Sentenza di Cassazione Penale Sez. 6 Num. 5634 Anno 2024
Penale Sent. Sez. 6 Num. 5634 Anno 2024
Presidente: COGNOME NOME
Relatore: COGNOME NOME COGNOME
Data Udienza: 21/11/2023
SENTENZA
sul ricorso proposto da
COGNOME NOME, nato a Impruneta il DATA_NASCITA
avverso la sentenza del 22/2/2022 della Corte d’appello di Firenze
Visti gli atti, la sentenza e il ricorso; udita la relazione svolta dal AVV_NOTAIO NOME COGNOME; udita la requisitoria del AVV_NOTAIO NOME AVV_NOTAIO, che ha concluso chiedendo di rigettare il ricorso; uditi gli AVV_NOTAIO e NOME COGNOME, difensori del ricorrente, che hanno concluso chiedendo di accogliere il ricorso.
RITENUTO IN FATTO
Con sentenza del 22 febbraio 2022 la Corte di appello di Firenze, decidendo nel giudizio di rinvio in seguito all’annullamento disposto il 21 marzo 2019 dalla Corte di cassazione, in parziale riforma della sentenza emessa il 18 gennaio 2013 dal Giudice delle indagini preliminari del Tribunale di Firenze, ha
l
ridotto la pena inflitta a NOME COGNOME per il reato di estorsione ai danni di NOME COGNOME.
A NOME COGNOME è stato contestato al capo B) il reato di cui agli artt. 110, 629, primo comma, cod. pen., per avere, in concorso con NOME COGNOME, indotto NOME COGNOME a versare la somma di euro 34.927,20, avendogli prospettato un coinvolgimento nel procedimento penale a carico del menzionato COGNOME nella vicenda relativa alla liquidazione coatta amministrativa della RAGIONE_SOCIALE.
Avverso la sentenza di appello hanno proposto ricorso per cassazione i difensori dell’imputato, che hanno dedotto i seguenti motivi:
3.1. erronea applicazione della legge e manifesta illogicità della motivazione, in quanto le argomentazioni, poste a sostegno dell’effettiva commissione da parte dell’imputato di un’azione anche larvatamente minacciosa ai danni del collega NOME COGNOME, sarebbe stata affidata ad argomenti in parte contraddetti con altri enunciati dello stesso provvedimento e nella totalità eversivi della provvista probatoria (come indicata da pagina 3 a pagina 8 del ricorso) ripetutamente segnalata all’attenzione del Collegio giudicante, che, di contro, li avrebbe completamente ignorati o trascurati;
3.2. mancata assunzione di una prova decisiva nonché manifesta illogicità e contraddittorietà della motivazione in ordine al rigetto della richiesta di rinnovazione dibattimentale attraverso l’escussione della persona offesa NOME COGNOME. Premesso che il Giudice dell’udienza preliminare aveva ammesso l’imputato COGNOME all’abbreviato condizionato, così riconoscendo la necessità dell’integrazione probatoria attraverso l’esame di NOME COGNOME, coimputato e persona offesa, che, però, non si era potuto effettuare attesa la volontà di quest’ultimo di non comparire in udienza, secondo il ricorrente la Corte di appello avrebbe trascurato sia che, nella fase di rinvio dopo la sentenza rescindente, era mutata la posizione processuale di COGNOME, che non era più imputato, essendo stata dichiarata l’improcedibilità dell’azione per difetto di querela in ordine alle imputazioni sub A), B), D) e F), contestate a COGNOME stesso, sia che la sua audizione era necessaria, avendo ritrattato le accuse in una memoria depositata nel giudizio abbreviato;
3.3. erronea applicazione della legge penale in relazione agli artt. 15, 81, 611 e 629 cod. pen. nonché manifesta illogicità della motivazione, per avere la Corte territoriale erroneamente qualificato i fatti come estorsione in luogo del reato di minaccia per costringere NOME COGNOME a commettere il reato di appropriazione indebita ai danni di RAGIONE_SOCIALE e di RAGIONE_SOCIALE ex art. 611 cod. pen. Richiamati i principi espressi nella sentenza n. 200/2016 della Corte
costituzionale in tema di art. 649 cod. proc. pen. e nella sentenza della Corte di cassazione n. 1963/2010, il ricorrente ha affermato che la condotta e l’evento, posti in essere nel caso in esame, miravano ad indurre la presunta persona offesa a commettere il reato di appropriazione indebita, di guisa che, mancando qualsiasi elemento aggiuntivo tipico della contestata ipotesi estorsiva, non si sarebbe dovuto ravvisare tra i due reati una qualsiasi forma di concorso.
Sono pervenuti motivi nuovi nell’interesse del ricorrente con cui si è reiterato il rilievo sull’erroneità del ritenuto concorso formale dei delitti estorsione e di minaccia, al fine di commettere un reato, e si è aggiunto che, a seguito della intervenuta sentenza n. 120 del 2023 della Corte costituzionale, potrebbe ravvisarsi, nel caso di specie, il fatto di lieve entità. La Corte costituzionale, nel dichiarare illegittimo l’art. 629 cod. pen. per violazione degli artt. 3 e 27, terzo comma, Cost. nella parte in cui non prevede che la pena, da esso comminata, è diminuita in misura non eccedente 1/3, ha elencato gli indici rivelatori della sussistenza della diminuente, indicandoli nella natura, nella specie, nei mezzi e COGNOME modalità o COGNOME circostanze dell’azione ovvero nella particolare tenuità del danno o del pericolo, derivante dalla condotta costituente reato. Nel caso in esame, la persona offesa fu solo indotta e non costretta ad assegnare al collega l’incarico di redigere un parere a favore del consorzio e il danno è stato integralmente risarcito, avendo il ricorrente restituito al consorzio l’importo versatogli a titolo di pagamento della sua parcella e riconosciuto al COGNOME un’adeguata somma a titolo di riparazione del danno morale, subito a causa del ritenuto comportamento minaccioso adottato nei suoi confronti.
CONSIDERATO IN DIRITTO
Il ricorso deve essere rigettato, perché basato su motivi nel complesso infondati.
Il primo motivo, concernente l’affermazione della responsabilità del ricorrente per il delitto di estorsione, è infondato.
Premesso che NOME COGNOME era stato sottoposto al procedimento penale per il reato di cui all’art. 228 legge fall., contestato per avere utilizzato a personali la somma di un milione di euro, prelevata dai fondi della RAGIONE_SOCIALE, di cui era commissario liquidatore tra il 2004 e il 2008, la Corte di appello ha ritenuto provato il concorso di NOME COGNOME nell’estorsione ai danni del collega AVV_NOTAIO, avendo valorizzato le conversazioni intercettate tra l’imputato e NOME NOME, da cui si evinceva che
era stato l’odierno ricorrente a illustrare al suo interlocutore l’inutilità de chiamata in correità di NOME COGNOME nel processo a carico dello stesso COGNOME, per alleggerire la propria posizione, e a suggerire di sfruttare la situazione e prospettare a NOME COGNOME la possibilità di chiamarlo in correità per guadagnarci entrambi qualcosa in suo danno, evidentemente sul presupposto della comune consapevolezza che anche NOME COGNOME fosse effettivamente complice di NOME COGNOME vicende per le quali solo quest’ultimo era stato sottoposto a procedimento penale.
La Corte territoriale ha valorizzato, inoltre, le conversazioni intercettate tra l’imputato e la persona offesa e le ammissioni rese da quest’ultima circa le pressioni subite ad opera di NOME COGNOME e NOME COGNOME, perché versasse loro la somma di cui all’imputazione, per non essere coinvolta nell’anzidetto procedimento.
Riguardo a tali pressioni, sfociate nel bonifico effettuato dalla persona offesa all’imputato, il Collegio del merito, ricalcando i rilievi formulati nella sentenz rescindente, ha rilevato che la persona offesa era stata posta nell’ineluttabile alternativa di far conseguire all’imputato e a NOME COGNOME il preteso profitto o di subire il male minacciato ovvero la chiamata in correità e per insindacabile convenienza aveva scelto la prima opzione.
A fronte della motivazione della sentenza impugnata deve ricordarsi che il compito della Corte di legittimità non è quello di sovrapporre la propria valutazione a quella compiuta dai Giudici di merito, ma solo di stabilire se questi ultimi abbiano esaminato tutti gli elementi a loro disposizione, fornendo una corretta interpretazione di essi, con esaustiva e convincente risposta alle deduzioni delle parti, applicando le regole della logica nello sviluppo delle argomentazioni che hanno giustificato la scelta di determinate conclusioni a preferenza di altre (cfr. Sez. 6, n. 5465 del 4/11/2020, F., Rv. 280601 – 01; Sez. 6, n. 47204 del 7/10/2015, COGNOME, Rv. 265482 – 01).
Dall’affermazione COGNOME di COGNOME questo COGNOME principio, COGNOME costante COGNOME nel COGNOME panorama giurisprudenziale, discende che esula dai poteri della Cassazione (nell’ambito del controllo della motivazione del provvedimento impugnato) la formulazione di una nuova e diversa valutazione degli elementi di fatto posti a fondamento della decisione, giacché tale attività è riservata esclusivamente al Giudice di merito.
Nel caso in esame, deve rilevarsi sia che il Collegio territoriale ha dato adeguata e analitica risposta ai motivi di gravame sia che la trama argomentativa, posta a sostegno dell’epilogo decisorio in disamina, non è inficiata da illogicità o manifeste contraddittorietà ed è rispettosa dei princip enunciati da questa Corte (Sez. 2, n. 7662 del 27/01/2015, Lanza, Rv. 262574 01; Sez. 2, n. 24624 del 17/07/2020, COGNOME, Rv. 279492 – 01), secondo
cui, ai fini dell’integrazione del delitto di estorsione, non è necessario che la libertà di autodeterminazione della vittima venga del tutto annullata (si avrebbe, in caso contrario, una rapina, non un’estorsione) ed è sufficiente che la richiesta estorsiva, con il pregiudizio patrimoniale che ne consegue, sia accolta anche soltanto per mera convenienza, ad esempio – nel caso di specie – per evitare un male che appaia agli occhi della vittima più grave, come quello che sarebbe derivato dalla chiamata in correità di NOME COGNOME.
3. Anche il secondo motivo non coglie nel segno.
Deve rilevarsi, innanzitutto, che la decisione assunta dal Giudice di primo grado nell’autorizzare il giudizio abbreviato condizionato all’esame di NOME COGNOME, non esplicava alcun effetto su quella adottata dalla Corte di appello in merito alla richiesta di rinnovazione istruttoria mediante l’esame del predetto COGNOME, nella nuova veste di testimone, essendo stati definiti i processi a suo carico.
Si trattava, infatti, di valutazioni effettuate per finalità diverse e sulla bas di presupposti differenti: l’ammissione del giudizio abbreviato in un caso, la richiesta di rinnovazione istruttoria, nell’altro caso.
Istituto, quest’ultimo, che, come è noto, ha carattere eccezionale.
Al riguardo, in via generale deve rilevarsi come nel giudizio abbreviato l’integrazione probatoria in sede di appello sia ammissibile ai sensi dell’art. 603, comma 3, cod. proc. pen., senza che, peraltro, le parti possano invocare a tal fine un vero e proprio diritto alla prova, dovendosi ritenere che possa sollecitarsi l’esercizio da parte del Giudice del potere di integrazione (Sez. U, n. 930 del 13/12/1995, dep. nel 1996, Clarke, Rv. 203427 – 01; Sez. 6, n. 4694 del 24/10/2017, dep. nel 2018, COGNOME, Rv. 272197 – 01).
D’altro canto, ciò si ricollega al carattere eccezionale della rinnovazione istruttoria in appello, implicante l’esercizio della discrezionalità del Giudice che si trovi a non poter decidere allo stato degli atti (Sez. U., n. 12602 del 17/12/2015, dep. nel 2016, Ricci, Rv. 266820 – 01).
In tale quadro deve escludersi che nel giudizio abbreviato possa invocarsi mediante ricorso la mancata ammissione di prova decisiva agli effetti dell’art. 606, comma 1, lett. d), cod. proc. pen.: tuttavia ciò non toglie che la parte interessata possa dolersi della mancata ammissione dell’integrazione probatoria sollecitata agli effetti dell’art. 603, comma 3, cod. proc. pen., ove siano prospettate lacune della motivazione su punti decisivi, che l’integrazione richiesta avrebbe potuto colmare (sul punto si rinvia all’ampia analisi di Cass. Sez. 2, n. 40855 del 19/4/2017, Giampà, Rv. 271163; cfr. anche Cass. Sez. 1,
n. 17607 del 31/3/2016, COGNOME, Rv. 266623, e Cass. Sez. 2, n. 48630 del 15/9/2015, COGNOME, Rv. 265323).
Non assume, dunque, di per sé decisivo rilievo nel giudizio abbreviato in grado di appello il carattere di novità e di sopravvenienza della prova, dovendosi comunque individuare un vizio inerente alla mancanza di un’idonea motivazione circa la concreta incidenza della prova sollecitata, motivazione che dovrà correlarsi al quadro delle pregresse acquisizioni e che dovrà essere tanto più accurata in presenza di una prova sopravvenuta (in tal senso condividendosi i rilievi di Cass. Sez. 1, n. 8316 del 14/1/2016, COGNOME, Rv. 266145 – 01).
Ciò posto, deve osservarsi che, nel caso in esame, il ricorrente ha censurato la mancata rinnovazione istruttoria mediante l’escussione di NOME COGNOME ma non ha spiegato adeguatamente le ragioni della decisività della prova richiesta.
Il ricorrente, infatti, si è limitato a evidenziare una frase contenuta nella memoria depositata dalla persona offesa, da cui ha desunto che quest’ultima «non aveva percepito una qualunque forma di coartazione», ma, per un verso, ha trascurato che alla frase non è immediatamente attribuibile il senso indicato dallo stesso ricorrente e, per altro verso, non ha correlato la prova al quadro probatorio esistente, composto anche da intercettazioni e da prove orali, così da illustrarne la concreta incidenza sul complesso delle prove acquisite.
Ne discende che il motivo difetta di specificità.
4. Il terzo motivo è manifestamente infondato.
4.1. La giurisprudenza delle Sezioni Unite di questa Corte è consolidata nel rilevare che l’unico criterio idoneo a dirimere i casi di concorso apparente di norme è da rinvenirsi nel principio di specialità ex art. 15 cod. pen. (Sez. U, n. 20664 del 23/02/2017, COGNOME, Rv. 269668 – 01; Sez. U, n. 1963 del 28/10/2010, dep. 2011, COGNOME, Rv. 248722 – 01; Sez. U, n. 1235 del 28/10/2010, dep. 2011, COGNOME, Rv. 248865 – 01; Sez. U, n. 16568 del 19/04/2007, COGNOME, Rv. 235962 – 01; Sez. U, n. 47164 del 20/12/2005, Marino, Rv. 232302 – 01).
Il principio di specialità consente alla legge speciale di derogare a quella generale, nel caso in cui le diverse disposizioni penali regolino la “stessa materia”. Sul punto, si è precisato che deve definirsi norma speciale quella che contiene tutti gli elementi costitutivi della norma generale e che presenta uno o più requisiti propri e caratteristici, in funzione specializzante, sicché l’ipotesi cui alla norma speciale, qualora la stessa mancasse, ricadrebbe nell’ambito operativo della norma generale (Sez. U, n. 1235 del 28/10/2010, dep. 2011, COGNOME, cit.).
In tale ambito ricostruttivo, si è chiarito che il criterio di specialità de intendersi e applicarsi in senso logico-formale. Il presupposto della convergenza di norme, necessario perché risulti applicabile la regola sull’individuazione della disposizione prevalente posta dall’art. 15 cod. pen, risulta integrato solo in presenza di un rapporto di continenza tra fattispecie, alla cui verifica deve procedersi attraverso il confronto strutturale tra le norme incriminatrici astrattamente configurate, mediante la comparazione degli elementi costitutivi che concorrono a definire le fattispecie di reato.
L’insegnamento delle Sezioni Unite è consolidato nel ritenere che per “stessa materia” deve intendersi la stessa fattispecie astratta, lo stesso fatto tipico nel quale si realizza l’ipotesi di reato; con la precisazione che il riferimento all’interesse tutelato dalle norme incriminatrici non ha immediata rilevanza ai fini dell’applicazione del principio di specialità (Sez. U, n. 16568 del 19/04/2007, COGNOME, cit.; Sez. U, n. 1963 del 28/10/2010, dep. 2011, COGNOME, cit.).
In applicazione dei richiamati principi, la Corte regolatrice, nella sua massima espressione, ha rilevato che l’identità di materia si ha sempre nel caso di specialità unilaterale per specificazione, perché l’ipotesi speciale è ricompresa in quella generale, e, parimenti, nel caso di specialità reciproca per specificazione, come nel rapporto tra gli artt. 581 (percosse) e 572 (maltrattamenti in famiglia) cod. pen., ovvero di specialità unilaterale per aggiunta, per es. tra le fattispecie di cui agli artt. 605 (sequestro di persona) e 630 (sequestro di persona a scopo di estorsione) cod. pen. L’identità di materia è, invece, da escludere nella specialità reciproca bilaterale per aggiunta, ove ciascuna delle fattispecie presenta, rispetto all’altra, un elemento aggiuntivo eterogeneo, come nel rapporto tra violenza sessuale e incesto: violenza e minaccia nel primo caso, rapporto di parentela o affinità nel secondo (Sez. U, n. 1963 del 28/10/2010, dep. 2011, Di COGNOME, Rv. 248722 – 01).
Le Sezioni unite, quindi, considerato che il criterio di specialità è l’unico principio legalmente previsto in tema di concorso apparente, COGNOME anzidette pronunce hanno escluso la possibilità di ricorrere alle figure dell’assorbimento, della consunzione e dell’ante-fatto o post-fatto non punibile, ritenute prive di sicure basi ricostruttive, poiché individuano elementi incerti quale dato di discrinnine, come l’identità del bene giuridico, tutelato dalle norme in comparazione, e la sua astratta graduazione in termini di maggiore o minore intensità, di non univoca individuazione, e per questo suscettibili di opposte valutazioni da parte degli interpreti.
Tale conclusione – si è precisato – resta valida pur a seguito di quanto specificamente elaborato dalla Corte EDU con la sentenza 4 marzo 2014, RAGIONE_SOCIALEde Stevens c. Italia e con successive pronunce sul tema della medesima autorità
(Corte EDU, RAGIONE_SOCIALEde Camera, 15/11/2016, A e B contro Norvegia), fino a giungere alla sentenza della Corte cost. n. 200 del 2016. Dall’attenta lettura dei provvedimenti richiamati, infatti, si ricava la presenza di un costante riferimento alla necessità di una comparazione concreta e complessiva delle fattispecie con particolare distinzione – quanto alla verifica del presupposto processuale di cui all’art. 649 cod. proc. pen. e del suo corrispondente convenzionale dell’art. 4 Prot. 7 CEDU – al fatto oggetto di contestazione e, quanto all’individuazione dell’unitarietà della fattispecie contestata, agli elementi costitutivi della stessa, caratterizzati come sempre dalla correlazione azione – evento – elemento psicologico e dalla loro concreta attribuzione, attraverso il capo di imputazione, alla persona sottoposta a giudizio. In particolare, le pronunce della Corte EDU succedutesi in argomento, cui si è già fatto riferimento, fondano la necessità di una comparazione di quanto contestato con l’oggetto di un precedente giudizio; sottolineano la funzione processuale di tale limite e non escludono che la regolamentazione sostanziale del fatto possa essere descritta in più di una disposizione incriminatrice (penale o amministrativa), stante la più ampia libertà decisionale riconosciuta allo Stato nazionale in argomento.
4.2. Alla luce di siffatte coordinate ermeneutiche deve affermarsi che tra la fattispecie di cui all’art. 611 cod. pen. e quella di cui all’art. 629 cod. pen. non v è alcun rapporto di specialità, riconducibile alla nozione accolta nell’art. 15 dello stesso codice, atteso che la condotta presa in considerazione dall’art. 611 cod. pen. è quella diretta a costringere altri a commettere un reato, mentre la condotta incriminata dall’art. 629 cod. pen. è quella diretta a conseguire un ingiusto profitto con altrui danno patrimoniale, sicché si riscontra in ciascuna delle due ipotesi criminose una diversità di condotte finalistiche e una diversità di attività materiali che non lasciano sussistere tra esse quella relazione di omogeneità che rende applicabile la disposizione dell’art. 15 cod. pen.
Siffatto epilogo è stato affermato già da precedenti pronunce di questa Corte, che, pur contenendo un riferimento anche alla diversità dei beni tutelati dalle due norme in questione, hanno comunque compiuto un confronto tra gli elementi costitutivi delle fattispecie e sono addivenute ad escludere un rapporto di specialità (Sez. 2, n. 15441 del 12/11/2021, COGNOME, Rv. 282961 – 01; Sez. 2, n. 40837 del 9/10/2008, COGNOME, Rv. 242244 – 01; Sez. 2, n. 48029 del 20/10/2016, COGNOME, non massimata).
4.3. Posta, dunque, la configurabilità del concorso di reati, deve rilevarsi che la deduzione difensiva, secondo cui, nel caso in esame, sarebbe assente uno degli elementi costitutivi del reato di estorsione, consistente nel rapporto di causalità diretta tra la condotta minacciosa e la disposizione patrimoniale
dannosa, non trova conferma nei fatti accertati, come ricostruiti – con motivazione immune da vizi – nella sentenza impugnata.
Contrariamente a quanto dedotto dal ricorrente, infatti, gli accertamenti compiuti avevano confermato l’ipotesi di accusa, essendo emersi tutti gli elementi costitutivi del reato di estorsione, in essi inclusi il danno con correlato profitto, prodotto dalla condotta minacciosa dell’imputato e di NOME COGNOME.
Ne discende che, ove si accedesse alla prospettazione difensiva secondo cui la condotta e l’evento, posti in essere dall’imputato, miravano ad indurre la presunta persona offesa a commettere il reato di appropriazione indebita, dovrebbe pervenirsi alla conclusione della sussistenza di entrambe le fattispecie criminose in questione.
Riguardo ai motivi nuovi depositati nell’interesse del ricorrente, deve rinviarsi alle osservazioni già formulate in risposta al terzo motivo del ricorso quanto alle censure sul concorso dei reati.
Le residue doglianze, relative alla configurabilità del fatto di lieve entità, poggiano su una ricostruzione della vicenda diversa da quella effettuata nella sentenza e, peraltro, trascurano di considerare elementi deponenti in senso contrario rispetto alla lieve entità, quali l’importo richiesto e la messa in scena creata per indurre la persona offesa a effettuare il pagamento.
In definitiva, il ricorso deve essere rigettato con la conseguente condanna del ricorrente, ai sensi dell’art. 616 cod. proc. pen., al pagamento delle spese processuali.
P.Q.M.
Rigetta il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese processuali.
Così deciso il 21/11/2023