Sentenza di Cassazione Penale Sez. 1 Num. 20691 Anno 2025
Penale Sent. Sez. 1 Num. 20691 Anno 2025
Presidente: COGNOME
Relatore: COGNOME
Data Udienza: 05/03/2025
SENTENZA
sul ricorso proposto da:
NOME nato a CUTRO il 05/05/1971
avverso l’ordinanza del 06/12/2024 del TRIB. SORVEGLIANZA di ROMA
lette le conclusioni del PG, dott. NOME COGNOME il quale ha chiesto l’annullamento udita la relazione svolta dal Consigliere NOME COGNOME con rinvio dell’ordinanza impugnata.
RITENUTO IN FATTO
Con ordinanza del 6 dicembre 2024 il Tribunale di sorveglianza di Roma ha rigettato il reclamo presentato da NOME COGNOME avverso il provvedimento con cui il Magistrato di sorveglianza di Viterbo, il 18 gennaio 2024, ha, a sua volta, respinto la richiesta, formulata dal condannato ai sensi dell’art. 35 -ter legge 26 luglio 1975, n. 354, di conseguire la riparazione dei pregiudizi patiti per essere stato egli ristretto presso la Casa circondariale di Viterbo, a far data dal 10 maggio 2018, in condizioni inumane e degradanti e, quindi, in violazione dell’art. 3 CEDU.
A tal fine, ha, innanzitutto, rilevato che COGNOME, sottoposto al regime detentivo differenziato previsto dall’art. 41 – bis legge 26 luglio 1975, n. 354, è stato sempre ristretto, da solo, in una cella di sufficiente ampiezza (8,21 mq) ed ha fruito di due ore al giorno di passeggi, oltre che di un’ulteriore ora da trascorrere in sala socialità insieme a non più di altri tre detenuti.
Ha, quindi, rilevato che le doglianze articolate da COGNOME – il quale aveva indicato i numerosi e concorrenti fattori che hanno caratterizzato la sua restrizione (quali, tra gli altri: la riduzione di luce naturale ed aria; la disponibilità di ventilazione; l’adeguatezza degli impianti di riscaldamento; la possibilità di utilizzare in modo riservato i servizi igienici e sanitari) rendendola, in concreto, inumana e degradante – «non integrano l’ipotesi di cui all’art. 35 ter OP in quanto inidonee, singolarmente o complessivamente valutate, a sminuirne la dignità, a instillare paura o angoscia nel ristretto ma determinano al più, secondo le argomentazioni del reclamante, disagi nella vita detentiva quotidiana».
NOME COGNOME propone ricorso per cassazione con due separati atti, sottoscritti, rispettivamente, dagli avv.ti NOME COGNOME e NOME COGNOME.
2.1. L’avv. COGNOME con unico motivo, eccepisce violazione di legge vizio di motivazione ascrivendo al Tribunale di sorveglianza di avere informato la decisione impugnata alla mera illustrazione del quadro normativo, accompagnata dalla parziale indicazione dei correlati indirizzi ermeneutici, senza, però, esaminare i profili dettagliatamente enunciati nel reclamo, concernenti carenze di gravità tale da rendere la detenzione, anche in ragione delle concorrenti restrizioni connesse all’applicazione del regime differenziato – talune delle quali, peraltro, medio tempore eliminate perché ritenute illegittime dallo stesso Magistrato di sorveglianza -, in concreto inumana e degradante, ovvero astenendosi dal compiere, come univocamente prescritto
da consolidato e condiviso indirizzo ermeneutico, una valutazione multifattoriale e cumulativa e riduttivamente confinando gli aspetti da lui analiticamente e dettagliatamente segnalati alla stregua di «meri disagi della vita detentiva quotidiana».
2.2. L’avv. Accorretti lamenta violazione di legge sul preliminare rilievo che il condannato non ha inteso eccepire la sottoposizione al regime differenziato ma, piuttosto, l’applicazione di misure estranee alle esigenze di sicurezza connesse all’istituto disciplinato dall’art. 41-bis legge 26 luglio 1975, n. 354, e, per questa ragione, oggetto degli interventi della Corte costituzionale, della Corte di cassazione, del Magistrato di sorveglianza e dello stesso Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria, oltre che ulteriori e contingenti fattori, incidenti sulla complessiva condizione detentiva, che il Tribunale di sorveglianza ha esaminato solo in parte, in tal modo disattendendo le precettive indicazioni fornite dalla giurisprudenza interna e sovranazionale, unanime nell’attestare che le limitazioni connaturate alla sottoposizione al regime differenziato devono essere considerate nel complessivo apprezzamento delle condizioni detentive, che può integrare la violazione dell’art. 3 CEDU anche laddove la cella occupata da un solo soggetto abbia, come nel caso in esame, dimensioni largamente superiori a 4 mq..
Il Procuratore generale ha chiesto, con requisitoria scritta, l’annullamento con rinvio dell’ordinanza impugnata.
CONSIDERATO IN DIRITTO
Il ricorso è inammissibile perché imperniato su censure prive del necessario crisma di specificità o manifestamente infondate.
Preliminarmente, è opportuno ricordare – a fronte di doglianze articolate in chiave anche di contraddittorietà e manifesta illogicità della motivazione del provvedimento impugnato – che, in materia di rimedi restitutori, il ricorso per cassazione è ammissibile soltanto per violazione di legge a norma dell’art. 35-bis, comma 4-bis (aggiunto dall’art. 3, comma 1, lett. b), d.l. 23 dicembre 2013, n. 146, convertito, con modificazioni, dalla I. 21 febbraio 2014, n. 10), richiamato 35-ter legge 26 luglio 1975, n. 354.
L’art. 35-ter legge 26 luglio 1975, n. 354, riconosce il rimedio risarcitorio conseguente alla violazione dell’art. 3 CEDU nelle ipotesi previste dall’art. 69, comma 6, lett. b), del medesimo testo normativo, ovvero quando il detenuto subisca un attuale grave pregiudizio all’esercizio dei suoi diritti in ragione della
«inosservanza da parte dell’amministrazione di disposizioni previste dalla presente legge e dal relativo regolamento».
Se l’accertato pregiudizio si protrae per un periodo di tempo non inferiore ai quindici giorni, il magistrato di sorveglianza dispone, in accoglimento di apposita istanza presentata dal detenuto, personalmente ovvero tramite difensore munito di procura speciale, una riduzione, a titolo di risarcimento del danno, della pena detentiva ancora da espiare pari, nella durata, a un giorno per ogni dieci durante il quale il richiedente ha subito il pregiudizio.
Qualora il periodo di pena ancora da espiare sia tale da non consentire la detrazione dell’intera misura percentuale testé indicata, il magistrato di sorveglianza liquida altresì al richiedente, in relazione al residuo periodo ed a titolo di risarcimento del danno, una somma di denaro pari a euro 8,00 per ciascuna giornata nella quale questi ha subito il pregiudizio; nello stesso senso provvede nel caso in cui il periodo di detenzione espiato in condizioni non conformi ai criteri di cui all’articolo 3 CEDU sia stato inferiore ai quindici giorni.
4. Nel caso in esame – discutendosi della conformità ai canoni previsti dall’art. 3 CEDU delle condizioni della detenzione patita da persona assoggettata al regime differenziato previsto dall’art. 41 -bis legge 26 luglio 1975, n. 354 – va ribadito, in ossequio a condivi9 orientamento della ., giurisprudenza di legittimità (cfr., in particolare, GLYPH ez. 1, n. 16116 del 27/01/2021, COGNOME, Rv. 281356 – 01; Sez. 1, n. 30030 del 11/09/2020, COGNOME, Rv. 279793 – 01), che la violazione dell’art. 3 CEDU può discendere, qualora 0 la cella abbia dimensioni superiori a quattro mq, dalle ulteriori condizioni che rendano degradante il trattamento detentivo, quali, tra le altre, la mancanza di illuminazione ed aerazione dei locali o di servizi igienici.
In tal caso, la violazione può essere apprezzata sia con riguardo a un particolare, determinato accadimento, sia con riferimento alla complessiva valutazione di più circostanze incidenti sul complessivo trattamento detentivo, avuto riguardo, vieppiù, alle condizioni direttamente conseguenti all’applicazione dello speciale regime detentivo (come, ad esempio, la permanenza in cella per ventuno ore), che, pur non rilevando direttamente ai fini che interessano, possono, ciò nonostante, influire sulla valutazione in ordine alla rilevanza di altre concorrenti situazioni di fatto.
Tanto, in ragione del rilievo secondo cui ad una maggiore severità del regime detentivo corrisponde la necessità, al fine di escludere il carattere inumano e degradante della detenzione, di tutte le ulteriori condizioni di restrizione.
5. Il Tribunale di sorveglianza, nel provvedimento impugnato, ha dato atto delle doglianze articolate con il reclamo avverso la decisione del Magistrato di sorveglianza ed ispirate al richiamato principio della valutazione multifattoriale e complessiva delle condizioni di detenzione – specificamente evocando le censure afferenti alla riduzione di luce ed aria, alla disponibilità di ventilazion all’adeguatezza degli impianti di riscaldamento, alla possibilità di utilizzare in modo riservato, in assenza di porta che separi il bagno dal resto della cella, i servizi igienici e sanitari – e le ha, tuttavia, ritenute non idonee, singolarmente e nel loro insieme, a comprovare la fondatezza dell’iniziativa risarcitoria.
A fronte di una motivazione completa, ancorché sintetica, COGNOME indugia, in entrambi gli atti di ricorso, nel sottolineare la doverosità di un esame, sufficientemente analitico, finalizzato all’accertamento dell’eventuale violazione dell’art. 3 CEDU.
Richiama, in questa prospettiva, pertinenti indirizzi ermeneutici senza, però, spiegare come ed in quale misura gli evocati profili critici abbiano reso, da soli e nel loro complesso, la sua detenzione inumana e degradante.
Reiterati, in proposito, sono i riferimenti al reclamo originario ed a quello interposto avverso la negativa decisione del Magistrato di sorveglianza che, tuttavia, non sono accompagnati dalla precisa esposizione delle coordinate fattuali e temporali delle difficoltà che egli assume di avere incontrato in costanza di detenzione, sicché è in radice preclusa, in questa sede, la verifica della coerenza con il sistema normativo delle conclusioni raggiunte dal Tribunale di sorveglianza.
Il ricorrente, in altri termini, si astiene dal chiarire, in relazione a ciascun degli aspetti indicati nel provvedimento impugnato ed a quelli che egli evoca con il ricorso e che, a suo dire, il Tribunale di sorveglianza avrebbe indebitamente omesso di considerare: in che cosa sia consistita la violazione; per quanto tempo essa si sia protratta; quale sia stata la posizione assunta, al riguardo, dall’istituto penitenziario (la cui relazione è espressamente richiamata alla pag. 3 dell’atto a firma dell’avv. NOME COGNOME; quali le conseguenze da lui patite, sul piano fisico e psicologico.
Non meno generico appare il ricorso nella parte in cui rileva che COGNOME ha patito i negativi effetti dell’applicazione di talune regole, discendenti dalla sottoposizione a regime detentivo differenziato, che è venuta successivamente meno per esserne stata riconosciuta, in sede di giurisdizione ordinaria o costituzionale ovvero per autonoma determinazione dell’autorità amministrativa, l’illegittimità senza, al contempo, illustrare quali segmenti o profili della vit carceraria siano stati interessati da tali accadimenti, per quanto tempo egli sia stato vincolato al rispetto dei precetti o divieti poscia eliminati, quale il pregiudizi da lui subito.
Rebus sic stantibus, l’unico dato che, dalla lettura del provvedimento
impugnato, risulta enucleato in termini di, almeno parziale, specificità è quelle afferente alla assenza di separazione tra il bagno e la porzione residua della
camera detentiva e che, da solo, non pare idoneo a comprovare – pacifico che COGNOME fosse unico occupante della cella, onde non rilevano esigenze di
riservatezza, e che la camera fosse relativamente ampia, sì da escludere inconvenienti di tipo igienico – il carattere inumano e degradante della
detenzione e da fondare, di conseguenza, l’azione esperita ex
art.
53-ter legge
26 luglio 1975, n. 354.
6. Sulla base delle considerazioni che precedono il ricorso deve essere, pertanto, dichiarato inammissibile. Alla luce della sentenza 13 giugno 2000, n.
186, della Corte costituzionale, rilevato che, nella fattispecie, non sussistono elementi per ritenere che «la parte abbia proposto il ricorso senza versare in colpa
nella determinazione della causa di inammissibilità», alla declaratoria dell’inammissibilità medesima consegue, a norma dell’art. 616 cod. proc. pen.,
l’onere delle spese del procedimento nonché quello del versamento della somma, in favore della Cassa delle ammende, equitativamente fissata in 3.000,00 euro.
P.Q.M.
Dichiara inammissibile il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese processuali e della somma di euro tremila in favore della Cassa delle ammende.
Così deciso il 05/03/2025.