Sentenza di Cassazione Penale Sez. 6 Num. 14694 Anno 2024
Penale Sent. Sez. 6 Num. 14694 Anno 2024
Presidente: COGNOME NOME
Relatore: COGNOME NOME
Data Udienza: 01/02/2024
SENTENZA
sul ricorso proposto da
NOME NOME, nata a Marina di Gioiosa Jonica il DATA_NASCITA
avverso il decreto del 01/07/2022 della Corte di appello di Reggio Calabria visti gli atti, il provvedimento denunziato e il ricorso; udita la relazione svolta dal consigliere NOME COGNOME; udite le richieste del Pubblico Ministero, in persona del AVV_NOTAIO Procuratore generale NOME COGNOME, che ha concluso chiedendo che il ricorso sia dichiarato inammissibile.
RITENUTO IN FATTO
Con il decreto in epigrafe indicato, la Corte di appello di Reggio Calabria rigettava il ricorso presentato da NOME avverso il provvedimento del Tribunale di Reggio Calabria del 30 giugno 2021, con il quale era stata disposta la confisca di prevenzione di un terreno di sua proprietà.
Il decreto dava atto che era stata avanzata tempestiva proposta per l’applicazione della misura patrimoniale nei confronti della NOME, quale vedova di NOME COGNOME (deceduto il 5 aprile 2020), persona ritenuta portatrice di pericolosità qualificata ai sensi dell’ad 4, lett. a) e b) d.lgs. n. 159 del 2011, in
quanto indiziato di appartenere ad una associazione mafiosa e di reati aggravakti ex art. 7 I. n. 203 del 1991, rientranti nel novero di quelli previsti dall’art. comma 3 -bis cod. proc. pen. (segnatamente il predetto risultava condannato per aver fatto parte della omonima cosca operante in Marina di Gioiosa Jonica, per reati di illecita concorrenza, di estorsione, di danneggiamento seguito da incendio, tutti aggravati ai sensi dell’art. 7 I. n. 203 del 1991, nonché del reato d intestazione fittizia).
Oggetto della confisca era un terreno acquistato nell’agosto 1993 al prezzo dichiarato di lire 4.500.000, unitamente ad altri due terreni limitrofi (gi definitivamente confiscati con decreto del 31 marzo 1999).
Avverso il suddetto decreto, ha proposto ricorso per cassazione NOME, quale terza interessata, denunciando, a mezzo di difensore, munito di procura speciale, i motivi di annullamento, di seguito sintetizzati conformemente al disposto dell’art. 173 disp. att. cod. proc. pen.
2.1. Violazione di legge per insussistenza dei presupposti richiesti per l’applicazione della confisca di un bene di esclusiva proprietà del coniuge del proposto, acquistato nel 1993 in regime di separazione dei beni e adibito alla personale attività lavorativa.
Nel caso in esame la presunzione legale di cui agli artt. 19, n. 3, e 24, n. 1 d.lgs. n. 159 del 2011 risultava affievolita per la circostanza del regime di separazione dei beni, stabilito in sede di matrimonio (1980) e mantenuto per tutta la durata dello stesso fino al decesso del coniuge.
Pertanto, è stata applicata automaticamente e senza ulteriori indagini la suddetta presunzione (che ha natura relativa), pur avendo la ricorrente dimostrato di possedere un’adeguata personale capacità economica (in tal senso la relazione del consulente tecnico di parte in atti) e di aver svolto su tale terreno la sua attività di coltivatrice ed operatrice agricola (attività che risulta dai dati IN esercitata dalla ricorrente dal 1979 al 2018 e che aveva fatto conseguire alla stessa redditi del tutto congrui rispetto al prezzo di acquisto del bene confiscato, che ancor oggi è adibito a fini agricoli).
In tale prospettiva il decreto impugnato ha omesso di confrontarsi con le allegazioni difensive, quanto alla capacità economica della ricorrente e alla sproporzione tra i beni patrimoniali e la sua capacità reddituale.
Gli atti di polizia giudiziaria, richiamati dal decreto impugnato, contenevano gravi omissioni, in quanto non riportavano i redditi personali della ricorrente e il regime di separazione dei beni, confondendo le capacità economiche dei coniugi.
A tal riguardo, la Corte di appello finisce per far carico sul reddito familiare uscite riguardanti il patrimonio aziendale dei coniugi (così la spesa dell’aut a rro
sostenuta dal proposto per la sua attività personale di autotrasportatore, così contravvenendo alla normativa del T.U.I.R. che considera i beni strumentali in ogni c:43, 3′ caso beni dell’impresa). In ogni la sperequazione risulta riguardare poche migliaia di euro e non essere rilevante.
In modo errato la Guardia di Finanza ha considerato la ditta del proposto inattiva (risultava una dichiarazione dei redditi 740 presentata nel 1985 e oramai non è più possibile stante il tempo trascorso ricostruire la documentazione contabile della ditta).
In ogni caso, anche a voler considerare il reddito familiare del 1993, lo stesso era adeguato ad affrontare l’acquisto, residuando risorse finanziarie ulteriori.
Si rinvia alla relazione tecnica di parte.
2.2. Violazione di legge e vizio di motivazione.
Quanto sopra dedotto, pone in luce la violazione di legge e la illogicità del ragionamento giustificativo sostenuto dalla Corte di appello.
CONSIDERATO IN DIRITTO
1. Il ricorso è inammissibile in tutte le sue articolazioni.
Va premesso, avendo la ricorrente fatto espressamente riferimento a vizi “logici” della motivazione, che, per pacifica giurisprudenza in materia di procedimento di prevenzione, il ricorso per cassazione è ammesso soltanto per violazione di legge, con la conseguenza che gli unici vizi della motivazione denunciabili con il ricorso, in quanto qualificabili come violazione dell’obbligo di provvedere con decreto motivato imposto al giudice d’appello, sono quelli di motivazione inesistente o meramente apparente, con esclusione di quelle deduzioni che mirino a denunciare la mera sottovalutazione di argomenti difensivi che, in realtà, siano stati presi in considerazione dal giudice o comunque risultino assorbiti dalle argomentazioni poste a fondamento del provvedimento impugnato (Sez. U, n. 33451 del 29/05/2014, Repaci, Rv. 260246).
Così delimitato il controllo devoluto a questa Corte, vi è da osservare che la gran parte delle le censure mosse dalla ricorrente al provvedimento impugnano si rivelano non consentite, in quanto attaccano, con argomentazioni viepiù di merito, la tenuta logica del ragionamento giustificativo che ha seguito la Corte di appello nel confermare la statuizione della confisca, nella prospettiva di ribadire in questa Sede la tesi difensiva, che risulta invece puntualmente affrontata e.disattesa dai giudici del merito senza incorrere in vizi annoverabili cene “violazione di legge”.
Altre censure sono invece aspecifiche, in quanto, nel reiterare la questione sollevata con la impugnazione di merito, non si correlano alla risposta sul punto fornita dalla Corte di appello.
3.1. In particolare, la questione della incidenza del regime patrimoniale dei coniugi è affrontata ampiamente dal decreto impugnato a pag. 5 e la censura finisce per essere generica rispetto alle argomentazioni giuridiche spese dalla Corte di appello.
Argomentazioni che, per inciso, risultano del tutto conformi alla ratio della normativa di settore, in cui il legislatore ha indicato le particolari categorie d soggetti – coniuge, figli e conviventi nell’ultimo quinquennio – in relazione ai quali la fittizia intestazione dei beni in favore del proposto è legittimamente presunta, senza la necessità di specifici accertamenti, quando non risulti la disponibilità di risorse economiche proprie (tra tante, Sez. 5, n. 37297 del 23/06/2022, Rv. 283798), con la conseguenza che, al di fuori delle specifiche presunzioni di cui all’art. 26, comma 2, d.lgs. n. 159 del 2011, il rapporto esistente tra il proposto e tali soggetti può costituire circostanza di fatto significativa della fittizietà d intestazione di beni quando il terzo familiare convivente, che risulti formalmente titolare dei cespiti, sia sprovvisto di effettiva capacità economica (Sez. 2, n. 14981 del 09/01/2020, Cesarano, Rv. 279224).
Pertanto, quel che è dirimente per il terzo, “qualificato” da tale rapporto con il proposto, è la dimostrazione della “effettiva” veste di proprietario o titolare del diritto su di essi, al di là della mera apparenza formale.
3.2. Quanto poi alla valutazione del presupposto della sproporzione reddittuale, contrariamente all’assunto difensivo, la Corte di appello (cfr. pag. 5) ha considerato (come d’altronde già aveva fatto la polizia giudiziaria nell’informativa dell’8 giugno 2021) la personale capacità economica della ricorrente (ovvero i redditi da lavoro percepiti dalla ricorrente come indicati dal consulente tecnico di parte).
3.3. In ordine poi alla dedotta “confusione” tra i redditi personali dei coniugi con quello familiare, la Corte di appello ha spiegato come tale assunto non trovasse alcun fondamento, posto che, ai fini della valutazione del presupposto della sproporzione dei redditi rispetto all’acquisto effettuato dalla ricorrente, andava tenuto conto anche delle entrate ed uscite del nucleo familiare.
3.4. La Corte di appello ha anche ragionevolmente spiegato perché andasse considerata – quale voce passiva – la spesa dell’autocarro sostenuta dal proposto per la sua attività personale di autotrasportatore, in quanto trattavasi di ditta individuale (rilevando che per tale ditta il proposto non aveva in ogni caso / xtai dichiarato redditi di impresa e dati IVA).
3.4. Quanto poi all’entità della sperequazione, alla attività svolta dalla ditta del proposto e alla consistenza del reddito familiare, si avanzano in questa Sede rilievi generici e di puro fatto.
Dai motivi del gravame, come risultanti dalla sintesi a pag. 4 decreto impugnato (e in questa Sede non oggetto di contestazione), non emergono questioni e dati che la Corte territoriale non abbia affrontato e considerato con la sua decisione.
Alla stregua di tali rilievi il ricorso deve essere dichiarato inammissibile.
La ricorrente deve, pertanto, essere condannato, ai sensi dell’art. 616 cod. proc. pen., al pagamento delle spese del procedimento.
Considerato che non vi è ragione di ritenere che il ricorso sia stato presentato senza “versare in colpa nella determinazione della causa di inammissibilità”, deve, altresì, disporsi che la ricorrente versi la somma, determinata in via equitativa, di tremila euro, in favore della Cassa delle ammende.
P.Q.M.
Dichiara inammissibile il ricorso e condanna la ricorrente al pagamento delle spese processuali e della somma di euro 3.000 in favore della Cassa delle ammende.
Così deciso il 01/0,42024.