Sentenza di Cassazione Penale Sez. 2 Num. 23093 Anno 2025
Penale Sent. Sez. 2 Num. 23093 Anno 2025
Presidente: COGNOME NOME
Relatore: COGNOME
Data Udienza: 05/06/2025
SENTENZA
sul ricorso proposto da:
Carone NOME
nata a Bari il 04/04/1956
avverso la sentenza del 03/04/2024 della Corte di appello di Bari visti gli atti, il provvedimento impugnato e il ricorso; udita la relazione svolta dal Consigliere NOME COGNOME udito il Pubblico ministero, in persona del Sostituto Procuratore generale NOME COGNOME che ha chiesto il rigetto del ricorso; udit o l’ Avv. NOME COGNOME che ha chiesto l’accoglimento del ricorso.
RITENUTO IN FATTO
Con sentenza del 3 aprile 2024 la Corte di appello di Bari, in parziale riforma della sentenza del Tribunale di Bari, accoglieva la richiesta formulata dalle parti ex art. 599bis cod. proc. pen. e rideterminava la pena detentiva inflitta ad NOME COGNOME ritenuta colpevole di tre reati di usura continuata in concorso, in tre anni di reclusione, sostituita con quella del lavoro di pubblica utilità presso la RAGIONE_SOCIALE di Bari per la durata corrispondente.
La Corte revocava la pena accessoria e la confisca di alcuni beni (valigetta metallica e beauty contenenti gioielli e monili), dei quali disponeva la restituzione all’imputata, confermando nel resto la sentenza di primo grado.
Ha proposto ricorso NOME COGNOME a mezzo del proprio difensore di fiducia, chiedendo l’annullamento della sentenza , limitatamente al punto relativo alla conferma della confisca della somma di 99.970,00 euro, in ragione di due motivi.
2.1. Contraddittorietà e manifesta illogicità della motivazione in relazione alla conferma della confisca ex art. 240bis cod. pen.
La Corte territoriale ha ritenuto sproporzionata la somma sequestrata presso l’abitazione dell’imputata rispetto alle disponibilità finanziarie della stessa e del suo nucleo familiare, argomentando in modo illogico e contraddittorio e valutando erroneamente le risultanze probatorie.
In particolare, la Corte d’appello ha ritenuto di limitare l’indagine patrimoniale sulla COGNOME e sulla sua famiglia al periodo oggetto della contestazione del reato (20172020), in dissonanza con l’analisi del perito nominato dalla stessa Corte, il quale ha esaminato l’arco temporale dal 2014 al 2020; inoltre, ha considerato i canoni di locazione degli appartamenti di proprietà dei fratelli dell’imputata, gestiti da quest’ultima, come redditi ‘in nero’, quando invece risulta per tabulas che furono regolarmente dichiarati al Fisco.
La difesa ha dimostrato attraverso documenti e testimoni che le somme in contanti detenute dalla ricorrente presso la propria abitazione erano riconducibili alle locazioni degli appartamenti di proprietà della famiglia e all’attività lavorativa prestata come colf e baby sitter ‘in nero’, tesi da sostenuta dalla COGNOME già in sede di riesame e confermata dagli accertamenti svolti dal consulente e dal perito, i quali hanno escluso che vi fossero stati ulteriori versamenti di denaro sui conti correnti rispetto a quelli riferibili agli assegni ricevuti per la cessione di un immobile e a titolo di risarcimento del danno per la morte del fratello NOME
La Corte di merito ha apoditticamente asserito che l ‘imputata , avendo depositato in banca ingenti somme, non avrebbe mai conservato in casa circa 100.000 euro, senza confrontarsi con le prove offerte dalla difesa, con le quali si è dimostrata la capacità di risparmio di somme in contanti, perché non depositate sui conti correnti, quantomeno dal 2014.
Anche il perito ha attestato, sulla base delle prove documentali, che i redditi relativi ai canoni di locazione degli appartamenti di NOME e NOME COGNOME, fratelli dell’imputata, erano stati regolarmente dichiarati al Fisco e che le somme incassate non erano mai state versate in banca.
2.2. Mancanza e manifesta illogicità della motivazione, con violazione della legge processuale (art. 125 cod. proc. pen.), nella parte in cui sono state ricostruite le tabelle relative a redditi, prelievi e spese per ogni annualità considerata.
La Corte d’appello sembra avere attinto in parte dagli elaborati peritali e in parte dalle consulenze della difesa, senza però dare alcuna indicazione che consenta di comprendere le tabelle, in assenza di una motivazione in ordine alla ricostruzione delle colonne relative alle voci ‘saldo prelievi vs versamenti’ e ‘spese’.
Il perito non ha considerato, per il periodo dal 2014 al 2017, gli introiti derivanti dall’attività svolta ‘ in nero ‘ dall’imputata né quelli relativi alla locazione degli appartamenti intestati ai suoi fratelli, essendosi basato solo sulle prove documentali. La Corte nulla ha motivato sul punto, mentre il consulente di parte, nelle osservazioni all’integrazione della relazione peritale, ha ricostruito in modo chiaro, coerente e logico la situazione patrimoniale della COGNOME e del suo nucleo familiare.
Analogo discorso è estensibile anche per gli ‘specchietti’ relativi alle annualità 2018, 2019 e 2020.
La Corte non ha spiegato come abbia determinato le cifre indicate per ogni colonna, da quale fonte probatoria le abbia assunte e in base a quale motivo abbia ritenuto più corretta la perizia o la consulenza di parte, ove si consideri che per la voce ‘spese’ l’importo riportato sembrerebbe derivare dalla seconda, mentre per il ‘saldo prelievi vs versamenti’ (della sola COGNOME NOME) dalla prima. Inoltre, non sono stati considerati i redditi derivanti dalla locazione dell’appartamento del fratello NOME, pacificamente non ‘in nero’ e quindi da conteggiare necessariamente fino al 2020.
Peraltro, il Giudice di secondo grado ha confermato la confisca della intera somma di circa 100.000 euro trovata nella disponibilità dell’imputata , quando, secondo i calcoli indicati in sentenza per il limitato periodo 2017-2020, almeno una parte (10.677,82 euro) risulta proporzionata al reddito del suo nucleo familiare.
CONSIDERATO IN DIRITTO
1. Il ricorso è fondato.
Va premesso che le Sezioni Unite di questa Corte hanno statuito che «se la sentenza dispone una misura di sicurezza, sulla quale non è intervenuto
accordo tra le parti, la statuizione relativa -che richiede accertamenti circa i previsti presupposti giustificativi e una pertinente motivazione che non ripete quella tipica della sentenza di “patteggiamento”, ed è inappellabile, alla luce del disposto del, tuttora vigente, art. 448, comma 2, cod. proc. pen. -è impugnabile, per coerenza dello sviluppo del ragionamento giuridico non disgiunto da esigenze di tenuta del sistema secondo postulati di unitarietà e completezza, con ricorso per cassazione anche per vizio della motivazione, ex art. 606, comma 1, cod. proc. pen.». Pertanto, anche a seguito della introduzione della previsione di cui all’art. 448, comma 2bis , cod. proc. pen., «è ammissibile il ricorso per cassazione per vizio di motivazione contro la sentenza di applicazione di pena con riferimento alle misure di sicurezza, personali o patrimoniali, che non abbiano formato oggetto dell’accordo delle parti» (Sez. U, n. 21368 del 26/09/2019, Savin, Rv. 279348 -02).
Il principio deve trovare applicazione anche in relazione al concordato in appello ex art. 599bis cod. proc. pen. qualora -come nel caso di specie -l’accordo fra le parti non abbia avuto quale oggetto anche la confisca.
La pronuncia impugnata ha preliminarmente osservato che, ‘come si evince dalla sentenza di primo grado, seppur non esplicitamente chiarito attraverso l’indicazione delle norme relative, i beni sono stati confiscati in applicazione della norma contenuta nell’art. 240 bis c.p.’ (pag. 21).
Si tratta, dunque, di una confisca allargata o per sproporzione, prevista per un catalogo di reati indicati nel suddetto articolo , fra i quali l’usura: «è sempre disposta la confisca del denaro, dei beni o delle altre utilità di cui il condannato non può giustificare la provenienza e di cui, anche per interposta persona fisica o giuridica, risulta essere titolare o avere la disponibilità a qualsiasi titolo in valore sproporzionato al proprio reddito, dichiarato ai fini delle imposte sul reddito, o alla propria attività economica».
Questa forma di confisca è giustificata dalla particolare gravità dei delitti spia ed è caratterizzata da un forte affievolimento degli oneri probatori gravanti sull’accusa in quanto fondata su tre elementi: la qualità di condannato per determinati reati; la sproporzione del patrimonio di cui il condannato dispone, anche indirettamente, rispetto al suo reddito o alla sua attività economica; la presunzione che il patrimonio stesso derivi da altre attività criminose non accertate. In presenza di determinate condizioni, si presume, dunque, che il condannato abbia commesso non solo il delitto che ha dato luogo alla condanna, ma anche altri reati, non accertati giudizialmente, dai quali deriverebbero i beni di cui egli dispone (Sez. U, n. 920 del 17/12/2003, dep. 2004, Montella, Rv. 226491 -01).
Anche di recente le Sezioni Unite della Suprema Corte, in conformità alle pronunce sul tema del Giudice delle leggi (per tutte cfr. Corte cost., sent. n. 33 del 2018), hanno ribadito che detta presunzione relativa non realizza una reale inversione dell’onere della prova, ma si limita a porre a carico del soggetto destinatario del provvedimento di confisca o di sequestro un onere di allegazione di fatti e circostanze di cui il giudice valuterà la specificità e la rilevanza e verificherà la sussistenza (Sez. U, n. 8052 del 26/10/2023, dep. 2024, COGNOME, Rv. 285852 -01).
3. La motivazione della sentenza impugnata è incentrata soprattutto sulla ritenuta inattendibilità della ipotesi di una propensione al ‘risparmio autogestito’ (‘mettere cioè il denaro sotto la mattonella’ pag. 22), avuto anche riguardo alle modalità di detenzione delle somme in contanti custodite in vari luoghi nell’abitazione della ricorrente, sequestrate il 9 novembre 2020, sì da far ritenere che le stesse fossero ‘pronte per l’uso, ossia destinate al prestito , ovvero derivanti da restituzioni di prestiti effettuati ‘ (pag. 24) .
Questa valutazione, però, evoca le caratteristiche di una confisca diretta del profitto dei reati (pacificamente esclusa) e non già quelle di una confisca allargata, che presuppone la sproporzione del patrimonio di cui il condannato dispone, anche indirettamente, rispetto al suo reddito o alla sua attività economica; il riferimento alla sproporzione di dette somme ‘rispetto al denaro movimentato e, quindi, tracciabile’ non è pertinente e anche la motivazione sulla restituzione dei gioielli (non è stato neppure dimostrato ‘che le vittime di usura consegnassero in pegno oggetti di valore’ pag. 26) conferma il non esatto inquadramento della natura dell’istituto della confisca ex art. 240bis cod. pen.
Inoltre, r ichiamando l’epoca di commissione dei reati di usura (2017 -2020), la Corte di appello ha disatteso le valutazioni del perito, che aveva considerato i redditi percepiti e le spese sostenute dal nucleo familiare della ricorrente anche per gli anni dal 2014 al 2017.
La motivazione sul punto non risulta logica (‘si dovrebbe ritenere, per aderire a tale ricostruzione, che la coppia madre/figlia preferisse conservare in casa i guadagni ottenuti, piuttosto che investirli, ma ciò appare in decisa antitesi con le movimentazioni bancarie in atti’ pag. 22) e oblitera le conclusioni della perizia, pure richiamata sul punto in sentenza (pag. 23), nella parte in cui essa ha escluso che vi fossero stati ulteriori versamenti di denaro sui conti correnti rispetto a quelli riferibili agli assegni ricevuti per la cessione di un immobile e a titolo di risarcimento del danno per la morte del fratello NOME
Va anche ricordato che la Corte di cassazione e la Corte costituzionale hanno perimetrato l’ambito di operatività della presunzione di illecita provenienza dei beni secondo il criterio di ‘ ragionevolezza temporale ‘ , ritenendo necessario un collegamento cronologico tra l’attività delittuosa per cui è stata emessa la sentenza di condanna e il momento di ingresso nel patrimonio del singolo bene di valore sproporzionato rispetto al reddito o all’attività economica (Sez. U, n. 27421 del 25/02/2021, Crostella, non mass. sul punto; Sez. U, n. 920 del 17/12/2003, dep. 2004, Montella, cit.; Corte cost., sent. n. 24 del 2019). Parallelamente detto criterio deve essere applicato avuto riguardo alla distanza fra la percezione dei redditi leciti da parte del soggetto destinatario della confisca e l’epoca di commissione dei reati (nel caso di specie tre anni, che costituiscono un periodo ‘ragionevole’).
Infine, anche gli ‘specchietti’ relativi alle varie annualità (pagg. 25 -26) risultano di difficile lettura e non consentono di comprendere se la Corte abbia correttamente considerato la natura della confisca allargata, tanto più che, ancora una volta, la sentenza ha collegato la detenzione della somma in contanti all ‘attività usuraria della ricorrente e della madre, ‘per porre in essere la quale era necessario disporre di una provvista non tracciabile, pronta all’uso e di immediata prestazione’ (pag. 25).
La sentenza impugnata, pertanto, nella parte in cui ha confermato la confisca del denaro (l’unica oggetto del ricorso), va annullata con rinvio per nuovo giudizio sul punto ad altra Sezione della Corte di appello di Bari.
P.Q.M.
Annulla la sentenza impugnata limitatamente alla confisca del denaro con rinvio per nuovo giudizio sul punto ad altra Sezione della Corte di appello di Bari. Così deciso il 05/06/2025.