redditi degli istanti rispetto alle cifre anticipate ancor prima dell’atto di vendita come attestato in atti.
Sulla sproporzione e sull’esame dei rilievi difensivi articolati al riguardo, la Corte di assise di appello motiva da pag. 15 alla fine del provvedimento (pag. 20).
Hanno proposto ricorso per cassazione, per il tramite del difensore e procuratore speciale, NOME COGNOME e NOME COGNOME sviluppando i seguenti quattro motivi.
2.1. Con il primo motivo, si denunciano inosservanza ed erronea applicazione dell’art. 12-sexies I. n. 356 del 1992, oggi art. 240-bis cod. pen.
Richiamata la giurisprudenza di legittimità sviluppatasi sul tema, il difensore e procuratore speciale dei ricorrenti sottolinea che, laddove la confisca sia disposta su beni appartenenti a terzo estraneo al reato, che si assume fittizio interposto della persona condannata per uno dei reati indicati nella norma, non opera la presunzione di illecita accumulazione patrimoniale, incombendo all’accusa di provare che il terzo intestatario si sia prestato alla titolarità apparente al so fine di favorire la permanenza dell’acquisizione del bene in capo al condannato.
Nel caso dei ricorrenti, la Corte di assise di appello non solo avrebbe invertito tale onere di allegazione, ma avrebbe “sempre più innalzato il limite probatorio”, erroneamente richiesto alla difesa, “rea” di non aver superato una presunzione non prevista dalla legge.
Nella prospettazione difensiva, nessuna prova sarebbe stata fornita dall’accusa sulla sproporzione reddituale, se non il generico richiamo ad una presunta indigenza dell’ESPOSITO, mentre le prove a discarico fornite dalla difesa – seppure non dovute – sulla capacità economico-finanziaria del nucleo familiare sarebbero state apoditticamente ritenute dalla Corte di appello incongrue e non sufficienti a superare una non prevista presunzione di illecita accumulazione.
L’onere della prova erroneamente posto a carico del terzo estraneo al reato diventava, poi, inesigibile quando aveva ad oggetto la traccia bancaria di operazioni risalenti nel tempo, tenuto presente che negli atti di compravendita l’obbligo di indicare le modalità di pagamento venne introdotto solo dopo l’entrata in vigore del d.l. n. 223 del 2006.
2.2. Con il secondo motivo, si deducono mancanza, erroneità ed illogicità della motivazione, nonché violazione di legge.
Si contesta al giudice dell’esecuzione travisamento della prova e illogica interpretazione delle emergenze documentali:
A) con riferimento al valore effettivo del bene, individuato in 225 milioni di lire (rispetto al prezzo indicato in atti di 87 milioni di lire) in base a non meg specificati calcoli, che trascuravano le dichiarazioni rese dall’originario dante causa NOME COGNOME sul prezzo di vendita al clan dell’intero appezzamento di terreni di 50 moggi, pari a 690.000.000 di lire, cioè 13.800.000 a moggio (che a Noia coincide con 4.031 mq); prezzo complessivo rispetto al quale la porzione poi acquistata nel 1993 da COGNOME, pari a 4,34 moggi, avrebbe avuto il valore di 55.782.000 di lire.
L’acquisto di ESPOSITO del 1993 a 87.000.000 appariva quindi congruo, anche a garantire una considerevole plusvalenza.
B) Illogico era desumere il valore del cespite dall’iscrizione di una ipoteca giudiziale per 220 milioni di lire, essendo noto che l’importo dell’ipoteca giudiziale, diversamente da quello relativo all’ipoteca volontaria, non è rapportato al valore del bene, ma al valore del contenzioso per il quale la parte risulta soccombente.
C) Falsa e non provata era l’affermazione circa il lavoro di braccianti agricoli degli istanti e dell’assenza di altri redditi, così come immotivata e non documentata era la ritenuta insufficienza dei redditi certificati dalla difesa (141.227.000 di li unitamente alle disponibilità finanziarie a giustificare gli acquisti (oltre 70 milio di lire); la conclusioni sulla mera sufficienza a garantire il sostentamento quotidiano delle risorse in questione erano apodittiche, essendo prive di riferimento a dati certi, quali gli indicatori ISTAT.
D) Illogica e contrastante era la motivazione sul fatto che la vendita di 1.000 azioni della Banca Popolare dell’Irpinia fosse avvenuta dopo l’acquisto del 5 maggio 1993, tenuto conto dei tre documenti forniti dalla difesa che dimostravano il contrario (complessivi 19.500.000 lire incassate ad aprile) e della normativa fiscale ex lege n. 102/91 (ritenuta d’imposta versata entro il giorno 15 del mese successivo a quello di effettuazione dell’operazione).
Illogica era la motivazione a proposito della mancata certificazione della vendita delle azioni nel documento dell’Agenzia delle Entrate prodotto dalla difesa: il regime fiscale prescelto dall’ESPOSITO per la tassazione delle plusvalenze era quello indicato dal d.l. n. 27/91 che prevedeva l’assoggettamento all’imposta sostitutiva delle imposte sui redditi; gli utili da vendita dei titoli (la plusvalenz 1.2000.000 lire già tassata al 15% per 180.000 lire) quindi, non dovendosi cumulare con gli altri redditi, non andavano indicati nelle relative dichiarazioni e, conseguentemente, non vennero riportati nelle certificazioni dell’ADE.
E) Parimenti illogica era la motivazione sul fatto che il prestito garantito da cambiale agraria fosse successivo all’acquisizione dei terreni.
Tale prestito, ottenuto dagli istanti il 9 marzo 1993 (dell’importo di 21 milioni di lire), era stato documentato già in occasione del primo incidente di
esecuzione ed era stato confermato dalla escussione della dirigente bancaria che consultò gli archivi informatici.
Nonostante la superfluità della richiesta probatoria avanzata dalla Corte di assise di appello di dimostrare come sarebbe stato restituito il finanziamento, la difesa aveva prodotto in seguito un ulteriore documento attestante il rinnovo del prestito per 20 milioni, concesso dal M.P.S. il 30 marzo 1994 per un periodo di tempo non indicato, ma che si presume essere stato di almeno un ulteriore anno: la difesa, dunque, aveva dimostrato che, grazie al mutuo, i ricorrenti ebbero almeno altri due anni di tempo per coprire parte del costo dell’immobile e aveva, parimenti, dimostrato che nel biennio 1993-94 i redditi del nucleo ammontavano ad oltre 64 milioni di lire.
La motivazione circa il fatto che il rinnovo non ci sarebbe stato era illogica, non comprendendosi perché la nuova produzione documentale potesse far ritenere che l’unico prestito sarebbe stato erogato nel 1994. Quando la dirigente bancaria venne sentita il 28 novembre 2016 non le fu chiesto di certificare un eventuale rinnovo, perché la prova di esso venne fornita dalla difesa solo con l’istanza del 2019. Del resto, la difesa medesima non aveva chiesto di duplicare l’importo sommando i due prestiti, ma soltanto di considerare il primo.
Infine, il giudice dell’esecuzione non avrebbe tenuto conto, ai fini della presunta “sproporzione”, dei seguenti ulteriori elementi:
i redditi agrari come certificati dall’INPS, seppure non precisamente quantificati negli importi (si parla solo di giorni di lavoro), che non confluivano nei redditi accertati dall’ADE;
le somme derivanti da disinvestimenti patrimoniali pari a 30 milioni di lire per la vendita di buoni postali nel 1991-92, acquistati dai genitori di NOME COGNOME dal 1983 al 1991.
La Corte di merito anche in questo caso era incorsa in un travisamento, affermando che NOME COGNOME aveva reinvestito parte delle somme incassate nell’ottobre 1991.
Tale operazione per 13.500.000 di lire era indicata nel documento prodotto, ma era antecedente all’incasso del primo rimborso del 26 dicembre 1991, quindi era impossibile che l’acquisto di RAGIONE_SOCIALE dell’ottobre 1991 fosse stato effettuato con le somme ottenute in rimborso due mesi dopo.
2.3. Con il terzo motivo di ricorso, si censura la motivazione sulla portata della prova dichiarativa fornita dai pentiti.
Con uno specifico motivo, la difesa aveva chiesto al giudice adito di esprimersi sulla corretta valutazione delle dichiarazioni dei collaboratori di giustizia, visto che nessuno di essi aveva indicato NOME COGNOME (né il fratello NOME COGNOME) come prestanome del clan, fra i quali veniva, invece,
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indicato NOME COGNOMEdante causa dell’acquisto del ’93, prestanome dei fratelli COGNOME).
L’incidente di esecuzione mirava a evidenziare che il ruolo di “testa di legno” del predetto COGNOME escludeva la necessità del clan di procedere a ulteriore e inutile intestazione fittizia con successivi atti di vendita.
Si evidenziava, inoltre, che il boss COGNOME, coinvolto – secondo quanto riferito dal collaboratore di giustizia NOME COGNOME – nell’operazione edilizia di lottizzazione dei terreni in questione, non volendo rimanere, neppure per interposta persona, quale proprietario di parte dei fondi, chiese e ottenne la vendita di tali beni con la consegna degli ingenti importi locupletati nell’affare.
Tali circostanze, che militavano, ad avviso della difesa, nel senso della perfetta liceità dell’acquisto effettuato dai ricorrenti, poiché situato a valle de già avvenuta intestazione fittizia in favore di NOME COGNOME, non sarebbero mai state valutate nel provvedimento impugnato, che si soffermava a lungo sul ruolo di prestanome di NOME COGNOME, mai contestato.
Solo NOME COGNOME, fratello di NOME, era stato ritenuto vicino al clan a seguito di accertamenti dei Carabinieri per essere stato trovato in compagnia di tale NOME COGNOME (soggetto, tuttavia, diverso da NOME COGNOME, menzionato nel verbale di sequestro quale persona vicina al clan COGNOME).
Lamenta, quindi, la difesa che la prova certa su cui era stata basata la confisca derivava dalla circostanza che un fratello di NOME COGNOME, in una singola occasione, sarebbe stato trovato in un circolo ricreativo in compagnia di un presunto affiliato al clan.
2.4. Con il quarto e ultimo motivo si denunciano la carenza e illogicità della motivazione in ordine alla presunta mancanza di buona fede del ricorrente ESPOSITO.
Si censura il passaggio motivazionale riportato a pag. 14.
La Corte territoriale, oltre a non chiarire quale vantaggio avrebbe avuto l’ESPOSITO dall’aver avanzato la richiesta di revoca nel 2016 e allargarla ad altri cespiti nel 2019, avrebbe dovuto prendere atto:
che l’iniziale sequestro non era stato trascritto per colpa non addebitabile all’istante ed egli, in buona fede, era stato danneggiato dalla mancata trascrizione;
che la confisca del 2007 (irrevocabile) era stata comunicata al ricorrente soltanto nel 2013, mettendolo in difficoltà nel giustificare la legittima provenienza delle somme impiegate ben 20 anni prima;
che la prima istanza di revoca fu presentata con prontezza nel 2015, non appena l’interessato riuscì a ottenere atti e documenti a supporto della stessa, senza colpevole ritardo;
che la seconda istanza, presentata nel 2019 dopo il rigetto del 2017 e dopo affannosa ricerca di altra documentazione atta a giustificare la legittima provenienza delle somme, era stata trattata de plano solo nel 2022, con un ritardo di oltre 3 anni neanche in questo caso imputabile al ricorrente.
Il Procuratore generale di questa Corte, nella sua requisitoria scritta, ha concluso per la declaratoria di inammissibilità dei ricorsi.
Nei motivi aggiunti, l’avv. NOME COGNOME nell’interesse dei ricorrenti, evidenzia che le dichiarazioni rese dall’originario venditore NOME COGNOMEdi aver venduto tutto l’appezzamento alla cifra di £ 690.000.000) trovavano pedissequa conferma nell’atto di compravendita del gennaio 1991 (cfr. all. 1) con il quale questi cedette l’intero complesso immobiliare a diversi acquirenti (fra i quali figura l’omonimo NOME COGNOME proprio alla cifra complessiva di £ 690.000.000!
In particolare, avendo riguardo ai soli terreni acquistati da NOME COGNOME nel 1991, rileva il difensore che, nel citato atto di compravendita, questi acquistò i fondi indicati all’art. 2, n°1, lettera a) e b), rispettivamente pari ad ha 3.33.80 ed ha 1.18.78 e quindi complessivamente pari a ettari 4.52.58 (pari a 11,23 moggi) al prezzo di L. 171.000.000.
Ogni moggio del lotto in questione venne, quindi, pagato al prezzo unitario di L. 15.230.000.
In conclusione, sia applicando il prezzo generico riferibile a tutti i 50 moggi (come indicati nell’atto del 1991 e come confermato dalle dichiarazioni di NOME COGNOME, pari, come detto, a L. 13.800.000 al moggio) sia, invece, applicando il prezzo unitario dei terreni specificamente acquistati da NOME COGNOME (come indicato nel dettaglio all’atto del 1991, pari a L. 15.230.000) i fondi oggetto di valutazione furono compravenduti nel 1991 al prezzo complessivo compreso fra L. 55.782.000 e L. 66.100.000.
Tale contratto di compravendita (presente agli atti del processo di cognizione, dal quale se ne è tratta copia) forniva conferma della congruità del prezzo poi pagato dagli ESPOSITO nel 1993 per il valore dichiarato di L. 87.147.500.
Ci si duole che il contratto del 1991 non sia stato minimamente valorizzato dalla Corte di Assise di Appello di Napoli ed anzi sia stato totalmente ignorato, pur costituendo un atto ufficiale di fondamentale importanza.
CONSIDERATO IN DIRITTO
Il ricorso è fondato per le ragioni che seguono.
Occorre ricordare che, ove sia disposto un sequestro finalizzato alla confisca ex art. 240-bis cod. pen. (già art. 12 -sexies legge 7 agosto 1992, n. 356,) su beni di un terzo, che si assumono essere di proprietà dell’indagato, l’accusa è gravata da un duplice onere probatorio:
deve provare che quel bene appartiene di fatto all’indagato in quanto l’intestazione a favore di un terzo è fittizia.
In tale senso, ad es., questa Corte ha chiarito che «in questo caso, prima ancora che investigare sull’accumulazione illecita, s’impone in via pregiudiziale l’accertamento dell’effettiva interposizione fittizia tra terzo ed imputato, da condurre su impulso dell’accusa, che è gravata del relativo onere, sulla scorta dei dati fattuali disponibili, ossia dei rapporti personali, di coniugio, parentela, amicizi tra costoro, delle situazioni patrimoniali e reddituali, delle attività svolte, insomma mediante l’utilizzo anche di elementi indiziari, purché connotati dai requisiti di pluralità, gravità, precisione e concordanza, stabiliti dall’art. 192 c.p.p., comma 2, in modo da dimostrare la discrasia esistente tra formale titolarità e reale appartenenza dei beni» (Sez. 1, n. 44534 del 24/10/2012, COGNOME, Rv. 254699 01):
deve provare l’esistenza di una sproporzione fra il reddito dichiarato o i proventi dell’attività economica del soggetto interessato ed il valore economico di beni e la mancanza di una giustificazione credibile circa la loro provenienza.
In particolare, ai fini della “sproporzione”, il giudizio deve essere temporalmente contestualizzato, nel senso che i proventi di cui il sequestrato aveva disponibilità vanno tenuti in conto nella misura attuale al momento in cui ha acquistato i singoli beni. Una volta provate dette circostanze, scatta una presunzione (iuris tantum) di illiceità dei beni appartenenti all’indagato, sicché, salvo prova contraria – derivante dall’inversione dell’onere probatorio – deve ritenersi ingiustificato un acquisto effettuato in un tempo in cui l’indagato (o i condannato) non aveva adeguate disponibilità economiche (tra le più recenti, Sez. 2, n. 36036 del 15 giugn0 2023, Tavella, non mass.).
In conclusione, va ribadito che, relativamente alle ipotesi delle c.d. confische allargate:
l’art. 12 sexies I. cit. (oggi art. 240-bis, primo comma, cod. pen.) prevede, al primo comma, un sistema probatorio, a carico della Pubblica accusa, fondato su una duplice presunzione iuris tantum, che, ove provata, è sufficiente a far scattare la confisca a carico dell’indagato, salvo prova contraria derivante dall’inversione dell’onere probatorio;
il suddetto meccanismo di presunzione iuris tantum, non è, invece, previsto in alcuna norma, per l’azione proposta nei confronti del terzo relativamente alle ipotesi delle cd. confische allargate (contrariamente a quanto
previsto nel diverso processo di prevenzione ora disciplinato nel c.d. Codice antimafia), sicché la Pubblica accusa che voglia provare che il bene intestato al terzo appartiene, di fatto, all’indagato, è gravata del normale onere probatorio, che può fondarsi anche su presunzioni semplici, che, però, possono assumere dignità di prova solo ove siano plurime, gravi, precise concordanti e cioè tali da consentire di risalire da un fatto noto (intestazione ad un terzo di un bene) ad uno ignoto (il bene, nonostante appartenga formalmente ad un terzo, è di fatto nella disponibilità giuridica dell’indagato: in argomento, Sez. 2, n. 37880 del 15/06/2023, COGNOME, Rv. 285028 – 01; Sez. 5, n. 53449 del 16/10/2018, Huang Xiaoping, Rv. 275406 – 01; Sez. 5, n. 13084 del 06/03/2017, COGNOME, Rv. 269711 – 01).
3. Tanto premesso, ritiene il Collegio che nel provvedimento impugnato manchi una motivazione capace di convincere, in modo sufficientemente adeguato sul piano logico, che la Pubblica accusa abbia assolto all’onere della prova, su di essa incombente, circa l’esistenza, con riguardo al cespite in contestazione, della discordanza tra intestazione formale e disponibilità effettiva del bene, atteso che, come già detto, non può reputarsi sufficiente la sola presunzione fondata sulla sproporzione tra valore dei beni intestati e reddito dichiarato dal terzo, essendo essa prevista dall’art. 240-bis cod. pen. solo nei confronti dell’imputato.
Nel provvedimento de quo, non è dato, in primo luogo, comprendere chi dovesse individuarsi, tra i vari imputati nel procedimento di cognizione, il dominus effettivo del fabbricato rurale su due vani sito in Noia, INDIRIZZO NarniINDIRIZZO
Si legge, a pag. 10, che NOME COGNOME, indicato tra i sette acquirenti dall’originario venditore NOME COGNOME (e poi dante causa degli odierni ricorrenti), figurasse genericamente quale ‘prestanome’ – non si sa di quale imputato – per essere il “nipote della moglie di NOME” NOME COGNOME e figlio di NOME COGNOME, “collegato ai f.11i COGNOME“; NOME COGNOME, tuttavia, in un brano precedente della stessa pagina, veniva, a sua volta, indicato quale ‘prestanome’ per la quota dei beni spettante al camorrista NOME COGNOME: dunque, a voler seguire l’esposizione del provvedimento, peraltro non “spiegata”, sembrerebbe che NOME COGNOME fosse il ‘prestanome’ di un altro ‘prestanome’ (NOME COGNOME) riconducibile a NOME COGNOME e, contestualmente, ‘prestanome’ dei fratelli COGNOME in quanto figlio di NOME COGNOME ai predetti fratelli collegato.
Si tratta, come detto, di asserzioni genericamente argomentate e in contraddizione tra loro, poiché evocanti la presenza di plurimi soggetti con effettiva disponibilità dei beni.
In tale contesto va ad inserirsi l’acquisto del fabbricato rurale, in data 5 maggio 1993, a NOME e NOME COGNOME quest’ultimo in comunione dei beni con la moglie NOME COGNOME
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Con atto del 5 luglio 2004, NOME avrebbe ceduto la sua quota al fratello
NOME, odierno ricorrente con la moglie.
Per dimostrare che, sia nel 1993 che nel 2004, la titolarità del bene fosse, ancora, solo apparente – essendo cambiato unicamente il soggetto fittiziamente
interposto – il giudice dell’esecuzione avrebbe dovuto fornire gli elementi, valorizzati dalla Pubblica accusa, capaci di supportare l’assunto.
Di tali elementi, tuttavia, non vi è traccia motivazionale adeguata.
Non può, infatti, ritenersi sufficiente, sul piano logico, a dimostrare che
NOME COGNOME conoscesse, al rogito del 1993, che NOME COGNOME fosse una
“testa di legno” – e, soprattutto, quale proprietario effettivo celasse – la mera circostanza, descritta in termini occasionali, per cui, nel corso di un controllo di
polizia giudiziaria, NOME COGNOME un altro fratello di NOME, diverso da NOME, originario acquirente del cespite controverso, fosse stato
trovato in compagnia di tale NOME COGNOME soggetto, a sua volta, diverso da
NOME COGNOME indicato come prestanome di NOME COGNOME
4. Tali palesi incongruenze motivazionali di carattere assorbente impongono l’annullamento del provvedimento impugnato, con rinvio per nuovo giudizio alla Corte di assise di appello di Napoli, che provvederà a rivalutare la vicenda colmando le lacune rilevate e tenendo presente che, mentre sulla Pubblica accusa grava un vero e proprio onere della prova, a carico del terzo può profilarsi solo un onere di allegazione.
Le ulteriori censure restano assorbite, ma non precluse.
P.Q.M.
Annulla l’ordinanza impugnata con rinvio per nuovo giudizio alla Corte di assise di appello di Napoli.
Così deciso in Roma, il 21 maggio 2025
Il Consigliere estensore
Il Presidente