Sentenza di Cassazione Penale Sez. 2 Num. 14483 Anno 2025
Penale Sent. Sez. 2 Num. 14483 Anno 2025
Presidente: NOME
Relatore: COGNOME
Data Udienza: 05/03/2025
SENTENZA
sui ricorsi proposti da: COGNOME nato a FOGGIA il 14/04/1964 COGNOME NOMECOGNOME nata a TORINO il 19/01/1969
avverso la sentenza del 15/02/2024 della CORTE APPELLO di TORINO
visti gli atti, il provvedimento impugnato e i ricorsi; udita la relazione svolta dal Consigliere NOME COGNOME
udito il Pubblico Ministero, in persona del Sostituto P.G. NOME COGNOME che ha concluso: quanto a COGNOME NOMECOGNOME per l’annullamento senza rinvio limitatamente alla pena accessoria; inammissibilità nel resto; quanto a COGNOME NOMECOGNOME per l’inammissibilità del ricorso.
udito il difensore
L’avvocato NOME in difesa di COGNOME NOME insiste per l’accoglimento dei motivi di ricorso.
RITENUTO IN FATTO
1. NOME e COGNOME NOME, con distinte impugnazioni e a mezzo dei rispettivi difensori di fiducia, ricorrono per cassazione avverso la sentenza della Corte di appello di Torino (Sez. 1) del 15/02/2024 (fascicolo pervenuto in Corte di cassazione il 15/11/2024) che, in parziale riforma della sentenza del Gup del Tribunale di Torino: ha assolto NOME dal reato di cui al capo 17) perché il fatto non sussiste, rideterminando la pena, in relazione agli altri reati di cui alla rubrica (capi 1, 2, 6, 10, 16, 21 e 23), ai sensi de 599-bis cod. proc. pen., previo accertamento che all’imputato non è stato contestato il reato di cui al capo 3); ha confermato la condanna inflitta a COGNOME NOME in ordine al delitto di riciclaggio di cui al capo 18), concedendo all’imputata il beneficio della non menzione e riducendo la quota di profitto confiscabile ex art. 648-quater cod. pen. ad euro 176.400,00.
In particolare, ai ricorrenti si contestano, rispettivamente, reati fiscali e que di riciclaggio. Si è accertata, infatti, l’esistenza di un meccanismo di frode fiscal presupposto dei fatti di riciclaggio contestati alla COGNOME, che vide gli imputat COGNOME e COGNOME quali beneficiari del risparmio d’imposta mediante esposizione di passività inesistenti, COGNOME, COGNOME e COGNOME quali soggetti emittenti le false fatture da portare in deduzione, e COGNOME (avvocato e marito della ricorrente) quale intermediario tra i primi e i secondi, nonché ideatore del meccanismo illecito.
2. Le difese affidano i ricorsi a diversi motivi che, ai sensi dell’art. 173, comma 1, disp. att. cod. proc. pen., saranno enunciati nei limiti strettamente necessari per la motivazione e trattati con riguardo alla posizione di ciascun imputato.
CONSIDERATO IN DIRITTO
Ricorso di COGNOME NOME
1. Vizio di motivazione in ordine alla disposta confisca in relazione ai capi 21) e 23) della rubrica, dove il Gup ha riconosciuto colpevoli il COGNOME e la coimputata COGNOME NOME disponendo nei confronti di entrambi l’intero importo del prezzo/profitto dei reati di cui agli artt. 110 cod. pen., 2 d.lgs. n. 74 del 2000 precisamente, fino alla somma di euro 277.596,00, duplicando irragionevolmente il quantum da confiscare che risulterebbe pari al doppio (euro 555.192,00).
Il motivo è inammissibile perché oggetto di rinuncia a seguito del concordato in appello. Dall’esame degli atti risulta:
che la censura svolta in questa sede fu oggetto del sesto motivo di appello;
che la richiesta di concordato del 14/06/2023, a cui seguì il consenso del P.G., dopo aver rideterminato la pena, previa assoluzione dell’imputato dal reato
di cui al capo 17), prevedeva espressamente che “il concordato sui motivi in premessa comporta la totale rinuncia a tutti i restanti motivi dedotti nell’atto d appello”;
che la Corte di appello recepì la richiesta all’udienza del 15/02/2024 (cfr. relativo verbale);
che nella parte dispositiva della sentenza impugnata è stata dichiarata l’inammissibilità di tutti gli altri motivi di appello proposti dall’imputato non ogge di concordato (v. pag. 70).
Violazione di legge e vizio di motivazione in relazione all’art. 29 cod. pen.
Lamenta il ricorrente che la Corte d’appello non abbia provveduto a ridurre la durata della pena accessoria dell’interdizione dai pubblici uffici che era stata disposta dal primo giudice per anni cinque (avendo in quella sede l’imputato riportato condanna ad anni 3 e giorni 20 di reclusione), nonostante a seguito del concordato la pena fosse stata ridotta ad anni 2 e mesi 1 di reclusione.
Il motivo è inammissibile per carenza di interesse.
La Corte di appello ha rideterminato la pena inflitta all’imputato a seguito del concordato in anni 2 e mesi 1 di reclusione, assolvendolo dal reato di cui al capo 17) perché il fatto non sussiste e previo accertamento che al COGNOME non è stato contestato il reato di cui al capo 3) d’imputazione (v. pagg. 44 e 70). È stata, poi, revocata la confisca del profitto del reato di cui al capo 17) fino alla concorrenza di euro 200mila. Null’altro è stata disposto. Né al ricorrente può riferirsi l statuizione di conferma della sentenza impugnata (“conferma nel resto”), pure riportata nel dispositivo che, invece, va riferita – anche graficamente – alla posizione della coimputata COGNOME NOMECOGNOME avendo la Corte d’appello trattato separatamente la posizione di ciascun imputato anche nel dispositivo.
Pertanto, in assenza di impugnazione sul punto del pubblico ministero – posto che il giudice di appello avrebbe dovuto ridurre, ai sensi dell’art. 12 d.lgs. n. 7 del 2000 (avendo l’imputato riportato condanna in ordine a plurimi reati di cui all’art. 2 d.lgs. cit.) la pena accessoria dell’interdizione dai pubblici uffici per un periodo non inferiore ad un anno e non superiore a tre anni – deve ritenersi che alla pena inflitta con la sentenza impugnata a seguito del concordato raggiunto non consegua alcuna pena accessoria. Da qui l’assenza di interesse dell’imputato ad impugnare sul punto la decisione.
In conclusione, il ricorso va dichiarato inammissibile, con condanna del ricorrente al pagamento delle spese processuali e di una somma di euro tremila in favore della Cassa delle ammende in ragione dei profili di inammissibilità rilevati.
Ricorso di NOME COGNOME.
Erronea applicazione dell’art. 43 cod. pen., in relazione all’art. 648-bis cod. pen. e vizio di motivazione, anche sotto il profilo del travisamento di specifici costituti processuali in ordine al capo 18) dell’imputazione (.
Il motivo muove dall’assenza di dolo in capo all’imputata, la quale sarebbe stata all’oscuro degli affari illeciti del marito e, dunque, della provenienz delittuosa della provvista impiegata (per il pagamento di una polizza e del prezzo di acquisto di un immobile) per come dimostrato dalla convergenza di molteplici elementi (indicati dalla difesa alle pagine 5 e 6 del ricorso) che la Corte d’appello avrebbe disatteso con motivazione carente sul piano logico argomentativo.
In particolare, per come evidenziato dalla difesa nell’atto di appello – di cui si riporta il contenuto alle pagine 14-16 del ricorso – la ritenuta conoscenza della natura delittuosa dei flussi di denaro mal si conciliava con un dimostrato disinteresse dei rapporti bancari su cui tali fondi erano confluiti – che rendeva del tutto recessivo l’elemento formale della titolarità dei relativi rapporti bancari nonché con l’assenza di segnali patrimoniali di tipo anomalo che rendessero quella disponibilità sospetta, stante una cronologia patrimoniale che, ad eccezione dell’immobile oggetto dell’imputazione di riciclaggio, era stata ritenuta coerente e priva di anomalie (v. indici esplicitati a conferma dell’assunto alle pagine 17 e 18), tanto che nessun altro cespite anche di tipo finanziario era stato aggredito dalla confisca allargata.
Neppure confacenti erano le “operazioni sospette” o il “salto di qualità” dell’anno 2014 a cui il primo giudice aveva fatto riferimento ai fini della prova del dolo eventuale, in quanto un corretto esame della vicenda, condotto alla stregua delle censure svolte con l’atto di appello (v. pag. 19 e 20 del ricorso), escludeva qualunque anomalia, trattandosi di operazioni societarie (il riferimento è alla RAGIONE_SOCIALE) o di acquisizioni (il riferimento è all’acquisizione temporalmente contigua di due immobili) del tutto compatibili con le entrate e i proventi di cu disponevano i coniugi. Sul tema, peraltro, a confutazione dell’affermazione che le acquisizioni operate fossero sproporzionate si richiamano le prospettazioni difensive (v. pagg. 24 e 25) volte a dimostrare la congruità rispetto ad ogni spesa effettuata e l’assenza, dunque, di operazioni “anomale” nell’ambito di una filiera gestionale coerente.
Anche il riferimento alle “grandi abilità” e al “controllo diretto sui conti est per la gestione del tesoretto spagnolo che l’imputata avrebbe dimostrato e svolto, ovvero che conoscesse le movimentazioni registratesi sui conti al tempo dei fatti e le società di comodo da cui è originata (in tutto in parte) la provvista po impiegata, era privo di adeguata base probatoria.
Né altrettanto confacente era l’argomento che l’imputata “vedesse giungere assegni da parte delle fallite torinesi che incassa su un conto dalla stessa movimentato per finalità di investimento immobiliare”: richiamato il dato, significativo per la difesa, che la perquisizione svolta (nel maggio 2018) aveva portato a rinvenire gli estratti conto bancari nel solo PC del marito, si assume che si trattava di assegni circolari privi dell’indicazione di traenza ed emessi da società (cartiere) che all’epoca in cui retrocedevano i denari ricevuti in pagamento delle false fatture non erano ancora fallite.
Peraltro, si evidenzia come le condotte sospette (costituzione della società ed acquisti immobiliari immediatamente successivi nel 2014) che “denuncerebbero” la consapevolezza della ricorrente di poter contare su fondi illeciti mai erano state prospettate in termini di riciclaggio di quei fondi, a fronte di operazioni di riciclag che si ponevano due anni dopo (2016).
Inoltre, si era disatteso il rilievo costituito dal legame matrimoniale con coimputato, elemento che avrebbe dovuto propendere sull’attendibilità delle informazioni da costui ricevute.
Carente di motivazione era poi la sentenza impugnata con riguardo all’assenza di rilievo delle dichiarazioni dei coimputati (COGNOME, COGNOME, COGNOME) i quali avevan escluso qualsiasi coinvolgimento dell’imputata nell’architettata frode.
Travisato, anzi, era il rilievo dato al dichiarato del COGNOME, ove il fatto aveva riferito che la ricorrente “lavora” col marito – inteso dalla Corte di merito come riferibile alla cooperazione nel riciclaggio del denaro in Spagna – andava letto con l’ulteriore e conseguenziale affermazione di non averle mai parlato di questioni connesse alla frode fiscale.
Quanto al rilievo attribuito al contenuto delle intercettazioni telefoniche, si er disatteso il dato, significativo, che le captazioni erano avvenute dopo i fatt (dall’anno 2014 al maggio 2018) e già eseguite le perquisizioni, quando, dunque, era ormai appalesato alla moglie il coinvolgimento del marito nella frode fiscale. Inoltre, dai dialoghi traspariva semmai un atteggiamento non affatto accondiscendente, bensì ingenuo. Si era finito per ritenere un dolo “ora per allora”.
Travisato era poi il contenuto della telefonata n. 315 del 16 aprile 2018, da cui non emergeva affatto che la ricorrente fosse “coeva” al marito nel disegno di liquidare parte del patrimonio per “andarsene”.
Del tutto generico, in quanto privo del necessario riferimento probatorio, era poi il richiamo al fatto che dai dialoghi captati emergeva che i coniugi avessero piena trasparenza tra di loro su ogni entrata ed uscita e della piena fiducia di operazioni autonome sui conti e società promiscue della ricorrente rispetto al marito.
Travisato, altresì, era il contenuto della telefonata del 12 settembre 2018 tra COGNOME e COGNOME le cui espressioni utilizzate andavano lette nel senso di aver creato problemi a soggetti ignari, quanto piuttosto di avere coinvolto parenti consenzienti nel progetto criminoso.
Quanto alla prima condotta di riciclaggio, sulla scorta degli esiti di prova doveva ritenersi la ricorrente estranea alla vicenda relativa alla sottoscrizione della polizza AXA, seguita da due bonifici.
La difesa aveva dimostrato la falsità della firma di sottoscrizione del contratto di polizza (che il marito ha ammesso di avere effettuato ignara la moglie), ma i giudici di merito, disattendendo il relativo tema, erano pervenuti all’affermazione di responsabilità assumendo che l’imputata avesse acconsentito consapevolmente alla falsa sottoscrizione, senza indicare gli elementi probatori di sostegno. Peraltro, del tutto inconferente a conferma del concorso morale era il rilievo dato al fatto che il marito risultava il beneficiario della polizza e che il pagamento fosse avvenuto servendosi del conto cointestato. Non esplicitata, poi, era il collegamento, pure ritenuto rilevante ai detti fini, con la restante operazione di cui al secondo segmento del contestato riciclaggio.
Anche con riguardo alla seconda operazione oggetto del contestato riciclaggio si muovono censure in punto di carenza e contraddittorietà della motivazione.
Premesso che l’accredito oggetto della provvista da cui è poi originato l’assegno circolare chiesto dall’imputata per acquistare l’immobile andava correttamente quantificato in euro 36.400 (per come poi riconosciuto dalla stessa Corte di appello in sede di riduzione del quantum confiscabile), si ripropongono le questioni attinenti all’assenza di dolo tenuto conto che l’imputata non aveva alcun ragione di insospettirsi quando le fu suggerito dal marito di acquistare l’immobile a cui fu destinata parte della provvista illecita che era stata accreditata sul suo conto. A conferma dell’esclusione del dolo, anche eventuale, si richiama l’assenza di prova che l’imputata avesse financo cognizione dell’andamento dei conti correnti, quali non operava personalmente (essendosi limitata in territorio spagnolo a mansioni pratiche strettamente connesse alla gestione degli alloggi).
Il fatto che l’abitazione fu acquistata a distanza di quasi due anni dai precedenti investimenti immobiliari della famiglia COGNOME (risalenti al 2014) e che sul conto corrente da cui l’imputata aveva tratto l’assegno circolare risultavano pervenute consistenti risorse (circa 180mila euro di affitti riscossi e altri 130mil euro da elargizioni in denaro dal padre del marito). Tutto ciò rendeva plausibile l’affermazione dell’imputata di essersi fidata delle rassicurazioni del marito e di non averle trovate sospette (qui però il tema non è tanto che il c/c disponesse di risorse sufficienti per pagare la casa ma di vere triangolato l’accredito ricevuto).
Peraltro, l’affermazione della Corte di merito che la provvista di provenienza delittuosa oggetto dell’accredito sul suo conto sarebbe stata utilizzata per l’acquisto della casa era contraddetta dal fatto che lo stesso giudice di appello aveva riconosciuto che l’entità della somma accredita era di gran lunga inferiore al successivo esborso per l’acquisto dell’abitazione (euro 36.400 e non euro 108.000 a fronte di un acquisto per un valore di euro 90.000).
Ma anche laddove si convenisse che la ricorrente avesse omesso, per negligenza, una più accurata vigilanza sull’operato del marito (quantomeno rispetto alla società RAGIONE_SOCIALE e ai conti correnti intestatile), si sarebbe cospetto di un atteggiamento colpevole ma non doloso, alla stregua anche dei principi affermati dalla Corte di legittimità in materia (si citano gli arresti delle RAGIONE_SOCIALE).
In conclusione, in punto di elemento soggettivo, restava il vizio di fondo della decisione di essere giunta, contrariamente alla sentenza di primo grado che aveva fatto leva sul dolo eventuale, ad asseverare financo un dolo diretto, eludendo un confronto con i parametri probatori indicati dalla difesa e ponendo “a premessa dimostrata” la consapevolezza in capo all’imputata dell’attività del riciclaggio delle somme che, invece, doveva costituire oggetto del thema probandi.
Il motivo non è fondato.
Le sentenze di merito hanno ritenuto l’imputata responsabile del reato di riciclaggio di cui al capo 18) della rubrica. In particolare, è stato accertato ch gran parte della provvista di provenienza delittuosa derivante dai reati fiscali commessi dal marito e dai suoi complici, e pervenuta sul conto spagnolo alla ricorrente intestato, è stata impiegata per stipulare due polizze assicurative a suo nome (per euro 100mila ciascuna) e per l’acquisto di un immobile sito in Spagna.
Il tema di fondo su cui si basano le censure sollevate dalla difesa attiene alla sussistenza del dolo, anche nella forma eventuale, del delitto di riciclaggio, assumendosi che l’imputata non fosse a conoscenza del meccanismo di frode ideato dal marito e della provenienza delittuosa delle somme confluite sul suo conto corrente e, dunque, di prestarsi ad operazioni di riciclaggio, tenuto conto che l’unico dominus della gestione dei conti e della genesi delle operazioni andava individuato nel marito, del cui corretto operato ella non aveva motivo di dubitare.
Peraltro, posto che si assume che le polizze vennero falsamente sottoscritte dal marito a nome della ricorrente, il quale ne risultava anche beneficiario per causa morte, la difesa ha introdotto anche l’ulteriore tema relativo all’estraneità della ricorrente dalla commissione del primo segmento del delitto di riciclaggio.
Tanto premesso, ritiene il Collegio che le sentenze di merito abbiano disatteso i temi difensivi con motivazione non censurabile in questa sede.
Anzitutto si è escluso che l’allegazione difensiva che riconduce al marito la sottoscrizione delle polizze sia di per sé sufficiente ad asseverare l’estraneità della ricorrente alla prima operazione di riciclaggio. E ciò non tanto perché nel processo non risulta mai essere stato operato un formale disconoscimento della sottoscrizione da parte dell’imputata (questa ha chiarito di avere sottoscritto negli anni una polizza vita, anche se non sa dire se il contratto firmato fosse quello oggetto di contestazione, v. pag. 27 appello), ma perché si è ritenuto che ella abbia acconsentito alla falsa sottoscrizione da parte del marito.
A tale conclusione la Corte di merito perviene valorizzando l’argomento, particolarmente significativo, che il marito non avrebbe mai potuto realizzare l’operazione senza il consenso, anche morale, della ricorrente, proprio per il funzionamento relativo al beneficiario della polizza e per garantirsi la possibilità di escluderla. La censura difensiva, incentrata sul rilievo decisivo che dovrebbe riconoscersi alla falsità della sottoscrizione della polizza, non si confronta con i meccanismo negoziale che contraddistingue tali particolari forme di investimento del denaro che non rendevano affatto ‘esaurito’ il compito di colei a nome del quale la polizza era stata stipulata, la quale sarebbe rientrata necessariamente in gioco al momento dello svincolo o della rinegoziazione delle polizze.
Se a ciò si aggiunge che le somme utilizzate per il versamento dei premi provengono dal c/c intestato alla ricorrente, dei cui movimenti si presume ella abbia contezza in ragione della normativa che ne regola il funzionamento anche laddove le operazioni fossero state materialmente compiute dal marito che ne aveva la delega ad operare, non affatto illogico è avere escluso che l’intera operazione, sia pure orchestrata dal marito, potesse prescindere dal consapevole coinvolgimento della ricorrente.
Del resto, le sentenze di merito, lungi dal disegnare la ricorrente come una quisque de populo ignara del rilievo che, invece, logicamente deve riconoscersi ad operazioni negoziali relative a importi di così elevata entità, la descrivono come una persona istruita e professionalmente attrezzata (ha esercitato la professione di avvocato) direttamente coinvolta negli affari coltivati negli anni dalla coppia, soprattutto nel campo immobiliare, ove l’attività non si limitò ad una mera gestione di un patrimonio esistente, ma concorse alla sua implementazione anche mediante il ricorso a strumenti finanziari e societari che esigevano, dal punto di vista giuridico, il concorso (e la consapevolezza) di entrambi.
Peraltro, l’argomento che vorrebbe la ricorrente del tutto ignara della fuoriuscita di ben euro 200mila dal proprio conto destinati alla sottoscrizione delle polizze è smentito anche dalla seconda operazione oggetto di riciclaggio ove risulta, per tabula, che fu la ricorrente a richiedere l’emissione, con addebito sul
suo conto, dell’assegno circolare che fu poi utilizzato per perfezionare l’acquisto dell’immobile spagnolo, avvalendosi sempre di parte della provvista proveniente dai reati fiscali commessi dal marito. Si tratta di somme che sono state indicate come del tutto eterogenee rispetto sia alle entrate familiari che alla gestione degli immobili turistici in Spagna e che risultano anche distoniche rispetto all’attività professionale svolta dal marito in Italia.
Le stesse intercettazioni telefoniche, per come precisato in sentenza, restituiscono un quadro di trasparenza tra i coniugi sulle entrate ed uscite del ménage familiare e, soprattutto, ciò rilevando ai fini di prova del dolo, una consapevole condivisione anche della natura illecita delle vicende che li hanno visti coinvolti. Il rilievo difensivo, secondo cui le accortezze nei dialoghi che i coniugi si impongono sarebbero esclusivamente dovute ai timori conseguenti alle perquisizioni subite (giugno 2018) e non ad una consuetudine già in essere al momento delle operazioni oggetto di riciclaggio (2016), non solo ridonda, al pari delle altre attinenti al contenuto delle conversazioni, in una non consentita censura di merito, ma non tiene conto che dai dialoghi si ricava l’esistenza di “regole” (si parla di regola numero uno) che semanticamente mal si conciliano con la sprovvedutezza che la difesa vuole attribuire all’imputata.
Non affatto illogica è dunque la conclusione che la ricorrente si sia consapevolmente prestata al fine di monetizzare, a vantaggio di entrambi, parte dei proventi delittuosi del marito. E sul punto, quanto alla prima operazione di riciclaggio, neppure decisiva è l’affermazione difensiva che beneficiario della polizza sarebbe stato solo il marito, unico soggetto avvantaggiato dall’operazione. In realtà, titolare della polizza è l’imputata e ad essa soltanto è giuridicamente riferibile, in attualità, il valore giuridico ed economico dell’investimento; l’effe favorevole indicato dalla difesa ha carattere eventuale e consegue alla clausola contrattuale, tipica di tali operazioni negoziali, conseguente all’indicazione del marito quale beneficiario in caso di morte della ricorrente, quale titolare della polizza.
Anzi, la comune condivisione dei “risultati” derivanti dagli investimenti illeciti si ricava anche, in termini di perfetta continenza, dal contenuto delle intercettazioni che riguardano la vicenda relativa all’acquisto dell’immobile (secondo segmento del riciclaggio), ove si sottolinea che “pacificamente risultano le captazioni tra i coniugi sulla provenienza illecita e sulla necessità di liberarsene in tempi solleciti per salvaguardare le somme in esso riciclate” (pag. 69).
Del resto, sostenere un “salto di qualità” dell’imputata nell’alveo della consapevolezza degli illeciti del marito soltanto allorché l’autorità giudiziaria abbia fatto ingresso nella loro sfera giuridica si pone in “controtendenza” con il
necessario affidamento che proprio il marito doveva riporre nel coniuge al fine di monetizzare i proventi delittuosi che vedevano coinvolti anche altri soggetti, la cui posizione doveva, al pari della propria, essere preservata. Ed è proprio su tale aspetto che cede la censura difensiva che fa leva – al fine di avvalorare l’estraneità dell’imputata ai fatti di causa – sull’assenza di chiamate in correità della ricorrente da parte degli autori dei reati fiscali. La contestazione di riciclaggio poggia, per sua natura, su dati di fatto che escludano un coinvolgimento dell’autore nei reati presupposto che hanno generato le delittuose liquidità. Se a ciò si aggiunge che le operazioni contestate sono dirette a produrre i loro effetti esclusivamente nell’ambito della sfera familiare (polizza intestata alla ricorrente con beneficiario causa morte il marito, acquisto di immobile destinato ad incrementare il patrimonio coniugale) nessuna “distonia” va registrata con l’assenza di dichiarati provenienti da terzi che attribuiscano alla ricorrente un qualche ruolo antecedente alle operazioni, in quanto del tutto coerente con le finalità e gli ambiti del contestato riciclaggio.
Si è, dunque, al cospetto di una pluralità di indici, di carattere convergente, altamente rivelatori della consapevolezza della provenienza delittuosa delle cospicue somme reinvestite, così superandosi l’obiezione di una ricostruzione dell’elemento soggettivo del reato in termini di un rimprovero per responsabilità di posizione in quanto titolare del c/c su cui sono pervenute le somme derivanti dai reati fiscali delle società di comodo, poi reimpiegate con le operazioni di riciclaggio contestate.
Correttamente, quindi, la Corte di merito ha ricondotto la fattispecie nell’alveo del dolo diretto; e tanto a prescindere dall’esistenza di una situazione di fatto da cui l’imputata avrebbe potuto rappresentarsi la provenienza delittuosa del denaro ricevuto ed investito.
Non decisive al cospetto degli elementi decisivi sopra indicati e in quanto volte ad una rilettura e prospettazione alternativa delle emergenze processuali risultano, infine, le altre doglianze sollevate col motivo di ricorso.
Erronea applicazione dell’art. 12-bis d.lgs. n. 74 del 2000, in relazione agli artt. 1854-1298 cod. civ. e vizio di motivazione quanto alla confisca integrale della giacenza del c/c italiano Unipol n. NUMERO_DOCUMENTO cointestato alla ricorrente e al marito.
Si lamenta che la confisca del profitto dei reati fiscali disposta, anche per equivalente, ex art. 12 d.lgs. cit. ha attinto anche la quota del 50%, in relazione alla quale opera la presunzione di proprietà in capo alla moglie, di un c/c del tutto estraneo ai flussi di denaro illeciti e alimentato, per come dimostrato dalla difesa, con flussi leciti.
In particolare, si denuncia l’assenza di una motivazione che desse conto
dell’ablazione della quota riferibile alla ricorrente, soggetto non concorrente nei reati fiscali. La motivazione resa dalla Corte di merito – che aveva asseverato una sorta di confusione delle somme ivi giacenti – si fondava sul dato travisato che anche quel conto fosse tra quelli che accoglievano fondi illeciti e che fosse impiegato per finalità illecite comuni ad entrambi i coniugi. Peraltro, il conto era cointestato e non del solo marito con delega ad operare in favore della moglie (con conseguente operatività della presunzione ex lege di proprietà al 50%).
Il motivo non è fondato nei sensi di cui in motivazione.
La Corte di merito ha disatteso il motivo di appello con cui la difesa lamentava l’estensione della confisca (disposta ex art. 12-bis d.lgs. n. 74 del 2000) anche alla quota parte del c/c di spettanza della ricorrente, quale cointestataria, sul rilievo che il conto fosse tra quelli che accoglievano fondi illeciti (nella specie quell derivanti dai reati fiscali commessi dal marito) e destinato alle finalità di riciclaggi e reimpiego del denaro di provenienza delittuosa (v. pag. 59 e 60).
In realtà, dalla lettura della sentenza impugnata si ricava che il riferimento è da intendersi al diverso c/c oggetto del contestato riciclaggio (v. pag. 59 penultimo capoverso ove nell’esaminare la censura la Corte di merito fa riferimento al “conto corrente sopra citato” che è, appunto, quello interessato dalle operazioni di riciclaggio del denaro indicato al capo 18). Né il capo di imputazione e le sentenze di merito indicano il conto Unipol tra quelli ulteriori che risultano coinvolt nell’articolato meccanismo illecito coniato dal COGNOME.
Corretta, pertanto, è la denuncia di travisamento – ma priva di decisività per quanto di seguito sarà evidenziato – in cui è incorsa la Corte territoriale, dovendosi ritenere che la giacenza su quel conto è stata sequestrata per assicurare la confisca per equivalente gravante sul marito in forza dei reati fiscali commessi, in coerenza peraltro con la disposizione normativa di cui all’art. 12-bis d.lgs cit. che prevede, in caso di condanna o patteggiamento, anche la confisca per equivalente del profitto-prezzo dei reati previsti dal decreto legislativo.
Così ricostruita la fattispecie, la questione involge la legittimità della misura reale disposta per la parte del conto riferibile alla ricorrente, quale cointestataria (sul punto deve anche chiarirsi che il riferimento alla delega ad operare che si riscontra nella sentenza impugnata e censurato in fatto dalla difesa va riferito al principio di diritto richiamato dalla Corte d’appello e non alla fattispecie concreta che lo stesso giudice del merito precisa essere relativa ad un conto cointestato).
La difesa, premesso che si è al cospetto di un conto alimentato con proventi leciti, articola la censura sul rilievo che dovrebbe riconoscersi alla presunzione legale di cui agli artt. 1854 e 1298 cod. civ. che esclude la solidarietà.
Si tratta, però, di una presunzione destinata a non operare in questa sede.
Al riguardo, infatti, va richiamato il principio giurisprudenziale secondo il quale «Le somme di denaro, depositate su conto corrente bancario cointestato con un soggetto estraneo al reato, sono soggette a sequestro preventivo funzionale alla confisca per equivalente, in quanto quest’ultimo si estende ai beni comunque nella disponibilità dell’indagato, non ostandovi le limitazioni provenienti da vincoli o presunzioni operanti, in forza della normativa civilistica, nel rapporto di solidarietà tra creditori e debitori, restando salvo il diritto del terzo di dimostrare l’esclusi titolarità di tutte o parte delle somme ivi depositate (art. 1289 cod. civ.) o nel rapporto tra istituto bancario e soggetto depositante (art. 1834 cod. civ.)» (Sez. 3, n. 45353 del 19/10/2011, COGNOME, Rv. 251317 – 01; in senso conforme Sez. 6, n. 40175 del 14/03/2007, COGNOME, Rv. 238086 -01; da ultimo Sez. 2, n. 37333 del 5/07/2023, COGNOME, non mass.).
Nell’ambito di detta impostazione, si aggiunge che, ai fini del sequestro preventivo funzionale alla confisca per equivalente di cui all’art. 322-ter cod. pen. della somma di denaro depositata su un conto corrente bancario cointestato con un soggetto estraneo al reato, la misura preventiva reale si estende ai beni comunque nella disponibilità dell’indagato, senza che a tal fine possano rilevare presunzioni o vincoli posti dal codice civile (artt. 1289 e 1834 cod. civ.) per regolare i rapporti interni tra creditori e debitori solidali o i rapporti tra banc depositante, ferma restando la possibilità nel prosieguo di procedere ad un effettivo accertamento dei beni di esclusiva proprietà di terzi estranei al reato. (Sez. 2, n. 36175 del 07/06/2017, COGNOME, Rv. 271136 – 01, in cui la Corte ha rigettato il ricorso del terzo interessato evidenziando, peraltro, che nel caso di specie l’indagato, in forza di una delega ad operare senza limitazioni, aveva la possibilità di disporre dell’intera provvista delle somme e dei valori depositati sul conto corrente cointestato).
In sostanza, la previsione di cui all’art. 12-bis d.lgs. cit. – introducendo la confisca per equivalente nel caso in cui i beni costituenti il profitto o il prezzo de reato non siano aggredibili per qualsiasi ragione – prevede che la misura reale possa riguardare beni dei quali il reo abbia in ogni caso la disponibilità per un valore corrispondente a quello che avrebbe dovuto altrimenti costituire oggetto della confisca. Ne deriva che il sequestro preventivo, funzionale alla confisca per equivalente, ricade su beni comunque nella disponibilità dell’indagato, senza che a tal fine possano rilevare presunzioni o vincoli posti dal Codice civile a regolare rapporti interni tra creditori e debitori solidali, ex art. 1298, comma 2, cod. civ. o i rapporti tra banca e depositante, ex art. 1834 cod. civ., considerato che su queste disposizioni prevalgono le norme penali in materia di sequestro preventivo preordinato ad evitare che, nelle more dell’adozione del definitivo provvedimento
di confisca, i beni che si trovino comunque nella disponibilità dell’indagato possano essere definitivamente dispersi (Sez. 2, n. 36175 del 07/06/2017, Terzi, Rv. 271136 – 01; Sez. 6, n. 24432 del 18/04/2019, COGNOME, Rv. 276278 – 01; Sez. 3, n. 20726 del 25/10/2022, COGNOME, non mass.).
In applicazione di questo principio va, pertanto, ritenuta immune, nelle conclusioni raggiunte, la decisione impugnata, in quanto la mera cointestazione non può, in mancanza di una prova che dimostri la reale consistenza degli incrementi di propria pertinenza, accreditare la presunzione che le somme in deposito siano spettanti a ciascuno dei cointestatari in parti uguali (in termini v. anche Sez. 6, n. 24633 del 29/03/2006, COGNOME, Rv. 234729 – 01).
L’immissione di somme di denaro in rapporti bancari cointestati e a firma disgiunta imprime alle stesse una destinazione comune ai cointestatari, in relazione alla quale ciascuno ha la libertà di disporne, con la conseguenza che le somme sono assoggettabili alla confisca per equivalente, salvo che ne sia comprovata l’esclusiva riferibilità quota parte a ciascuno dei cointestatari, profilo di fatto che non risulta compiutamente evaso dal mero riferimento ad una prova documentale che, pur dando conto della liceità di ingresso dei flussi finanziari ivi transitati, non ne individua gli ambiti di rispettiva pertinenza tra i due cointestatari
Né il principio sopra affermato risulta contraddetto dall’orientamento di legittimità citato nel ricorso (Sez. 6, n. 25427 del 8/09/2020, non mass.), in quanto relativo alla diversa fattispecie concernente la possibilità di estendere la confisca diretta del profitto del reato anche alla quota parte del terzo giacente sul conto cointestato che, invece, richiede, per come ribadito dalle Sezioni unite, che il conto risulti alimentato solo da somme dell’indagato, occorrendo sempre un nesso di derivazione con la condotta illecita che a quel provento ha dato luogo, posto che il sequestro diretto del prezzo o del profitto del reato è ammesso solo su beni “riferibili” all’indagato (Sez. U, n. 42415 del 27/05/2021, C., Rv. 282037 – 01).
Né elementi utili alla difesa si traggono pure dalla recente sentenza delle Sezioni unite di cui all’informazione provvisoria del 26 settembre 2024, pure citata nel ricorso, che riguarda fattispecie del tutto differente, quale quella della confisca del profitto del reato in caso di concorso di persone nel reato.
Erronea applicazione dell’art. 648-quater cpv. cod. pen. disposta sino all’ammontare di euro 176.400 (così correttamente ridefinita la somma in ragione dell’effettiva entità del secondo accredito contestato nell’imputazione pari ad euro 36.400 e non 108.000) e vizio di omessa motivazione.
La censura attiene alla corretta individuazione del profitto del riciclaggio con riguardo alla prima delle operazioni contestate (il riferimento è all’importo
complessivo di euro 140mila impiegato per sottoscrivere le due polizze), tema che il giudice di merito – investito sul punto da apposita memoria dell’8 giugno 2023 – aveva disatteso e/o erroneamente fatto coincidere con l’entità del valore degli accrediti provento dei reati fiscali ricevuti sul c/c, dovendosi invece avere riguardo solo al prezzo del reato ricevuto dal reo quale compenso che retribuisce l’azione illecita, distinguendosi negli altri casi tra il profitto di cui si è avvantaggiato l’au del reato presupposto e quello tratto dal riciclatore (a conferma della necessità di una perimetrazione del profitto confiscabile si citano anche le recenti S.U. di cui all’informazione provvisoria del 26/09/2024 che, in caso di concorso nel reato, limitano la confisca per equivalente all’effettivo beneficio conseguito da ciascun concorrente).
Ciò posto, si evidenzia come del rapporto assicurativo conseguente alle sottoscrizioni delle polizze in forza della provvista illecita oggetto del primo segmento della condotta di riciclaggio si potesse avvantaggiare solo il marito, quale unico beneficiario. L’operazione di cui alla prima parte della contestazione di riciclaggio comportò la fuoriuscita di fondi dalla disponibilità della ricorrente e i loro reingresso in quella del marito, autore dei reati presupposti (si sottolinea come l’operazione, a ben vedere, abbia anche comportato un saldo inferiore all’entità degli accrediti di provenienza delittuosa essendo stato versato un premio assicurativo di euro 200mila a fronte di versamenti illeciti per euro 140nnila). Con la conseguenza, semmai, che l’unico autonomo profitto ascrivibile alla ricorrente, in ipotesi di accusa, era quello pari alla provvista illecita accreditata sul suo conto pari ad euro 36.300, poi utilizzata per acquistare l’immobile.
Il motivo è manifestamente infondato.
Se può convenirsi con la difesa che, in tema di riciclaggio, occorre distinguere tra il profitto di cui si è avvantaggiato l’autore del reato presupposto e quello tratto dal riciclatore, in quanto anche eziologicamente riferibili a condotte soggettivamente ed oggettivamente differenti (ex multis, Sez. 2, n. 2166 del 06/12/2022, dep. 2023, Ibrhaim, Rv. 283898 – 01; Sez. 2, n. 2163 del 20230; Sez. 2, n. 19561 del 2022), altrettanto non può affermarsi con riguardo alle conseguenze che la difesa dall’applicazione di tale principio ne fa derivare a proposito della prima operazione di riciclaggio compiuta.
Si è già evidenziato, a proposito del primo motivo di ricorso, che la sottoscrizione delle polizze, quale prodotto assicurativo di investimento, costituisce un valore, giuridicamente apprezzabile, per la sfera giuridica di chi ne risulta titolare, a prescindere che, in caso di morte, sia stabilita, in conformità col tipo negoziale, che della redditività dell’investimento ne beneficerà il marito quale erede legittimo in caso di decesso della moglie.
Correttamente, pertanto, la quota di profitto è stata stabilita nella misura delle somme riciclate in quanto la provvista di derivazione delittuosa è stata dall’imputata impiegata per investimenti finanziari/assicurativi a proprio nome, a vantaggio proprio o del suo nucleo familiare.
E tanto a prescindere anche dal rilievo che le polizze avrebbero potuto configurare, ai fini di confisca ex art. 648-quater cod. pen., il prodotto del reato, avendo la Corte di legittimità affermato che costituiscono prodotto dei reati di riciclaggio, di reimpiego e di autoriciclaggio non solo i beni oggetto di trasformazione per effetto della condotta illecita, che, in quanto tali, presentano caratteristiche identificative alterate, modificate o manipolate, ma anche i beni e i valori che, pur non avendo subito modificazioni materiali, risultano diversamente attribuiti in termini di titolarità ed ai fini delle regole di circolazione, per effe operazioni negoziali. (Fattispecie in cui la Corte ha ritenuto che, ai fini della confisca ex art. 648-quater cod. pen., fossero stati correttamente intesi come prodotto delle attività di riciclaggio e di autoriciclaggio i veicoli e i ben acquistati con le somme di denaro di provenienza illecita).(Sez. 2, n. 18184 del 28/02/2024, B., Rv. 286323 – 02; Sez. 2, n. 1309 del 07/12/2023, dep. 2024, COGNOME, Rv. 285815, non mass. sul punto, in motivazione a pag. 24 e 25).
Erronea applicazione dell’art. 240-bis cod. pen. e vizio di motivazione in ordine alla disposta confisca allargata dell’immobile di Cala Tarida in Ibiza (si tratta dell’immobile oggetto del secondo segmento dell’imputazione di riciclaggio acquistato il 6 settembre 2016).
Si deduce che anche in relazione al frangente temporale dell’acquisto in esame la ricorrente aveva allegato la disponibilità di fondi leciti e congrui rispetto all’entità della spesa effettuata (pari ad euro 90.000). La Corte di merito, pur a fronte di percezione di affitti pari a circa 180mila nei 20 mesi precedenti, integrati da elargizioni del suocero per ulteriori euro 130mila, ne aveva disatteso il rilievo giustificativo ricorrendo ad una motivazione del tutto assertiva. Inoltre, non si era tenuto conto che ai fini del giudizio di sproporzione, in relazione al tempo dell’acquisto del bene, erano anche spendibili proventi derivanti da evasione fiscale sulla scorta del principio di diritto enunciato dalle S.U. COGNOME e COGNOME.
Il motivo è fondato.
La sentenza impugnata ha disatteso il motivo di appello spiegato sul punto dalla difesa (v. sub n. 4, pagg. 32-37 e memoria ex art. 121 cod. proc. pen. del 29/11/2023 per l’udienza del 14/12/2023) affermando, per un verso, che risulta “il collegamento del bene immobile con le operazioni di riciclaggio e connesse ai reati fiscali e fallimentari commessi dal COGNOME” e, per altro, che risulta “la sproporzione con le entrate lecite prevedibili dell’epoca dagli affitti immobiliari di
cui la coppia godeva sulla base delle risultanze della Guardia di Finanza e produzione difensive”.
Si tratta di una motivazione che si presta a diversi rilievi.
Anzitutto, se il titolo giuridico in forza del quale è stata disposta la misura di sicurezza è la confisca allargata ex art. 240-bis cod. pen. (per come espressamente indicato dal Gup a pag. 22 della sentenza), del tutto un fuor d’opera è il riferimento al collegamento del bene con l’attività delittuosa posta in essere tanto dalla ricorrente che dal marito in relazione ai reati rispettivamente ascritti. Se il bene costituisce la diretta derivazione delle attività delittuose relazione alle quali la ricorrente ed il COGNOME hanno riportato condanna, diversa è la forma di confisca che assume rilievo: quella obbligatoria prevista, anche per equivalente, dall’art. 648-quater cod. pen. del profitto o del prodotto del riciclaggio; quella obbligatoria, anche per equivalente, del profitto o prezzo dei reati fiscali a norma dell’12-bis d.lgs. n. 74 del 2000.
Né, peraltro, può ritenersi che si verta nell’ipotesi speciale di confisca allargata stabilita dall’art. 12-ter d.lgs. cit., in quanto non solo dovrebbe riguardare il COGNOME, quale autore dei reati fiscali, ma non è indicato alcuno dei presupposti legittimanti che la disposizione richiede.
Del tutto assertiva, infine, è la motivazione con cui è stata disattesa la sproporzione, quale requisito della confisca allargata ex art. 240-bis cod. pen. Sul tema, infatti, la difesa ha dedotto uno specifico motivo di appello relativamente alla possibilità di giustificare la lecita provenienza dei beni immobili e alla ritenuta sproporzione del valore degli immobili rispetto ai redditi dichiarati a fini di imposta.
Inoltre, non si è tenuto conto, avendo la difesa fatto riferimento anche al rilievo che assumerebbero i redditi evasi al Fisco a fronte di un acquisto datato 6 settembre 2016, che le Sezioni unite COGNOME hanno affermato che il divieto previsto dall’art. 240-bis cod. pen., introdotto dall’art. 31 legge 17 ottobre 2017, n. 161, di giustificazione della legittima provenienza dei beni oggetto della confisca c.d. allargata, o del sequestro ad essa finalizzato, sul presupposto che il denaro utilizzato per acquistarli sia provento o reimpiego dell’evasione fiscale, si applica anche ai beni acquistati prima della sua entrata in vigore, ad eccezione di quelli acquisiti nel periodo compreso tra il 29 maggio 2014, data della sentenza delle Sezioni unite n. 33451 del 29/05/2014, Repaci, e il 19 novembre 2017, data di entrata in vigore della legge n. 161 del 2017 (Sez. U, n. 8052 del 26/10/2023, dep. 2024, Rizzi, Rv. 285852 – 01).
Va, pertanto, annullata la sentenza impugnata con rinvio per nuovo giudizio sul punto a diversa sezione della Corte di appello di Torino.
5. In conclusione, va annullata la sentenza impugnata nei confronti di COGNOME
NOME limitatamente alla confisca allargata con rinvio ad altra sezione de
Corte di appello di Torino per nuovo giudizio sul punto. Va, invece, rigettato resto il ricorso.
P.Q.M.
Annulla la sentenza impugnata nei confronti di COGNOME NOME limitatamente alla confisca allargata con rinvio ad altra sezione della Cort
appello di Torino per nuovo giudizio sul punto. Rigetta nel resto il ricorso.
Dichiara inammissibile il ricorso di COGNOME Giovanni che condanna al pagamento delle spese processuali e della somma di euro tremila alla cassa dell
ammende.
Così deciso, il 5 marzo 2025.