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Concorso tra reati: estorsione e minaccia, il caso

Un professionista è stato condannato per estorsione per aver indotto un collega a versare una somma di denaro sotto la minaccia di coinvolgerlo in un procedimento penale. La Corte di Cassazione ha rigettato il ricorso, confermando la condanna e chiarendo i criteri per distinguere l’estorsione dalla minaccia per costringere a commettere un reato, escludendo un rapporto di specialità e ammettendo la possibilità di un concorso tra reati.

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Pubblicato il 30 ottobre 2025 in Diritto Penale, Giurisprudenza Penale, Procedura Penale

Concorso tra Reati: La Cassazione Distingue Estorsione e Minaccia

Una recente sentenza della Corte di Cassazione (n. 5634/2024) offre un’analisi approfondita su un tema giuridico complesso e cruciale: il concorso tra reati, in particolare la linea di demarcazione tra estorsione (art. 629 c.p.) e minaccia per costringere a commettere un reato (art. 611 c.p.). La pronuncia trae origine da un caso in cui un professionista è stato condannato per estorsione ai danni di un collega, costretto a versare una cospicua somma di denaro per evitare di essere coinvolto in un’indagine penale. La decisione della Suprema Corte non solo conferma la condanna, ma fornisce principi chiari sulla configurabilità dei due delitti.

I Fatti: la Minaccia di una Chiamata in Correità

La vicenda processuale riguarda un professionista accusato di aver indotto, in concorso con un altro soggetto, un suo collega a versare quasi 35.000 euro. La leva utilizzata per ottenere il pagamento era la minaccia di una “chiamata in correità” in un procedimento penale relativo alla liquidazione coatta amministrativa di una società cooperativa. In sostanza, alla vittima è stato prospettato un bivio: pagare la somma richiesta o subire le conseguenze di un coinvolgimento formale nel procedimento, con tutte le relative implicazioni negative.

La vittima, sentendosi posta di fronte a una scelta obbligata tra due mali, ha optato per quello che, in quel momento, appariva meno grave: effettuare il pagamento. La Corte d’Appello, decidendo in sede di rinvio, aveva confermato la responsabilità dell’imputato per il reato di estorsione, pur riducendo la pena.

La Decisione della Corte di Cassazione

L’imputato ha presentato ricorso in Cassazione, articolando diverse censure, tra cui l’errata qualificazione giuridica del fatto e la mancata assunzione di una prova ritenuta decisiva. La Suprema Corte ha rigettato integralmente il ricorso, confermando la solidità del ragionamento dei giudici di merito.

Rifiuto di Nuove Prove e Logicità della Motivazione

La difesa aveva lamentato la mancata audizione della persona offesa in appello, sostenendo che fosse una prova decisiva, specialmente dopo che la sua posizione processuale era cambiata. La Cassazione ha ribadito che, nei processi celebrati con rito abbreviato, la rinnovazione dell’istruttoria in appello ha carattere eccezionale. Il ricorrente non era riuscito a dimostrare la “decisività” di tale prova, limitandosi a citare frasi decontestualizzate da una memoria difensiva della vittima. La Corte ha ritenuto la motivazione della sentenza impugnata logica, coerente e basata su un solido quadro probatorio, incluse le intercettazioni telefoniche.

Il Cuore della Questione: il Concorso tra Reati di Estorsione e Minaccia

Il motivo di ricorso più rilevante dal punto di vista giuridico riguardava la corretta qualificazione del fatto. Secondo la difesa, la condotta non configurava un’estorsione, bensì il reato meno grave di cui all’art. 611 c.p. (violenza o minaccia per costringere a commettere un reato), poiché l’obiettivo sarebbe stato quello di indurre la vittima a commettere un’appropriazione indebita ai danni di terze società per reperire il denaro. Si sosteneva quindi che, in base al principio di specialità, dovesse applicarsi solo la norma dell’art. 611 c.p.

La Cassazione ha smontato questa tesi con un’analisi rigorosa, affermando che tra le due fattispecie non esiste un rapporto di specialità. I due reati tutelano beni giuridici diversi e presentano elementi costitutivi distinti.

Le Motivazioni

La Corte ha spiegato che, ai fini della configurabilità dell’estorsione, è sufficiente che la libertà di autodeterminazione della vittima sia coartata, non necessariamente annullata. La vittima deve essere posta di fronte all’alternativa di subire un pregiudizio o accettare la richiesta ingiusta, scegliendo la seconda opzione per evitare un male percepito come maggiore. Nel caso di specie, la minaccia di essere coinvolto in un processo penale rappresentava proprio quel “male maggiore” che ha viziato la volontà della vittima, inducendola al pagamento.

Sul punto centrale del concorso tra reati, i giudici hanno chiarito che l’art. 629 c.p. (estorsione) e l’art. 611 c.p. (minaccia per costringere a commettere un reato) hanno finalità e strutture diverse. L’estorsione mira a ottenere un ingiusto profitto con altrui danno patrimoniale. La minaccia ex art. 611, invece, è finalizzata a costringere la vittima a commettere un altro reato. Poiché gli elementi costitutivi (in particolare la condotta finalistica e l’evento) sono differenti, non si può applicare il principio di specialità. Le due ipotesi criminose, pertanto, possono coesistere e dare luogo a un concorso tra reati.

Infine, la Corte ha respinto anche la richiesta di riconoscere l’attenuante del fatto di lieve entità, sottolineando come l’ingente importo richiesto e la complessa messa in scena per indurre la vittima a pagare fossero elementi ostativi a tale qualificazione.

Le Conclusioni

Questa sentenza riafferma principi consolidati e offre importanti spunti di riflessione. In primo luogo, consolida l’interpretazione del reato di estorsione, chiarendo che non è necessaria una coazione assoluta, ma è sufficiente una pressione che limiti la libertà di scelta della vittima. In secondo luogo, e soprattutto, delinea con nettezza i confini tra l’estorsione e la minaccia finalizzata alla commissione di un reato. La decisione esclude che una norma possa assorbire l’altra, aprendo alla possibilità che un’unica condotta minacciosa, se finalizzata sia a ottenere un profitto sia a far commettere un reato, possa integrare entrambe le fattispecie in concorso tra reati. Si tratta di una precisazione fondamentale per la corretta applicazione della legge penale in casi complessi che presentano elementi di diverse figure criminose.

Quando una minaccia integra il reato di estorsione?
Una minaccia integra il reato di estorsione quando pone la vittima di fronte a un’alternativa ineluttabile: subire un male ingiusto o accogliere la richiesta dell’agente per procurargli un profitto. È sufficiente che la libertà di autodeterminazione della vittima sia coartata e che essa scelga di pagare o di compiere l’atto richiesto per evitare un danno che percepisce come più grave, anche se la sua volontà non è completamente annullata.

È possibile che i reati di estorsione (art. 629 c.p.) e di minaccia per costringere a commettere un reato (art. 611 c.p.) coesistano?
Sì. Secondo la Corte di Cassazione, tra le due fattispecie non vi è un rapporto di specialità, poiché presentano elementi costitutivi diversi. L’estorsione richiede un ingiusto profitto con altrui danno patrimoniale, mentre l’art. 611 c.p. è finalizzato a costringere la vittima a commettere un altro reato. Pertanto, i due delitti possono essere contestati in concorso tra loro.

In un processo con rito abbreviato, è sempre possibile chiedere di sentire nuovi testimoni in appello?
No, non è sempre possibile. La rinnovazione dell’istruttoria in appello, in un giudizio abbreviato, ha carattere eccezionale. Le parti possono sollecitare questo potere del giudice, ma non hanno un vero e proprio diritto alla prova. L’ammissibilità è subordinata a una valutazione discrezionale del giudice e alla dimostrazione, da parte di chi la richiede, che la prova sia assolutamente necessaria e decisiva ai fini della decisione.

La selezione delle sentenze e la raccolta delle massime di giurisprudenza è a cura di Carmine Paul Alexander TEDESCO, Avvocato a Milano, Pesaro e Benevento.

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