Sentenza di Cassazione Penale Sez. 6 Num. 43179 Anno 2024
Penale Sent. Sez. 6 Num. 43179 Anno 2024
Presidente: COGNOME NOME
Relatore: COGNOME NOME
Data Udienza: 18/09/2024
SENTENZA
sul ricorso proposto da NOME, nato a Genova il DATA_NASCITA
avverso la sentenza del 21/12/2023 della Corte di appello di Bologna visti gli atti, il provvedimento denunziato e il ricorso; udita la relazione svolta dal AVV_NOTAIO COGNOME; udite le richieste del Pubblico Ministero, in persona del AVV_NOTAIO NOME COGNOME, che ha concluso chiedendo che il ricorso sia rigettato; udito il difensore, AVV_NOTAIO, in sostituzione dell’AVV_NOTAIO, che ha concluso chiedendo l’accoglimento dei motivi di ricorso.
RITENUTO IN FATTO
Con la sentenza in epigrafe indicata, la Corte di appello di Bologna ha riformato parzialmente – quanto alla pena accessoria, che ha ridotto – la sentenza del 25 settembre 2014 del Giudice dell’udienza preliminare del Tribunale di Reggio Emilia, che aveva condannato, all’esito di giudizio abbreviato, l’imputato NOME COGNOME per il reato di concussione (art. 317 cod. pen.) alla pena di anni due di reclusione.
Secondo l’imputazione, COGNOME, in concorso con altre persone, abusando della sua qualità di finanziere presso la Guardia RAGIONE_SOCIALE RAGIONE_SOCIALE e dei suoi poteri, aveva costretto il titolare di un bar a farsi promettere e dare somme di danaro.
In particolare, secondo la ricostruzione effettuata dal primo giudice, l’imputato si era presentato il 10 febbraio 2011 con i correi presso l’esercizio della persona offesa e, dopo essersi qualificato, aveva prospettato a quest’ultima la pendenza di plurime denunce per irregolarità relative al suo esercizio, minacciando controlli della Guardia RAGIONE_SOCIALE e della RAGIONE_SOCIALE, con ripercussioni economiche negative, se non avesse consegnato una non meglio precisata somma di danaro. Somma che l’imputato quantifica, prima a richiesta della persona offesa, in immediati 2.000 euro e il giorno dopo, telefonicamente come annunciato, in totali 5.000 euro, secondo scadenze precise.
Di seguito la persona offesa aveva denunciato i fatti ai Carabinieri e, sotto l’osservazione della polizia giudiziaria, aveva consegnato la somma di 2.000 euro all’imputato al posto convenuto telefonicamente.
In sede di udienza di convalida l’imputato aveva ammesso l’addebito, sostenendo che era stato il suo conoscente COGNOME a prospettargli di “mettere paura” a un barista e guadagnare qualche soldo, da spartire tra loro.
Avverso la suddetta sentenza ha proposto ricorso per cassazione il difensore di NOME COGNOME, denunciando i motivi di annullamento, di seguito sintetizzati conformemente al disposto dell’art. 173 disp. att. cod. proc. pen.
2.1. Violazione di legge in relazione alla qualificazione del fatto ai sensi dell’art. 317 cod. pen. in luogo dell’art. 319-quater cod. pen.
La Corte di appello ha escluso la diversa qualificazione del fatto, applicando erroneamente l’esegesi delle Sezioni Unite Maldera e ritenendo che le stesse abbiano aderito all’orientamento che riteneva dirimente il discrimine tra male ingiusto (concussione) – male giusto (induzione indebita).
Piuttosto le Sezioni Unite hanno ritenuto tale criterio non esaustivo, affidandosi al criterio minaccia-non minaccia, quale altra medaglia della dicotomia normativa costrizione-induzione.
La Corte di appello non ha speso alcuna argomentazione sulla integrazione della minaccia, sull’oggetto dell’offerta espressa dal pubblico ufficiale e sulla disponibilità della persona offesa all’interlocuzione con l’imputato.
Quanto alle minacce percepite dalla persona offesa, la Corte di appello è ricorsa ad affermazioni apodittiche, in quanto, lungi dal dimostrare la natura minatoria delle richieste, ha valorizzato soltanto lo stato di timore della persona offesa (che è presente anche nel reato di induzione indebita) e non ha considerato il vantaggio indebito perseguito dalla persona offesa.
Le Sezioni Unite Maldera avevano respinto un criterio distintivo delle due fattispecie, fondato sulla mera ricostruzione dell’atteggiamento soggettivo delle parti.
Nel caso in esame, il ricorrente ha posto in essere una condotta subdola ed ingannatoria, abusando della sua qualità e dei suoi poteri, ingenerando nella parte offesa una sensazione di timore connaturale allo stato di soggezione derivante dallo squilibrio tra le rispettive posizioni. Il titolare dell’esercizio è stato “indotto” a consegnare la somma. D’altra parte, pagare una somma di danaro per evitare controlli delle autorità per irregolarità non è un danno contra ius.
La riqualificazione del fatto determina la prescrizione del reato, già alla data della sentenza di secondo grado.
2.2. Vizio di motivazione in relazione alla qualificazione del fatto ai sensi dell’art. 317 cod. pen.; omessa valutazione di prova decisiva (dichiarazioni della persona offesa in sede di querela e s.i.t.); travisamento delle dichiarazioni rese riguardo all’episodio del 10 marzo 2011.
Nel definire la qualificazione giuridica del fatto, la Corte di appello ha utilizzato una distorta e carente informazione del quadro probatorio, con riferimento a quanto effettivamente rappresentato dalla persona offesa negli atti processuali.
Quanto alla querela, emerge dalle dichiarazioni della persona offesa,-che era stata quest’ultima a chiedere quale cifra dovesse dare, non dimostrando alcuna resistenza alla proposta del pubblico funzionario. Su tale aspetto la Corte di appello ha omesso ogni valutazione.
Tale aspetto era dirimente in quanto la richiesta abusiva di denaro da parte del pubblico ufficiale era correlata alla omissione di controlli dovuti in seguito alla segnalazione di irregolarità. Quindi tale prova veniva ad escludere l’antigiuridicità del danno.
Parimenti dirimente era la circostanza che i prospettati controlli non sarebbero stati svolti dall’imputato ma da altri soggetti della Guardia RAGIONE_SOCIALE e dell’RAGIONE_SOCIALE Il che rendeva incerto l’esito degli stessi (escludendo pertanto la rilevanza di una percezione soggettiva della regolarità del locale).
Una ulteriore informazione decisiva travisata dalla Corte di appello riguarda la circostanza riferita in sede di s.i.t. dalla persona offesa in ordine alle garanzi chieste prima di consegnare il danaro circa i mancati controlli. E questo dopo aver sporto querela e la vicenda fosse sotto l’attenzione delle forze dell’ordine.
La Corte di appello ha ritenuto che alla persona offesa fosse stato prospettato un male ingiusto, ovvero un controllo in mala fede. Ma tale conclusione non trova alcuna prova negli atti.
Come si è detto, in ogni caso, l’ingiustizia del male prospettato non è dirimente per escludere la ipotesi di induzione indebita; mentre l’abuso/ figiii (z , (it’)
t ) COGNOME ~idei poteri o della qualità, che pone il privato in stato di soggezione, è insit anche in tale fattispecie. In tal senso distinguendosi dalla corruzione.
In modo illogico la Corte territoriale non ha assegnato rilevanza alle dichiarazioni rese dalla persona offesa in sede di RAGIONE_SOCIALE, valorizzando soltanto quelle della querela. La circostanza di un controllo in malafede non emerge infatti dalla querela.
La Procura AVV_NOTAIO, in vista della discussione orale, ha fatto pervenire in Cancelleria, nei termini previsti dal codice di rito, una memoria scritta, con la quale ha rappresentato argomentazioni a sostegno della declaratoria di infondatezza del ricorso.
CONSIDERATO IN DIRITTO
Il ricorso è da rigettare perché complessivamente infondato, pur presentando profili di inammissibilità.
Quanto al primo motivo, con il quale il ricorrente contesta la qualificazione giuridica del fatto, va rilevato che la sentenza impugnata ha correttamente valorizzato, nel rispondere alla censura difensiva, l’abuso “costrittivo” tipico della concussione, evidenziando come nella ipotesi di induzione indebita il privato subisca piuttosto una condotta persuasiva con minore valore condizionante (tanto da essere mosso dalla prospettiva di conseguire per sé un vantaggio).
La sentenza delle Sezioni Unite Maldera (Sez. U, n. 12228 del 24/10/2013, dep. 2014, Rv. 258470) ha infatti indicato (cfr. § 11, a pag. 24) nella tipologia di abuso (l’abuso infatti accumuna entrambe le ipotesi delittuose) il discrimen tra concussione ed induzione indebita: nel primo caso l’abuso “costringe”, nell’altro “induce”.
Nel caso di minaccia – hanno osservato le Sezioni Unite in detto arresto – “è il contenuto di tale abuso, che si concretizza, al di là del dato formale, nel prospettare alla vittima un danno ingiusto (con tra ius), a integrare la costrizione ed a porre il soggetto passivo in una condizione di sostanziale mancanza di alternativa, vale a dire con le spalle al muro: evitare il verificarsi del più grav danno minacciato, che altrimenti si verificherà sicuramente, offrendo la propria disponibilità a dare o promettere una qualche utilità (danno minore) che sa non essere dovuta (certat de damno vitando). Deve rimanere estranea alla sfera psichica e alla spinta motivante de//’extraneus qualsiasi scopo determinante di vantaggio indebito, considerato che, in caso contrario, il predetto non può essere ritenuto vittima agli effetti dell’art. 317 cod. pen., perché finisce per perseguire
con la promessa o con il versamento dell’indebito, un proprio tornaconto, divenendo co-protagonista della vicenda illecita” (così, g 13, a pag. 32).
3.g. Neppure può dirsi errata o lacunosa la applicazione da parte della Corte di appello di tali principl nel caso in esame.
La Corte territoriale ha evidenziato come nessuno sfruttamento opportunistico della richiesta mossa dal ricorrente avesse motivato l’adesione alla richiesta di danaro. La prospettazione di imminenti controlli da evitare solo con il pagamento di danaro era stata presentata dal ricorrente e anche percepita dalla persona offesa come l’annuncio di controlli “in mala fede”, in quanto falsati dalla mancata adesione alla consegna di danaro.
Come già il Tribunale aveva accertato (pag. 2 della sentenza impugnata; pag. 3 della sentenza di primo grado), le parole utilizzate dal ricorrente (e da lui confermate in sede di convalida) prospettavano a carico della persona offesa controlli ingiustamente falsati se non avesse pagato.
Nel rispondere ad una deduzione difensiva versata nell’appello (ovvero che la persona offesa avesse aderito alla richiesta sapendo di non essere in regola, cfr. pag. 10 appello), la Corte di appello ha rilevato come anche la persona offesa avesse percepito il pericolo di controlli in mala fede, in quanto sapeva che il suo locale era esente dalle irregolarità indicate dal ricorrente e che quindi alcun vantaggio ingiusto o indebito tornaconto personale era rinvenibile nella sua mancata resistenza alla richiesta del pubblico ufficiale.
D’altra parte, come evidenziato dalla Corte di appello, la persona offesa si era subito determinata a denunciare alla polizia giudiziaria l’accaduto, proprio perché non temeva una regolare ispezione.
Pertanto, a fronte del male minacciato (subire ispezioni falsate a proprio danno, ovvero ispezioni che non trovavano alcuna apparente giustificazione e che si presentavano come veri e propri abusi), la persona offesa aveva offerto la propria disponibilità a dare o promettere una qualche utilità (danno minore) che sapeva “non essere dovuta”.
In tale minaccia, correttamente quindi la Corte di appello ha ravvisato l’abuso costrittivo, realizzato dal ricorrente nel porre il privato “con le spalle al muro” pe evitare il verificarsi del più grave danno minacciato.
Il secondo motivo declina in larga parte censure precluse nel giudizio di legittimità e comunque infondate.
4.1. Priva di evidente fondamento è la dedotta mancata valorizzazione delle dichiarazioni rese dalla persona offesa.
Era stata infatti la difesa del ricorrente nell’appello a chiederne l’espunzione dalla piattaforma probatoria (pagg. 7-8 dell’atto), perché ritenute inutilizzabili,
ciò al fine di escludere la prova del riferimento ai “grossi danni materiali” derivanti dal controllo e alla percezione soggettiva del controllo in malafede (non presente nella querela).
La Corte di appello, rispondendo a tale rilievo, ha ritenuto sufficiente la querela, pur rilevando come in ogni caso le dichiarazioni della persona offesa fossero pienamente utilizzabili.
4.2. Quanto ai dedotti travisamenti della prova, va osservato che impropriamente il ricorrente evoca tale vizio, mirando in realtà ad un nuovo apprezzamento delle fonti probatorie.
Va in primo luogo evidenziato che il vizio di travisamento della prova non è denunciabile in caso di doppia conforme e rispetto a dati probatori non introdotti per la prima volta alla valutazione del giudice di appello (tra tante, Sez. 3, n. 45537 del 28/09/2022, Rv. 283777). Già sotto questo aspetto la denuncia di tale vizio nel caso in esame risulta preclusa.
Inoltre, il vizio in parola, quale omessa valutazione di circostanze risultanti da atti specificamente indicati, è pacificamente circoscritto dalla giurisprudenza di legittimità a dati “non opinabili”, posto che esula dal controllo di legittimità verifica di presunti errori nella valutazione del significato probatorio della prova medesma (tra tante, Sez. 5, n. 8188 del 04/12/2017, dep. 2018, Rv. 272406). Quindi, attraverso la denuncia di tale vizio, non è consentito chiedere alla Corte di cassazione la “rilettura” o il diverso apprezzamento degli elementi di fatto posti a fondamento della decisione o l’autonoma adozione di nuovi e diversi parametri di ricostruzione o valutazione dei fatti (ex multis, Sez. 5, n. 26455 del 09/06/2022, Rv. 283370).
In ogni caso, la prova che si assume pretermessa deve essere decisiva, ovvero tale da inficiare o compromettere, in modo decisivo, la tenuta logica e l’intera coerenza della motivazione, introducendo profili di radicale incompatibilità all’interno dell’impianto argomentativo del provvedimento impugnato (per tutte, Sez. 6, n. 10795 del 16/02/2021, Rv. 281085).
In tale prospettiva nessun dato che si assume pretermesso era decisivo nel senso ora chiarito.
4.3. Quanto in particolare alla richiesta effettuata dalla persona offesa dell’entità della somma da pagare, va rammentato che è principio pacifico che l’iniziativa assunta dal pubblico ufficiale, pur potendo costituire un indice sintomatico dell’induzione o della costrizione, non assume una valenza decisiva ai fini del discrimine rispetto ad altre fattispecie, in quanto il requisito che caratterizz l’induzione indebita o, nei termini innanzi indicati, una concussione per costrizione, è la condotta prevaricatrice del funzionario pubblico, cui consegue una condizione di soggezione psicologica del privato che è ben compatibile anche con iniziativ9/
prese da quest’ultimo (in questo senso, tra le tante, Sez. 6, n. 38863 del 28/09/2021, non massimata sul punto; Sez. 6, n. 52321 del 13/10/2016, Rv. 268520; Sez. 6, n. 24401 del 11/03/2008, Rv. 240355)
Viepiù, va considerato che, nel caso in esame, la persona offesa ha soltanto chiesto di conoscere l’entità della somma già richiesta dal ricorrente, non assumendo alcuna iniziativa autonoma sull’an del pagamento.
4.4. In relazione i poialla autorità che doveva effettuare i controlli, la Corte di appello, lungi obliterare tale dato, lo ha ritenuto irrilevante, in quanto ha posto l’attenzione sulla prospettazione strumentale ed in mala fede dei controlli ad opera del ricorrente.
4.5. Parimenti irrilevante è ciò che è accaduto dopo la denuncia (neppure oggetto di censure di appello).
Il reato, come ha spiegato il Tribunale (pag. 7 della sentenza di primo grado), si era già consumato prima, ovvero con l’accettazione della persona offesa di pagare.
4.6. Va inoltre considerato, come già rilevato nel paragrafo 3 del “Considerato in diritto”, che la prova che fosse stato prospettato un controllo in mala fede in caso di mancato pagamento è stato,trattdai giudici di merito dalle stesse parole del ricorrente, come riferite dalla persona offesa e confermate dal predetto in sede di convalida.
4.7. Fatte queste premesse, il Collegio ritiene che la Corte di appello abbia dimostrato di aver compiutamente esaminato, senza alcuna illogicità manifesta o carenza argomentativa, la tesi difensiva esposta nell’appello (ovvero che in realtà il ricorrente non avesse veicolato un messaggio univoco di sopraffazione, ma avesse instaurato una dialettica utilitaristica, come dimostrava la querela), indicando la sentenza impugnata come proprio dalla querela fosse emerso l’abuso costrittivo del NOME, nei termini sopra indicati.
Sulla base di quanto premesso, il ricorso deve essere rigettato con la condanna del ricorrente al pagamento delle spese del procedimento.
P.Q.M.
Rigetta il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese processuali.
Così deciso il 18/09/2024.