Sentenza di Cassazione Penale Sez. 4 Num. 13597 Anno 2025
Penale Sent. Sez. 4 Num. 13597 Anno 2025
Presidente: COGNOME
Relatore: COGNOME
Data Udienza: 25/03/2025
SENTENZA
sui ricorsi proposti da:
NOME COGNOME nato a BARI il 09/05/1964 COGNOME NOME nato a DURAZZO( ALBANIA) il 20/11;1963 NOME nato il 21/11/1965
avverso la sentenza del 02/10/2023 della CORTE APPELLO di TRIESTE visti gli atti, il provvedimento impugnato e il ricorso; udita la relazione svolta dal Consigliere NOME COGNOME udito il Pubblico Ministero, in persona del Sostituto Procuratore gen. NOME COGNOME che ha concluso chiedendo il rigetto dei ricorso dell’innputatoZHEKU e l’inammissibilità dei restanti ricorsi.
udito il difensore avvocato NOME COGNOME NOME del foro di ROMA in difesa di NOME che ha chiesto l’accnglimento del ricorso e il conseguente annullamento della sentenza della Corte Appello di Trieste.
RITENUTO IN FATTO
1. Con sentenza del 12/01/2022 emessa all’esito di giudizio abbreviato il Gup del Tribunale di Trieste condannava gli odierni ricorrenti NOME NOME e NOME per una pluralità di cessioni di cocaina commesse in Trieste tra il giugno 2019 e il marzo 2020 (Settimio NOME NOME per i capi 1, 2, 3, 4, 5, 6, 7, 8, 9, 10, 11, 12, 13, 14, 15, 16, 17, 18, 21, 23,24, 25, 26, 27, 28, 29, 30, 31, 32, 33, 34, 35, 36, 37, 38, 39, 40, 41, 42, 43, 44, 45, 46, 47, 48, 49, 50, 51, 52, 53, 54, 55, 56, 57, 58, 59, 60, con recidiva reiterata, specifica, infraquinquennale; Mejdani Artur per i capi 1, 9,12, 16, 18, 19, 20, 22, 23, 29, 33, 35, 38, 42, 46, 47, 51, 54, 57, 59 con recidiva reiterata).
NOME veniva, invece, assolta dai medesimi reati imputatili (capi 4, 20, 22, 23, 29, 33, 38, 42, 46, 47).
NOME, qualificati tutti i fatti con riferimento all’art. 73, comma 5, d.P. 309/90 e concessegli le circostanze attenuanti generiche ritenute equivalenti alla contestata recidiva, ritenuto il vincolo della continuazione ed applicata la diminuzione per il rito, veniva condannato alla pena di anni due, mesi undici di reclusione ed euro 20166 di multa.
Mejdani, qualificati tutti i fatti tranne quelli di cui ai capi 19) e 22) c riferimento all’art. 73, comma 5, d.P.R. 309/90 e concessegli le circostanze attenuanti generiche ritenute equivalenti alla contestata recidiva, ritenuto il vincolo della continuazione ed applicata la diminuzione per il rito, veniva condannato alla pena di anni quattro, mesi sette di reclusione ed euro 27.000 di multa.
Sull’appello proposto dal Procuratore della Repubblica presso il Tribunale di Trieste nei confronti di tutti gli imputati, con sentenza del 02/10/2023, la Corte di Appello di Trieste ha dichiarato NOME colpevole di tutti i reati ascrittile e, riconosciutele le circostanze attenuanti generiche ed unificati i reati con il vincolo della continuazione, l’ha condannata alla pena di anni tre di reclusione ed euro 13.400 di multa. In accoglimento dell’appello del Pm ha rideterminato la pena per NOME NOME in anni tre, mesi nove e giorni 20 di reclusione ed euro 13.400 di multa, dichiarando inammissibile l’appello proposto dallo stesso. Ha confermato la statuizione di primo grado per NOMECOGNOME
Avverso tale provvedimento hanno proposto ricorso per Cassazione, a mezzo del proprio difensore di fiducia, deducendo i motivi di seguito enunciati nei limiti strettamente necessari per la motivazione, come disposto dall’art. 173, comma 1, disp. att., cod. proc. pen.
• NOME COGNOMEAvv. NOME COGNOME)
Con un unico motivo il ricorrente lamenta vizio di motivazione anche sotto il profilo del travisamento della prova, in relazione all’accoglimento del motivo di impugnazione del PM concernente la concessione delle circostanze attenuanti generiche.
La censura – come si precisa in ricorso – investe la parte dell’impugnato provvedimento, da pag. 6 a p. 12, relativo all’accoglimento del ricorso del P.M. avverso la sentenza di primo grado, convertito in appello ex art. 580 cod. proc. pen., avente ad oggetto la concessione da parte del G.U.P. delle circostanze attenuanti generiche in regime di equivalenza rispetto alla recidiva contestata. Ciò laddove la Corte d’Appello, in accoglimento della tesi del P.M. ricorrente, ha ritenuto che la decisione del giudice di primo grado non fosse, da un lato, sorretta da idoneo apparato argomentativo e, dall’altra, apparisse contraddittoria a fronte dei fatti accertati all’esito del giudizio di merito. In particolare, non è stato riten sufficiente a motivare la concessione delle attenuanti il riferimento di cui a pag. 33 della sentenza primo grado «alla necessità di adeguare la pena all’effettivo disvalore dei fatti da ritenersi alla luce degli elementi di valutazione dell’art. 13 cod. pen., nonché in ragione della piena confessione dell’imputato».
Sotto il primo profilo per il ricorrente la sentenza di primo grado risulta immune da censure.
Viene ricordato che le circostanze attenuanti generiche hanno anche la funzione di adeguare la sanzione finale all’effettivo disvalore del fatto oggetto di giudizio, al caso specifico nella globalità degli elementi oggettivi e soggettivi.
Si richiama il dictum di Sez. U, n. 20208 del 25/10/2018, dep. 2019, COGNOME, Rv. 275319, che hanno legittimato il «ricorso alle attenuanti generiche per la mitigazione di trattamenti sanzionatori che diversamente risulterebbero sproporzionati, sia pure valorizzando profili avvertiti (non sempre a ragione) come estranei al catalogo dell’art. 133 cod. pen.» e quella giurisprudenza, seppure risalente, che ha affermato che «possono verificarsi casi in cui la fattispecie concreta integra il delitto, per cui va applicata la sanzione prevista dal legislatore, ma la concretezza della vicenda ( ) richiede un intervento correttivo del giudice che renda, di fatto, la pena rispettosa del principio di ragionevolezza (art. 3 Cost.) e della finalità co stituzionalizzata sub art. 27 Cost., comma 3, di cui la congruità costituisce elemento essenziale» (Sez. 6, n. 7946 del 10/04/1995, COGNOME, Rv. 202165; in senso adesivo, le non massimate Sez. 5, n. 28060 del 09/07/2020, COGNOME; Sez. 2, n. 20734 del 02/07/2020, Di Silvio; Sez. 2, n. 4175 del 05/12/2018, dep. 2019, COGNOME; Sez. 3, n. 46071 del 12/06/2018, COGNOME; Sez. 6, n. 13281 del 09/01/2018, COGNOME).
In ricorso si richiama, altresì, la sentenza n. 183 del 2011 con la quale la Corte costituzionale ha dichiarato l’illegittimità costituzionale dell’art. 62 bis, comma 2 cod. pen. come sostituito dalla L. 5 dicembre 2005, 11. 251, art. 1, comma 1, nella parte in cui stabilisce che, ai fini dell’applicazione del comma 1 dello stesso articolo, non si possa tenere conto della condotta del reo susseguente al reato. E si ricorda che la Corte costituzionale ha sancito che «tra le finalità che la Costituzione assegna alla pena – da un lato, quella di prevenzione generale e difesa sociale, con i connessi caratteri di afflittività e retributività, e, dall’altro, qu prevenzione speciale e di rieducazione, che tendenzialmente comportano una certa flessibilità della pena in funzione dell’obiettivo di risocializzazione del reo non può stabilirsi a priori una gerarchia statica ed assoluta che valga una volta per tutte ed in ogni condizione. Il legislatore può cioè – nei limiti della ragionevolezza – far tendenzialmente prevalere, di volta in volta, l’una o l’altra finalità della pen ma a patto che nessuna di esse ne risulti obliterata». Alla luce di tale principio si è ritenuto che «con l’inasprimento del trattamento sanzionatorio per i “recidivi reiterati”, autori di determinati reati, senza la possibilità di tenere conto del lo comportamento successivo alla commissione del reato, anche quando è particolarmente meritevole ed espressivo di un processo di rieducazione intrapreso, o addirittura già concluso, la norma in esame, in violazione dell’art. 27 Cost., comma 3, privilegiando un profilo general-preventivo, elude la funzione rieducativa della pena».
Ricorda ancore il ricorrente che il legislatore non può trascurare detta funzione nella commisurazione delle pene e, più in generale, nella disciplina inerente al trattamento sanzionatorio, mentre spetta al giudice valutare tutte le specifiche circostanze della fattispecie concreta, facendo buon uso del proprio potere discrezionale, indicandone i motivi (art. 132 cod. pen.). Pertanto, il giudice di merito, qualora intenda adeguare l’entità della pena al disvalore del fatto anche mediante il ricorso alle attenuanti generiche, ha l’onere di ben evidenziare gli elementi del caso concreto che giustificano il riconoscimento di dette attenuanti e di spiegare la scelta in ordine all’eventuale giudizio di comparazione con le circostanze aggravanti. Ciò pur non ignorandosi che I giudice, nella decisione inerente al riconoscimento od alla esclusiore delle attenuanti generiche, non è tenuto a prendere in considerazione tutti gli elementi dedotti dalle parti o rilevabili dagli atti, ma è su ficiente che faccia riferimento a quelli ritenuti decisivi o comunque rilevanti, rimanendo tutti gli altri disattesi o superati da tale valutazione (Sez. 2, n. 1913 de 20/12/2018, dep. 2019, COGNOME, Rv. 275509; Sez. 5, n. 43952 del 13/04/2017, COGNOME, Rv. 271269; Sez. 3, n 28535 del 19/03/2014, COGNOME, Rv. 259899; Sez. 2, n. 3609 del 18/01/2011, COGNOME, Rv 249163).
Per il ricorrente la sentenza di primo grado appare pienamente conforme ai predetti dettami giurisprudenziali. Ciò in quanto il G.U.P. aveva fatto un uso corretto del proprio potere discrezionale )individuando con motivazione immune da censure l’elemento della confessione dell’imputato come rilevante ai fini della concessione del beneficio.
Diversamente, secondo la tesi proposta in ricorso, le argomentazioni utilizzate dai giudici di appello per confutare la valenza della confessione del Settimio ai fini della concessione delle circostanze attenuanti generiche non sono condivisibili per due ordini di ragioni. In primo luogo perché la Corte d’Appello avrebbe effettuato una serie di valutazioni di natura strettamente mentale consistenti, essenzialmente, in una rilettura alternativa del ragionamento probatorio del giudice di primo ritenendo che gli elementi ditrova già acquisiti nel corso delle indagini fossero di per sé già sufficienti al fin accertare la responsabilità del Settimio, la c confessione perciò non avrebbe apportato alcun elemento al giudizio con conseguente irrilevanza ai fini della concessione delle attenuanti generiche. E tanto, ad avviso della Corte d’Appello, vizierebbe di contraddittorietà sul punto la sentenza di primo grado.
Sostiene, poi, il ricorrente che da una lettura complessiva della sentenza di primo grado, emerge uno scenario ben diverso. Il G.U.P., infatti, si è fondato su una valutazione sinergica di tutti gli elementi sottoposti alla sua cognizione , tra cui le intercettazioni, ma ha utilizzato la confessione come elemento di riscontro per l’affermazione della responsabilità non solo dello stesso COGNOME ma anche, e forse soprattutto, del coimputato COGNOME.
Per il ricorrente non pare infatti potersi dubitare che il Settimio, ammettendo gli episodi di acquisti di sostanza stupefacente dal fornitore albanese, abbia fornito un efficace elemento di conferma del contenuto delle intercettazioni ambientali predette cessioni con ciò rendendo, e di molto, più agevole il raggiungimento della prova certa nei confronti del coimputato.
Tale ragionamento appare esente da vizi logici e perfettamente in linea con la consolidata giurisprudenza di legittimità sul punto.
Per tali ragioni la difesa ricorrente ritiene che il vizio di contraddittorietà ri nuto in sentenza a quo in realtà non sussista.
Sotto diverso profilo, la Corte d’Appello ritiene che la confessione del COGNOME non sia apprezzabile ) siccome riferita unicamente a una piccola parte degli episodi contestati. Il riferimento è alle dichiarazioni rese dell’imputato in sede di interro gatorio di garanzia in data 27 agosto 2020 in cui il Settimio dichiarò “Ho acquistato cocaina dal COGNOME al massimo una decina di volte e al massimo 10 grammi e una volta 15 io aggiungevo ai 10 grammi 5 grammi di manitolo e poi la cedevo a COGNOME NOME NOME [)COGNOME, Monte Gaia, e altri soggetti indicati”.
Per il ricorrente, dall’esame del capo di imputazione emerge che, pur nella sinteticità di una verbalizzazione riassuntiva, il Settimio ha confessato la totalità degli ep .sodi contestati, che riguardano effettivamente 14 acquisti di 10 – 15 7 gramm ocaina ciascuno dal coimputato COGNOME e la successiva rivendita parcellizzata in piccoli quantitativi ad una platea di 5 – 6 acquirenti.
La censura di parzialità e strumentalità mossa dalla Corte d’Appello alla confessione resa dal COGNOME appare fondata su una lettura parziale del predetto verbale di interrogatorio e trasmoderebbe, a parere del ricorrente, in un vizio di contraddittorietà in relazione al contenuto dello specifico atto sopraindicato.
Sotto altro profilo anche si ritiene che, anche su tale specifica questione la Corte territoriale si sia limitata ad una interpretazione alternativa del materiale probatorio a sua disposizione preclusa in questo caso dalla funzione di Giudice di legittimità ai sensi dell’art. 580 cod. proc. pen.
Tutto ciò premesso e considerato il ricorrente chiede annullarsi la sentenza impugnata e per l’effetto confermarsi la sentenza di primo grado.
• COGNOME (Avv. NOME COGNOME)
Con primo motivo il ricorrente lamenta violazione dell’art. 73, comma 5, d.P.R. 309/90 per mancato riconoscimento dell’ipotesi di lieve entità nelle condotte contestate all’imputato ai capi 19) e 22).
Le critiche del ricorrente sono rivolto in particolar modo alle pagine 47-53 della sentenza impugnata nella parte in cui è stata confermata la ricostruzione in fatto e in diritto operata dal giudice di primo grado in relazione al capo 19) dell’imputazione ove si contesta la detenzione di 180 grammi di cocaina e al capo 22) dell’imputazione riguardantt, invece, la detenzione di circa 89 grammi sempre di cocaina.
Si evidenzia che si tratta di “droga parlata” e quindi la difesa non contesta la sussistenza del fatto reato di detenzione dello stupefacente al fine di spaccio, ma l’errata qualificazione giuridica in quanto, alla luce degli ampi richiami che in ricorso si opera alla giurisprudenza di legittimità in materia di quinto comma dell’articolo 73, sarebbe mancata nel caso che ci occupa ia valutazione degli indici complessivi e globali della condotta. In particolar modo, non si sarebbe tenuto conto che ci si trova di fronte ad un’ipotesi di “piccolo spaccio”, in quanto, come risulta dagli atti di indagine acquisite al fascicolo del dibattimento, il ricorrente non è un protagonista principale nell’universo del commercio di sostanze stupefacenti da cui non trae cospicui guadagni ma, al contrario, risulterebbe essere una delle tante vittime del contesto difficile sociale, lavorativo e culturale in cui vive.
Si sostiene in ricorso che nel caso di specie la considerazione del dato qualitativo e quantitativo della sostanza stupefacente detenuta in ipotesi accusatoria non potrebbe essere ritenuta prevalente rispetto alla valutazione del concr
esplicarsi della condotta delittuosa del ricorrente, condotta non di certo professionale né tantomeno di assai rilevante offensività.
Il secondo motivo, volto a censurare l’esclusione delle circostanze attenuanti generiche a seguito dell’appello del PM, propone le medesime considerazioni del coimputato COGNOME
Ci si duole che il secondo giudice, accogliendo l’appello proposto dal pm triestino, abbia revocato la concessione delle attenuanti generiche concesse in primo grado, così confermando la pena irrogata con la prima sentenza, nonostante l’esclusione in suo favore della contestata recidiva. In particolar modo, ci si duole della mancata valorizzazione della confessione resa. Ciò in violazione dei canoni ermeneutici affermati da questa Corte di legittimità in materia, che vengono ampiamente richiamati in ricorso.
Si ribadisce che ben si sarebbe potuta valutare favorevolmente la resipiscenza dell’imputato, laddove per giurisprudenza consolidata ciò può essere possibile laddove la stessa intervenga in qualunque momento e con qualunque modalità, purché sia seria e veritiera. Si sottolinea la corretta condotta processuale dell’imputato, che ha personalmente partecipato al processo a suo carico e ne ha agevolato la definizione tramite anche le dichiarazioni confessori rese, nonché la sua condotta posteriore e successiva rispetto al fatto in esame priva di censure e segna!azioni di qualsiasi sorta.
• NOME COGNOMEAvv. NOME COGNOME)
Con plurimi motivi, la difesa di NOME lamenta inosservanza delle norme penali e vizio di motivazione per non avere la Corte territoriale, nel ribaltare la sentenza assolutoria di primo grado (con la formula “per non avere commesso il fatto”), adottato una motivazione rafforzata con conseguente assunzione di una nuova argomentazione giustificativa – ogni oltre ragionevole dubbio – in merito alla ritenuta condotta concorsuale in capo alla ricorrente in relazione a ciascuna delle condotte di cui all’art. 73 DPR 309/90 contestate al coniuge COGNOME
Più specificamente, con il primo motivo si lamenta violazione degli artt. 192, 533, 546 comma 1 lett. e) con riferimento alla imputazione di cui ai capi 1, 4, 18, 19, 20, 22, 23, 29, 33, 38, 42, 46 e 47.
Il difensore ricorrente ricorda che la posizione di NOME COGNOME è relativa alle vicende investigative che hanno avuto ad oggetto diversi episodi di spaccio, in un periodo di tempo che va dal 19 giugno 2019 fino al dicembre del 2019, all’esito delle quali il coinvolgimento dell’odierna imputata era stato esclusivamente suggerito «dal fatto che costei accompagnava il COGNOME quando costui si recava dal Settimio-COGNOME per consegnargli la droga» e che inoltre «a lei inoltre era intestata l’utenza cellulare utilizzata per la ricezione del messaggio criptico inviato dalla coppia NOMECOGNOME per segnalare la necessità di essere riforniti di droga» (così
la sentenza impugnata a pag. 4). E che, ritenuta la esiguità di tali elementi indiziari, insufficienti a determinare un accertamento di responsabilità in base al principio dell’oltre ogni ragionevole dubbio, all’esito del processo dì primo grado, tenutosi con giudizio abbreviato, l’imputata era stata assolta da ogni addebito con la formula per non aver commesso il fatto.
Ci si duole, invece, che l’appello interposto dal Pubblico Ministero avverso tale decisione liberatoria, sia stato accolto dalla Corte territoriale, la quale, in riform della sentenza del giudice triestino, ha ritenuto di affermare la responsabilità dell’imputata ribaltando integralmente quel primo giudizio assolutorio, proprio sul punto qualificante del giudizio di merito, consistito nello sviluppo in fatto e in dirit della distinzione corrente fra mera connivenza e concorso nel reato. Asserisce in proposito la Corte d’Appello nell’incipit motivazionale della sentenza di riforma che il giudice di primo grado, pur avendo ritenuto che la COGNOME fosse consapevole dell’attività illecita svolta dal marito e del reale motivo delle frequenti visite quest’ultimo, ha ritenuto che la predetta imputata non avesse dato alcun contributo penalmente rilevante alle condotte di spaccio del Mejdani. In sostanza l’atteggiamento della donna si sarebbe risolto in una mera connivenza, di talché la di lei condotta sarebbe stata priva dei requisiti per essere ritenuta penalmente rilevante quale contributo – morale e/o materiale – ai fini dell’applicazione dell’art. 110 c.p. (il richiamo è a pag. 5 della sentenza di appello).
Ebbene, con ampi richiami al contenuto della sentenza impugnata, il ricorrente lamenta che l’assunto apodittico della Corte d’Appello poc’anzi citato non troverebbe affatto riscontro in alcun passaggio della motivazione della sentenza di primo grado, nella quale si è invece affermato che «per quanto concerne COGNOME l’utilizzo del suo cellulare per i due squilli e la sua presenza in casa di Settimio allorché il marito gli vende la droga non sono sufficienti a configurare la colpevolezza della donna, al di là di ogni ragionevole dubbio. Potrebbe avere accompagnato COGNOME senza avere alcun ruolo nella trattativa e nella successiva cessione. COGNOME stesso la scagiona» (il richiamo è a pag. 15 della sentenza di primo grado).
In altro passaggio della sentenza di primo grado, inoltre, per i capì 4, 18, ancora, veniva specificato che la Zheku «anche in questo caso potrebbe aver accompagnato COGNOME senza avere alcun ruolo nella trattativa e nella successiva cessione. E potrebbe aver lasciato il suo cellulare in uso al marito, senza per questo potersi ritenere corretknei traffici di quest’ultimo. COGNOME stesso la scagiona» (il richiamo è alle pagg. 16-20 della sentenza di primo grado).
Il ricorrente evidenzia che in nessun passaggio della sentenza di primo grado, in definitiva, il giudice di primo grado «ha mai ritenuto che la Zheku fosse consapevole dell’attività illecita svolta dal marito e del reale motivo delle frequenti visi di quest’ultimo» (così la sentenza di appello a pag. 5); né la Corte d’Appello indica
il passaggio motivazionale della sentenza di primo grado ove si sarebbe dato atto dell’atteggiamento della donna che «si sarebbe risolto in una mera connivenza» (così la sentenza di appello a pag. 5). Un’accusa che, a ben vedere, aveva la peculiarità di attingere la condotta partecipativa dell’imputata esclusivamente dalla presunta consapevolezza della COGNOME circa il significato sotteso ai due squilli che giungevano sull’utenza cellulare formalmente intestata alla stessa e dalla presenza della stessa imputata in casa di Settimio allorché il marito (COGNOME) gli vendeva la droga (il richiamo è a pag. 15 della sentenza di primo grado): circostanze ritenute dal GUP non sufficienti a configurare la colpevolezza della donna al dì di ogni ragionevole dubbio.
Tuttavia, per il ricorrente la Corte d’Appello addiviene ad una nuova ed arbitraria reinterpretazione del contenuto delle emergenze probatorie disponibili, costituite esclusivamente da materiale captativo, senza tuttavia confrontarsi puntualmente con la motivazione attenta e dettagliata fornita invece dal tribunale di primo grado in relazione a ciascuno dei singoli capi d’accusa contestati alla Zheku.
Il ricorso insiste in più punti sulla denuncia alla sentenza impugnata di avere eluso l’obbligo di redigere una motivazione rafforzata così come richiesto da S.U. Troise n. 14800/2017 e, in ultimo, da Sez. 6 n. 9364/2021 e Sez. 6 n. 51898/2019. E su come tale mancanza sia particolarmente censurabile laddove il giudice, omettendo di confrontarsi con la precedente motivazione non dimostri l’effettiva novità, autonomia, indipendenza e la concreta capacità rappresentativa della nuova prova dichiarativa laddove inserita nel precedente contesto
Si ricorda come la giurisprudenza di legittimità abbia costantemente affermato l’illegittimità di quelle pronunce che dichiarino la colpevolezza in luogo di una precedente assoluzione nel caso in cui il giudice del gravame si limiti a ritenere maggiormente persuasiva una lettura del materiale probatorio formatosi integralmente in primo grado che porti a conclusioni difformi con l’esito precedente sotto il profilo del difetto di motivazione.
La Corte d’appello avrebbe dovuto – e si sostiene che non abbia fatto dimostrare l’incompletezza, la non correttezza e l’incoerenza delle argomentazioni poste a fondamento della sentenza di primo grado, compiendo in proposito una penetrante analisi critica, seguita da una completa e convincente dimostrazione che si sovrapponesse in toto a quella del primo giudice, spiegando l’insostenibilità sul piano logico e giuridico degli argomenti più rilevanti della sentenza di primo grado (il richiamo è a Sez. 4 n, 22233/2014).
Il ricorrente sostiene che nel caso in esame il giudice dell’appello si è limitato a sottoporre a una generica critica la decisione, senza in alcun modo censurarne il
metodo e la tenuta argomentativa. In particolare, la valutazione della prova intercettiva sarebbe stata svolta dal giudice di appello a fianco o in sostituzione delle valutazioni ed interpretazioni date dal primo giudice.
Con il secondo motivo il ricorrente lamenta l’erronea interpretazione dell’articolo 11 cod. pen. sulla identificazione del necessario consapevole contributo condizionale alla condotta del terzo, nonché mancanza illogicità e contraddittorietà della motivazione in relazione agli articoli 190, 192, 533, 546 comma 1 lett. e) cod. proc. pen. con riferimento alle singole imputazioni concorsuali per le quali è intervenuta riforma. Anche in questo caso si assume che il giudice dell’impugnazione non si sarebbe attenuto al paradigma argomentativo della cosiddetta motivazione rafforzata anche con riferimento alla valutazione del contenuto delle captazioni poste a fondamento della condanna, in violazione alle regole stesse indicate dalla giurisprudenza costante di questa Corte, incorrendo quindi in grave travisamento della prova.
Ancora una volta il ricorrente si rifà ai dicta di Sez. U. Troise del 2017 e Sez. U,Patalano del 2017, assumendo che, operando un malgoverno degli stessi, il giudice di secondo grado si sarebbe limitato a fornire una versione alternativa del contenuto delle intercettazioni, in relazione a cui l’imputata si sarebbe prestata a fare da tramite tra gli acquirenti e il marito rispetto alle forniture di cocaina c venivano richieste dalla coppia COGNOME mettendo a disposizione il proprio cellulare.
La sentenza di secondo grado non risponderebbe ai criteri della motivazione rafforzata in particolar modo sulla valutazione della valenza del doppio squillo ricevuto sul cellulare in uso all’imputata e sulla presenza di quest’ultima in casa del Settimio in taluno degli episodi di cessione dello stupefacente nonché sulla mancanza dei possibili elementi oggettivi di riscontro rispetto alla sola “droga parlata”.
Ad avviso del ricorrente la motivazione della sentenza impugnata incorre in primis in un vizio di illogicità per violazioni di massime di esperienza o mancanza degli elementi inferenziali da cui poter logicamente o ragionevolmente far discendere una o più conclusioni dalle premesse fornite dalla Corte territoriale nell’articolare la sua motivazione.
Vi sarebbero poi contraddizioni che troverebbero fondamento negli stessi passaggi motivazionali della sentenza, nonché illogicità per vistosi travisamenti della prova.
Il ricorrente si sofferma in particolar modo su!ia motivazione di pagina 38 e 39 del provvedimento impugnato in relazione al contributo concreto che la donna avrebbe prestato all’attività delittuosa del marito, sul rilievo causale della condotta e sulla distinzione tra concorso e connivenza non punibile, con richiamo ad ampia
giurisprudenza di questa Corte (in particolare ai dicta di Sez. 4 n. 4055/2014, Sez. 6 n. 14606/2010, Sez. 4 n. 3924/1998 e Sez. 4 n. 24615/201 . z1)
Ancora, si evidenziano l’illogicità manifesta e il grave travisamento della prova in relazione al contenuto dell’intercettazione ambientale del 25/06/2019 di cui al capo di imputazione 4 che la Corte d’appello utinzza per dimostrare che il ruolo assunto dalla donna non è affatto neutro.
Vengono poi passate in rassegna ulteriori intercettazioni (in particolare quella ambientale del 19 giugno 2019) e si sottolinea come la donna sia non solo ovviamente assente in relazione ai capi 9, 12, e 16 del luglio 2019, allorquando era all’estero, ma risulta pacificamente assente anche in relazione agli episodi di spaccio di cui ai capi 22, 23, 33, 38, 46 e 47. La stessa, pertanto, risulta presente come accompagnatrice del Medjani in soli 7 episodi e non in 11.
Ancora in merito al presunto contributo morale si richiama il dictum di Sez. U n. 45276/2003.
Ci si sofferma poi a confrontarsi criticamente con l’affermazione della Corte d’appello secondo cui non avrebbero alcun valore le dichiarazioni rese dal coimputato COGNOME all’udienza del 5 luglio 2021 tese a scagionare la moglie da ogni responsabilità, dal momento che non corrisponderebbe al vero che la Zreku non comprende o non parla la lingua italiana (“dal momento che dalle intercettazioni ambientali emerge invece l’esatto contrario”). Si richiama in proposito il contenuto delle intercettazioni del 19/06/2019, del 25/06/2019 e del 13/08/2019, da cui, per le poche parole in italiano proferite dalla donna, si comprenderebbe facilmente come la stessa avesse una limitatissima conoscenza della lingua italiana.
Si sostiene che anche sulla portata indiziaria delle risultanze delle intercettazioni la Corte territoriale non offrirebbe una motivazione rafforzata di confronto con la pronuncia assolutoria di primo grado, venendo meno alla regola di giudizio che ritiene la sussistenza del reato al di là di ogni ragionevole dubbio.
Con il terzo motivo si lamenta, sotto il duplice profilo della violazione di legge e del vizio motivazionale, il mancato riconoscimento della fattispecie di lieve entità anche per i capi 19 e 22, soprattutto in ragione del marginalissimo ed estemporaneo comportamento che secondo la stessa motivazione della Corte di appello avrebbe connotato la c:ondotta dell’imputata, con ulteriore violazione del paradigma argomentativo della cosiddetta motivazione rafforzata rispetto alla sentenza di prime cure che anche in relazione a tali capi di imputazione aveva assolto l’imputata.
Si lamenta in particolare che sia stata data preminente rilevanza al dato quantitativo trascurando il ruolo estremamente marginale -2 defilato assunto dall’imputata.
Con il quarto motivo si lamentano erronea interpretazione nell’applicazione nella legge sostanziale nonché mancanza, illogicità e contraddittorietà della motivazione in relazione alla mancata declaratoria di particolare tenuità del fatto ai sensi dell’articolo 131-bis cod. pen. che avrebbe dovuto conseguire all’esito della negata derubricazione del reato di cui ai capi 19 e 22 nella fattispecie di lieve entità di cui al comma 5 dell’articolo 73, non avendo il giudice dell’appello indicato in motivazione alcuna prova dell’abitualità della condotta in capo all’imputata.
La motivazione del provvedimento impugnato sarebbe, altresì, carente in merito alla necessaria valutazione complessiva e congiunta di tutte le peculiarità della fattispecie concreta che tenesse conto del contributo offerto dalla donna (definito “ancillare e accessorio” e subordinato) nonché del grado di colpevolezza grandemente scemato da esse desumibili.
Si lamenta che manchino valutazioni di merito in ordine alle modalità della condotta e al grado di colpevolezza, elementi del tutto estromessi dalla motivazione in esame ,essendosi la Corte d’appello limitata ad apodittiche considerazioni in merito alla presenza della donna nei pressi del coniuge mentre questi cedeva la droga ai coniugi coimputati.
Con il quinto motivo si lamentano mancanza, illogicità e contraddittorietà della motivazione in ordine alla determinazione della pena ai sensi degli articoli 133 e 81 cpv. cod. pen. in relazione anche all’applicazione delle attenuanti generiche sulla pena detentiva )anche con riferimento agli articoli 163 e 175 cod. pen.
Si sostiene che la motivazione della sentenza in esame manchi di congrue argomentazioni giustificative circa la scelta dosimetrica e l’esercizio della discrezionalità operata dal giudice nella quantificazione della pena.
Si critica in particolar modo la motivazione di pagina 63 della sentenza impugnata dove la Corte territoriale ha ritenuto che, pur avendo assunto un ruolo subordinato rispetto a quello del marito, tale ruolo non potrebbe essere ritenuto di minima importanza ai sensi dell’articolo 114 cod. pen.
Si lamenta che nel computo della pena la riduzione sia stata operata solo per la pena base e non anche per le pene ritenute in continuazione.
Tutti i ricorrenti chiedono, pertanto, annullarsi la sentenza impugnata.
3. Il PG presso questa Corte ha anticipato con una memoria in data 25/2/2025 le proprie conclusioni.
Le parti hanno concluso in pubblica udienza come riportato in epigrafe.
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CONSIDERATO IN DIRITTO
I motivi proposti nell’interesse di NOME e di COGNOME sono manifestamente infondati e, pertanto, i relativi ricorsi vanno dichiarati inammissibili.
Le doglianze proposte da NOME sono, invece, infondate e, pertanto, il ricorso proposto nell’interesse della stessa va rigettato.
Nell’interesse di NOME COGNOME come illustrato in premessa, il difensore, con un un co motivo, lamenta vizio di motivazione in relazione all’accoglimento dell’appello proposto dal PM sulla concessione delle circostanze attenuanti generiche (in regime di equivalenza con la recidiva) operata dal giudice di primo grado.
La doglianza proposta sul punto si palesa generica, non correlata ad un percorso logico-argomentativo scevro delle denunciate lacunosità e contraddittorietà, avendo la Corte territoriale affrontato l’elemento asseritamente positivo della “confessione” (valso, in parte, al ricorrente, per il riconoscimento delle circostanze ex art. 62 bis cod. pen. da parte del primo giudice) con criteri valutativi corretti, negando una valorizzazione positiva della stessa per essere stato acquisito il giudizio di responsabilità aliunde, per non avere il primo giudice determinato il proprio convincimento sulla base di dette dichiarazioni confessorie, per non avere ravvisato effettiva resipiscenza (ma intento utilitaristico) in rivelazioni solo parziali e non incondizionate, con censure che la difesa in realtà non collega a vizi logici (in effetti, inesistenti), ma a mere contestazioni di merito sul valore che, a suo dire, il giudice di primo grado avrebbe attribuito alle dichiarazioni di NOME (come piene e attendibili).
Ricorda la Corte territoriale come il giudice di prime cure avesse ritenuto di fondare le circostanze attenuanti generiche riconosciute al Settimio su due argomenti: la confessione e la necessità di adeguare il trattamento sanzionatorio all’effettivo disvalore del fatto.
Ebbene, i giudici del gravame del merito danno atto di condividere il rilievo del PM appellante secondo cui il primo argomento posto alla base del riconoscimento delle attenuanti generiche dal giudice di primo grado è illogico e contraddittorio: il giudice, infatti, nel motivare la responsabilità dell’imputato per ciasc capo, non ha mai fatto alcun riferimento alla confessione, né ad eventuali ammissioni del Settimio, nonostante sia di per sé di solare evidenza che la confessione è, se non la principale, ima delle più importanti prove che il giudice pone a fondamento della condanna.
Questa Corte di legittimità, peraltro, ha in più occasioni chiarito che, a fronte della commissione di un fatto-reato di elevata gravità, non vi è dubbio che l’apporto confessorio può legittimamente fondare il riconoscimento delle circostanze attenuanti generiche, ma a condizione che – ed è questo il tema – lo stesso non sia un “semplice” fattore di agevolazione nella ricostruzione del fatto controverso ma un preciso “indicatore” di riconsiderazione critica del proprio operato e discontinuità con il precedente modus agendi (cfr. ex multis Sez. 1, n. 46432/2019; Sez. 6 n. 11732/2012, Rv 252229; Sez. 6 n. 3018/1991, Rv 186592, Sez. 6 n. 3018/1990, Rv. 186592).
Ancor più significative sono quelle che pronunce secondo cui la confessione giudiziale, quale condotta susseguente al reato, ha una “rilevanza mediata” al fine della concessione delle stesse, ex art. 133, comma 2, n. 3 cod. pen., da ritenersi indicatore utile nei limiti di effettiva incidenza sulla capacità a delinquere e non come mero strumento di semplificazione probatoria (Sez. 2, n. 27547 del 20/06/2019, Barometro, Rv 276108 in una fattispecie in cui la Corte ha ritenuto inammissibile il motivo relativo al mancato riconoscimento d la prevalenza delle circostanze generiche in presenza “di una prova oranitica della responsabilità, riscontrando la strategia meramente speculativa che aveva determinato la confessione). Nel medesimo senso si è altresì stabilito che è legittimo il diniego delle attenuanti generiche motivato con la esplicita valorizzazione negativa dell’ammissione di colpevolezza laddove quest’ultima sia stata dettata non da effettiva resipiscenza, ma da intento utilitaristico (Sez. 1, n. 35703 del 19/07/2017, COGNOME, Rv 271454; Sez. 6 n. 11732 del 28/03/2012, COGNOME, Rv 252229).
Rileva in proposito la Corte territoriale che nel fondare le generiche sulla confessione del COGNOME – indicata dal giudice senza alcuna ulteriore specificazione come elemento valutabile a suo favore rispetto all’intera vicenda – il giudice di primo grado ha richiamato “la piena confessione” resa dal Settimio, alla quale viene attribuito un valore totalizzante ed incondizionato, come tale incidente sull’intero trattamento sanzionatorio, laddove per contro nel corso dell’interrogatorio di garanzia la confessione del Settimio non è stata affatto piena.
Ma-rileva la Corte del merito- il riferimento ad una ‘piena confessione” sottende ad una ammissione incondizionata e soprattutto riferita a tutti gli episodi oggetto di contestazione. Per contro dalla lettura del verbale di interrogatorio ex art. 294 cod. proc. pen. del 27 agosto 2020 emerge che il Settimio, a fronte di una sessantina di episodi ascrittigli, ha in realtà dichiarato di aver acquistato della cocaina dal Mejdani “al massimo una decina di volte”, dichiarazione con la quale vengono posti notevoli limiti alla prospettazione accusatoria, la quale dunque non e stata affatto riconosciuta incondizionatamente dall’imputato
Con motivazione priva di aporie logiche e che risponde pienamente ai criteri richiesti dalla giurisprudenza per modificare in peius una statuizione in appello, la Corte territoriale rileva che l’assenza di una vera e propria confessione “piena” del Settimio, come tale per contro valutata dal giudice di prime cure, rende vieppiù stridente il conseguente riconoscimento delle generiche anche rispetto al principio di diritto richiamato dall’appellante ed enunciato dalla giurisprudenza, secondo la quale in materia di attenuanti generiche, tra gli elementi positivi che possono suggerire la necessità di attenuare la pena irrogata per il reato, rientra la confessione spontanea, potendo, tuttavia, il giudice di merito escluderne la valenza, quando essa sia contrastata da altri specifici elementi di disvalore emergenti dagli atti o si sostanzi nel prendere atto della ineluttabilità probatoria dell’accusa, ovvero sia volta esclusivamente alCutilitaristica attesa della riduzione della pena e la collaborazione giudiziaria o processuale sia comunque probatoriamente inerte o neutra, nel senso che non abbia neppure agevolato il giudizio di responsabilità di coimputati, per essere questi già confessi o per altro plausibile motivo (Sez. 1 n. 42208 del 15/09/2017, Rv 271224).
Pertanto nella presente fat -tispecie il Settimio, oltre a non rendere una, confessione dettagliata, incondizionata ed estesa a tutti gli episodi contestati, ha ammesso genericamente una decina di episodi a fronte della preventiva acquisizione di elementi probatori, costituiti essenzialmente dalle intercettazioni ambientali, che già costituivano prova univoca ed ineludibile della sua colpevolezza.
Tale obiettiva situazione – come rilevano i giudici del gravame del merito non è mai stata esaminata dal giudice di prime cure, il quale ha invece giudicato la confessione degna di apprezzamento, riconoscendole delle virtù smentite da elementi obiettivi.
Coerente con tali premesse e logica appare la conclusione dei giudici di appello sul punto nel senso di ritenere la sentenza di primo grado contraddittoria nel premiare un comportamento processuale il cui valorendkoltanto azzerato dalle prove acquisite, ma finanche implicitamente smentito in altra parte della sentenza in quanto la presunta confessione non ha in alcun modo agevolato l’attività investigativa, non ha consentito l’acquisizione di elementi di prova fino ad allora sconosciuti agli inquirenti, né ha offerto al giudice nuovi elementi di giudizio, posto che, come si è visto, in nessun caso il giudice ha fondato la dichiarazione di colpevolezza del Settimi° – tantomeno quella di altri coimputati – sulla sua presunta confessione.
Né il difensore scardina con il ricorso in esame l’ulteriore presupposto su cui il primo giudice avrebbe fondato le circostanze attenuanti generiche (la necessità
di adeguare in concreto la pena all’entità del fatto) e che la Corte territoriale sminuisce con considerazioni finanche totalmente omesse dal difensore, a riprova della loro logicità, stante la mancata allegazione nel corso del giudizio di primo grado di ragioni che potessero indurre ad una riduzione ulteriore del disvalore del fatto,come già ricondotto nell’ambito della fattispecie di lieve entità di cui all’a 73 co. 5 d.P.R. 309/90.
In particolare, i giudici del gravame del merito sottolineano come l’argomento posto a fondamento della concessione delle generiche dal giudice di primo grado – nella prassi non raramente utilizzato dai giudici di merito per concedere le generiche – costituito dalla necessità di “meglio adeguare il trattamento sanzionato all’effettivo disvalore dei fatto” integra una clausola di stile priva di alcun concre significato.
Nel momento in cui tale clausola non è accompagnata da una puntuale indicazione degli elementi che renderebbero la fattispecie caratterizzata da un minor grado di offensività, come genericamente annunciato, così da meritare la riduzione di pena conseguente al riconoscimento delle generiche ci troviamo di fronte ad una “motivazione apparente”.
Avverso il percorso logico assunto dalla Corte territoriale al riguardo, la difesa del Settimio si limita ad enunciare principi giurisprudenziali accreditati, con doglianza oltremodo aspecifica.
NOME COGNOME propone due motivi di ricorso manifestamente infondati.
3.1. Il primo moti’.o, con cui amenta violazione di legge in relazione all’art. 73, comma 5, d.P.R. 309/90 per mancato riconoscimento dell’ipotesi di lieve entità nelle condotte contestate all’imputato ai capi 19) e 22), non è consentito dalla legge in sede di legittimità perché è riproduttivo di profili di censura già adeguatamente vagliati e disattesi con corretti argomenti giuridici dal giudice di merito e non è scandito da necessaria critica analisi delle argomentazioni poste a base della decisione impugnata
Si tratta di censure generiche, solo astrattamente volte a contestare una non corretta qualificazione giuridica dei fatti, ma indirizzate piuttosto a ribadire le me desime considerazioni già espresse in primo grado nonché ad una mera non condivisione dei parametri adeguatamente utilizzati dalla Corte territoriale a tal fine (il dato ponderale, la tipologia di stupefacente, i stabili contatti con i fornito prospettando, il difenso-e, soltanto come gli indici in questione non rileverebbero sufficientemente per w la valutazione di maggiore offensività dei fatti, denegando sostanzialmente la stessa valenza intrinseca dei medesimi, seppure rientranti n “modalità” della condotta e nella “quantità e qualità” dello stupefacente tratt
Come si legge a pag. 52 della sentenza impugnata, con riferimento ad entrambe le fattispecie, ritiene la Corte territoriale che non sia possibile ricondurre tali episodi nell’ambito dell’art. 73 comma 5 del d.p.r. n. 309 del 1990.
Ciò in quanto, con riferimento al primo episodio si è osservato che già il rilevante dato ponderale – 180 grammi di cocaina – appare eccentrico rispetto alla nozione di lieve entità del fatto; se da un lato è vero che il parametro quantitativo non è l’unico alla stregua del quale valutare la riconducibilità del fatto nell’alveo della fattispecie t astratta poc’anzi richiamata, dall’altro in alcune fattispecie il dato quantitativo assume un valore significativo.
Inoltre, con specifico riferimento agli altri parametri indicati dall’art. comma 5 si deve considerare ;per i giudici di appello,che le due distinte forniture di cui ha beneficiato il COGNOME non sono compatibili con una esclusiva destinazione dello stupefacente alla sola coppia COGNOME
COGNOME. Ed invero viene posto l’accento sul fatto che, nel corso di circa dieci mesi di attività di spaccio monitorata, le consegne di cocaina di 10 o 15 grammi da COGNOME
COGNOME a Settimio-COGNOME ammontano a poco meno di una ventina; se ne deduce che COGNOME aveva verosimilmente dei propri canali autonomi di spaccio, se soltanto nel giro di nove giorni – dal 29 luglio al 7 agosto – egli era riuscito a procurarsi all’incirca 270 grammi di cocaina, ossia un quantitativo già di per solo superiore a quello che egli aveva consegnato in dieci mesi alla coppia COGNOME..
Rilevano per i giudici triestini anche i costanti ed assidui contatti che il COGNOME evidentemente manteneva con il proprio fornitore, desunti dalla rapidità. con cui egli era solito corrispondere alle richieste di cocaina provenienti da Settimio-RizziIn tale prospettiva i quantitativi di stupefacente che COGNOME si era procurato il 29 luglio e il 7 agosto 2019 dimostrano vieppiù che il COGNOME-,come sopra si e evidenziato – aveva stabili contatti e un rapporto di fiducia con soggetti capaci di mettere a sua disposizione apprezzabili quantitativi di cocaina
Inoltre, si dà atto in sentenza con riferimento al parametro qualitativo, sono stati acquisiti elementi di giudizio dalla consulenza svolta sulla partita dalla quale sono stati ricavati i gr. 5,16 sequestrata De Monte Gaia [capo 15). In particolare è emerso che il principio attivo di quella dose era pari a 51,20 °/0, per un quantitativo di cocaina cloridrato pari a grammi 2,432, dal quale potevano ricavarsi 16 dosi medie singole.
La sentenza, pertanto, appare sul punto pienamente conforme al dictum di questa Corte di legittimità secondo cui, in tema di stupefacenti, la fattispecie del fatto di lieve entità di cui all’art. 73, co. 5, d.P.R. n. 309 del 1990 – anche all’es della formulazione normativa introdotta dall’art. 2 del D,L. n. 146 del 2013 (conv. in legge n. 10 del 2014) e della legge 16.5.2014 n. 79 che ha convertito con modificazioni il decreto-legge 20.3.2014 n. 36 – può essere riconosciuta solo nella
ipotesi di minima offensività penale della condotta, desumibile sia dal dato qualitativo e quantitativo, sia dagli altri parametri richiamati espressamente dalla disposizione (mezzi, modalità e circostanze dell’azione), con una valutazione che deve essere complessiva, ma al cui esito è possibile che uno degli indici previsti dalla legge risulti negativamente assorbente, ogni altra considerazione restando priva di incidenza sul giudizio (così Sez. U. n. 51063 del 27/09/2018, COGNOME, Rv. 274076 che, a pag. 14 della motivazione, ricordano che rimangono pertanto attuali i principi affermati nei precedenti arresti delle Sez. U, n. 35737 del 24/06/2010, Rico, Rv. 247911 e Sez. U, n. 17 del 21/06/2000, Primavera, Rv. 216668 cfr. anche ex multis, Sez. 3, n. 23945 del 29/4/2015, COGNOME, Rv. 263551, nel giudicare un caso in cui è stata ritenuta legittima l’esclusione dell’attenuante in esame per la protrazione nel tempo dell’attività di spaccio, per i quantitativi di droga acquistati e ceduti, per il possesso della strumentazione necessaria per il confezionamento delle dosi e per l’elevato numero di clienti; conf. Sez. 3, 32695 del 27/03/2015, Genco, Rv 264491, in cui la Corte ha ritenuto ostativo al riconoscimento dell’attenuante la diversità qualitativa delle sostanze detenute per la vendita, indicativa dell’attitudine della condotta a rivolgersi ad un cospicuo e variegato numero di consumatori).
Va anche evidenziato che, seppure è stata in talune occasioni riconosciuta la forma lieve del reato contestato in casi in cui la quantità di sostanza stupefacente rinvenuta è stata superiore rispetto a quella del caso qui in esame, la più recente giurisprudenza di legittimità ha condivisibilmente chiarito il principio secondo cui in tema di stupefacenti, la qualificazione del fatto ai sensi dell’art. 73, comma 5, d.P.R. 9 ottobre 1990, n. 309, non può effettuarsi in base al solo dato quantitativo, risultante dalla ricognizione statistica su un campione di sentenze che hanno riconosciuto la minore gravità del fatto, posto che, ccrne da sempre detto, per l’accertamento della stessa, è necessario fare riferimento all’apprezzamento complessivo degli indici richiamati dalla norma (Sez. 3, n. 12551 del 14/02/2023, Rv. 284319 – 01).
3.2. Il secondo motivo, volto a censurare l’esclusione delle circostanze attenuanti generiche a seguito dell’appello del PM, propone le medesime considerazioni del coimputato, a cui pare sufficiente opporre le stesse risposte di manifesta infondatezza, con l’unica precisazione per cui il disvalore del fatto è già stato valutato in termini minimali per tutti i capi di incolpazione, ad eccezione dei capi 19) e 22), inquadrati nella fattispecie di cui all’art. 73 co. 1 d.P.R. 309/90.
Anche per tale imputato, con motivazione logica e congrua oltre che corretta in punto di diritto – e che, pertanto, si sottrae alle proposte censure di legittimità – la Corte sottopone a dura critica la sentenza di DriMO grado che anche rispetto al COGNOME ha fondato il riconoscimento delle circostanze attenuanti generiche da
parte del giudice di primo grado sulla necessità di “meglio adeguare la pena all’effettivo disvalore dei fatti”, nonché in ragione della “piena confessione” resa dall’imputato.
Per la Corte territoriale la necessità di “meglio adeguare il trattamento sanzionato all’effettivo disvalore del fatto” – integra una clausola di stile priva d alcun concreto significato. Si tratta in altri termini di una “motivazione apparente”, come tale riconducibile nell’art. 606 lett. e) cod. proc. pen. dal momento che tale clausola non è accompagnata da una puntuale indicazione degli elementi di fatto che renderebbero l’illecito penale commesso dall’imputato come caratterizzato da un minor grado di offensività.
Non avendo il giudice di prime cure specificato in che cosa concretamente consiste la presunta minore offensività della complessiva condotta posta in essere dal COGNOME, l’utilizzo della citata clausola di stile, secondo la corretta opzione ermeneutica dei giudici triestini « si risolve o in una locuzione ellittica che sottende alla presenza di un qualche elemento di fatto favorevole al reo, dato per esistente, ma rimasto inespresso, ed allora, la motivazione con la quale si riconoscono le generiche è di fatto inesistente, ovvero, la concessione delle attenuanti generiche è lo strumento utilizzato dal giudice quando questi ritiene che la pena prevista dalla norma incriminatrice per il reato commesso, quand’anche applicata nel suo minimo edittale, sia eccessiva e come tale da necessariamente da ridurre con i escamotage del riconoscimento delle attenuanti generiche; in tal caso la concessione delle generiche «si risolve in una violazione di legge(quanto elusiva delle prescrizioni imposte dalla norma incriminatrice con riferimento alle valutazioni compiute dai legislatore circa il disvalore che deve riconoscersi al reato commesso. Del resto, qualora il giudice ritenga eccessiva la pena edittale in relazione alla concreta ed effettivo disvalore del fatto valutato in relazione alla natura dei beni e degli interessi in gioco, deve sollevare questione di legittimità costituzionale, strumento del resto in passato utilizzato con successo in alcuni casi piuttosto noti (si pensi ad esempio alla pena prevista dall’originario delitto di oltraggio dell’art. 341 c.p., dichiarata incostituzionale nel suo limite minimo edittale di sei mesi invece che di quindici giorni dalla Corte costituzionale (il richiamo è alla sentenza della Corte costituzionale n. :341 del 1994)» (pag. 55 della sentenza impugnata). Corte di Cassazione – copia non ufficiale
Del resto, ad ulteriore riprova del fatto che la clausola utilizzata integra la violazione di legge sotto la specie della mancanza <P motivazione, sta per i giudici di appello la considerazione che chi volesse contestare nel merito tale motivazione sarebbe impossibilità a farlo, essendo impossibile individuare un qualche elemento di fatto, sul quale sia fendata. la concessione stessa delle generiche, la cui sussistenza possa essere verificata sulla base delle prove acquisite e dunque messa in
discussione dalla parte processuale che ha interesse a contestare il riconoscime di dette attenuanti.
Ciò premesso, ed accertata dunque l'assenza di motivazione, nel merito l generiche concesse sulla base di una presunta minore offensività della condot dell'imputato non trovano perciò alcun riscontro negli atti processuali
Sul punto i giudici del gravame del merito dichiarano di condividere i rili del p.m. appellante che ha censurato il giudice di primo grado, in quanto, al di un generico richiamo all'art. 133 cod. pen., non ha in realtà spiegato per specifica ragione il disvalore della quasi totalità degli episodi – eccezion fa quelli di cui ai capi 19) e 22) – non sia già ricompreso nella qualificazione giu degli stessi ex art 73 comma 5 del dprn 309 del 1990: in altre parole il giudice non ha indicato quali ulteriori elementi di fatto – diversi da quelli che hanno sentito di ricondurre i singoli episodi nell'ambito della fattispecie da richiamata – sono stati valorizzati,; per ritenere quegli stessi episodi vieppiù di minore offensività.
Al riguardo osserva la Corte territoriale che non soltanto tali ulteriori ele non sussistono, ma ne emergono altri di segno contrario che il tribunale non valutato. In particolare il giudice di primo grado non ha considerato che il Mej è stato condannato anche per due fattispecie di ben maggiore gravità; né il giud ha tenuto conto che la disponibilità dei più elevati quantitativi di stupefacen uno con la capacità dell'imputato di soddisfare in tempo reale le richieste Settimio, sono univoco indizio di una abituale e costante disponibilit i n . , 1 stupefacente nonch 'inserimento dell'imputato in un circuito criminoso che g consentiva di avere a disposizione anche significative partite di stupefacente le quali per certo quelle di cui ai capi 19) e 22) – confidando sulla capaci COGNOME di cederla in tempi rapidi.
Quanto poi alla scelta confessoria, ancor più logicamente ne viene svilita valenza favorevole in ragione della sua inevitabilità per potere scagionare la mo NOME come in effetti avvenuto con dichiarazioni ritenute fuorvianti merito e smentite dalle prove acquisite.
Sebbene la confessione del COGNOME sia stata talvolta richiamata dal giudice prime cure nel motivare. sulla responsabilità dell'imputato, l'argomento svolto G.u.p. circa l'asserito minor grado di offensività riconosciuto alle dichiar scritte provenienti dall'imputato, risulta per i giudici di appello illogico ex art. 606 lett. e) cod. proc. per in quanto il giudice, nel motivare le generich confessione del COGNOME, non soltanto ha attribuito valenza processuale a confessione valutandola alla stregua di elemento significativo ai fini eu-iro dichiarazione di colpevolezza dell'imputato, ma non ha tenutàdflTha pluralità
fatti di segno contrario che privano di qualsiasi valore la presunta confessione resa dall'imputato.
In particolare, quanto al valore obiettivo di tali dichiarazioni, viene segnalato in sentenza innanzitutto . il fatto che le prove assunte nel corso delle indagini – e segnatamente le intercettazioni ambientali e telefoniche e le operazioni di o.c.p. compiute dalla p.g. – erano già di per sé idonee a fondare senza alcuna incertezza la dichiarazione di colpevolezza dell'imputato, che ammettendo la propria responsabilità non ha fornito alcun ulteriore contributo utile alla decisione di merito, tantomeno allo svolgimento delle indagini e di ciò vi è riscontro anche con riferimento alla scelta del momento – l'udienza preliminare – in cui il COGNOME ha reso quelle sintetiche dichiarazioni. Del resto, dalla lettura della motivazione si desume che soltanto per comodità espositiva il giudice di prime cure ha richiamato la confessione del COGNOME. Le dichiarazioni rese dall'imputato sono infatti del tutto generiche e prive di qualsiasi specifico contenuto anche con riferimento alla provenienza dello stupefacente, alla sua qualità e al suo valore di mercato, all'eventuale presenza di altri canali di vendita, alla individuazione dei soggetti che rifornivano il Mejdani. L'imputato non ha dunque offerto al giudice alcun nuovo e/o significativo elemento di giudizio capace di ampliare l'attività investigativa, dimostrando concretamente se non spontanea resipiscenza, quantomeno Met-% la volontà di interrompere i rapporti con il mondo dello spaccio, evidente essendo che se egli avesse reso le informazioni poc'anzi esemplificativamente indicate, sarebbe stato allontanato da quella realtà.
Ricorda la Corte territoriale come pur a fronte dell'ammissione di responsabilità dell'imputato, il giudice di merito può escluderne il valore, quando essa sia contrastata da altri specifici elementi di disvalore emergenti dagli atti o si sostanzi nel prendere atto della ineluttabilità probatoria dell'accusa, ovvero sia volta esclusivamente all'utilitaristica attesa della riduzione della pena e la collaborazione giudiziaria o processuale sia comunque probatoriamente inerte o neutra, nel senso che non abbia neppure agevolato il giudizio di responsabilità di coimputati, per essere questi già confessi o per aPero plausibile motivo (Sez. 2 n. 42208/2017, Rv 271224). Dunque il giudice ,nel motivare la concessione delle generiche)ha l'onere di illustrare le ragioni per le quali dette attenuanti vengono riconosciute nonostante l'esistenza di significativi elementi di segno contrario, elementi di particolare rilevanza nel caso di specie con il quali il giudice di primo grado non si è confrontato.
Pertanto, per i giudici di appello in tale prospettiva la pronuncia da ultimo citata coglie nel segno laddove implicitamente prevede che il giudice, nel prendere atto della confessione dell'imputato, al fine di valorizzarne i positivi effetti co riferimento alla concreta offensività della condotta, deve tuttavia bilanciarla con
altri elementi eventualmente emergenti dagli atti processuali, quali quelli indicati, ossia "l'ineluttabilità probatoria dell'accusa", ovvero la "mera prospettiva utilitaristica" di beneficiare di uno sconto di pena.
La logica conclusione è che )anche per tale parte della motivazione,- che fonda il riconoscimento delle generiche sulla confessione dell'imputato – essa risulta per i giudici di appello in contraddizione logica con i suddetti elementi di fatto pretermessi dal giudice di primo grado – i quali privano la dichiarazione confessoria di quel positivo valore processuale che, nella prospettiva assunta dal giudice, dovrebbe costituire il fondamento stesso delle generiche.
Del resto, per i giudici triestini, come correttamente ha rilevato il p.m. appellante, nel caso di -,pecie la ;.reale finalità perseguita dall'imputato era quella di scagionare la moglie NOMECOGNOME di talché l'ammissione di responsabilità proveniente dal COGNOME non è nemmeno valorizzabile quale indizio di un sincero ravvedimento da parte dell'imputato stesso, essendo la stessa una mera operazione processuale finagzata ad escludere la moglie da una possibile condanna..
Di talché, a parere della Corte territoriale nemmeno in quest'ultima prospettiva la confessione è utilmente valorizzabile, dal momento che nel tentativo di "salvare" la Zheku, il COGNOME ha reso dichiarazioni fuorvianti, smentite dalle prove acquisite che hanno per contro dimostrato il pieno coinvolgimento della Zhekù nell'attività di spaccio del marito.
In premessa, in relazione alie doglianze proposte nell'interesse di NOME COGNOME e alla denunzia di violazione dell'art 192 cod. proc. pen. va ricordato che, secondo il consolidato insegnamento di questa Corte di legittimità, la mancata osservanza di una norma processuale ha rilevanza solo in quanto sia stabilita a pena di nullità, inutilizzabilità, inammissibilità.
Le Sezioni Unite hanno recentemente chiarito che in tema di ricorso per cassazione, è inammissibile il motivo con cui si deduca la violazione dell'art. 192 cod. proc. pen., anche se in relazione agli artt. 125 e 546, comma 1, lett. e), stesso codice, per censurare l'omessa o erronea valutazione degli elementi di prova acquisiti o acquisibili, in quanto i limiti all'ammissibilità delle doglianze connesse al motivazione, fissati specificamente dall'art. 606, comma 1, lett. e), cod. proc. pen., non possono essere superati ricorrendo al motivo di cui alla lettera c) della medesima disposizione, nella parte in cui conserte di dolersi dell'inosservanza delle norme processuali stabilite a pena di nullità (Sez. U, n. 29541 del 16/07/2020, COGNOME, R4. 280027 – 04 che a pag. 29 richiama Sez. 1, n. 1088 del 26/11/1998, dep. 1999, Condello, Rv. 212248; Sez. 6, n. 45249 del 08/11/2012, COGNOME, Rv. 254274; Sez. 2, n. 38676 del 24/05/2019, COGNOME, Rv. 277518; vedasi anche Sez. 6, n. 4119 del 30/05/2019, dep. 2020, RAGIONE_SOCIALE, Rv.
278196; Sez. 4, n. 51525 del 4/10/2018, M., Rv. 274191; Sez. 1, n. 42207 del 20/10/2016, dep. 2017, COGNOME e altro, Rv. 271294; Sez. 3, n. 44901 del 17/10/2012, F., Rv. 253567; Sez. 6, n. 7336 del 8/1/2004, Meta ed altro, Rv. 229159-01; Sez. 1, n. 9392 del 21/05/1993, COGNOME, Rv. 195306).
Condivisibilmente, per Sez. U, n. 29541 del 16/7/2020, NOME Rv. 280027 (pag. 29) « la specificità del motivo di cui all'art. 506, comma 1, lett. e), dettat in tema di ricorso per cassazione al fine di definirne l'ammissibilità per ragioni connesse alla motivazione, esclude che l'ambito della predetta disposizione possa essere dilatato per effetto delle citate regole processuali concernenti la motivazione, utilizzando la "violazione di legge" di cui all'art. 606, comma 1, lett. c), ciò sia perché la deducibilità per cassazione è ammissibile solo per la violazione di norme processuali "stabilite a pena di nullità, inutilizzabilità, inammissibilità o decadenza", sia perché la puntuale indicazione di cui alla lettera e) ricollega a tale limite ogni vizio motivazionale. D'altro canto, la riconduzione dei vizi di motivazione alla categoria di cui alla lettera c) stravolgerebbe l'assetto normativo delle modalità di deduzione dei predetti vizi, che limita la deduzione ai vizi risultanti "dal testo del provvedimento impugnato ovvero da altri atti del processo specificamente indicati nei motivi di gravarne" , laddove, ove se fossero deducibili quali vizi processuali ai sensi della lettera c), in relazione ad essi questa Corte di legittimità sarebbe gravata da un onere non selettivo di accesso agli atti. Queste Sezioni Unite (Sez. U, n. 42792 del 31/10/2001, Policastro, Rv. 220092) hanno, infatti, da tempo chiarito che, nei casi in cui sia dedotto, mediante ricorso per cassazione, ai sensi dell'art. 606, comma 1, lett. c), cod. proc. pen., un error in procedendo, la Corte di cassazione è giudice anche del fatto e, per risolvere la relativa questione, può procedere all'esame diretto degli atti processuali, che resta, al contrario, precluso dal riferimento al testo del provvedimento impugnato contenuto nella lett. e) del citato articolo (oltre che dal normativamente sopravvenuto riferimento ad altri atti del processo specificamente indicati nei motivi di gravame), quando risulti denunziata la mancanza o la manifesta illogicità della motivazione». Corte di Cassazione – copia non ufficiale
4.1. Venendo al merito delle doglianze su cui fonda la propria impugnazione la difesa di NOME COGNOME il coinvolgimento della stessa nella presente vicenda nasce dal fatto che costei accompagnava il marito, NOME COGNOME quando costui si recava dal Settimio per consegnargli la droga; a lei inoltre era intestata l'utenza cellulare utilizzata per la ricezione del messaggio criptico inviato dalla coppia COGNOME per segnalare la necessità di essere riforniti di droga.
Il giudice di prime grado, pur avendo ritenuto che la Zheku fosse consapevole dell'attività illecita svolta dal marito e del reale motivo delle frequenti visite quest'ultimo, ha ritenuto che la predetta imputata non avesse dato alcun
contributo penalmente rilevante alle condotte di spaccio del COGNOME. In sostanza l'atteggiamento della donna si sarebbe risolto in una mera connivenza, di talché la di lei condotta sarebbe stata priva dei requisiti per essere ritenuta penalmente rilevante quale contributo – morale e/o materiale – ai fini dell'applicazione dell'art 110 cod. proc. pen..
Per contro la tesi della pubblica accusa nella descrizione dei singoli episodi, accolta in sede di appello, è che tutti e quattro gli imputati, compresa la Zheku, abbiano partecipato all'attività illecita.
4.2. Filo conduttore dei motivi di ricorso è il rilievo difensivo – che, come si dirà, si rivela infondato – che manchi nel provvedimento impugnato una "motivazione rafforzata".
Costituisce, infatti, ius receptum a far tempo dalla pronuncia delle Sezioni Unite Mannino del 2005 che, in tema di motivazione della sentenza, il giudice di appello che riformi totalmente la decisione di primo grado ha l'obbligo di delineare le linee portanti del proprio, alternativo, ragionamento probatorio e di confutare specificamente i più rilevanti argomenti della motivazione della prima sentenza, dando conto delle ragioni della relativa incompletezza o incoerenza, tali da giustificare la riforma del provvedimento impugnato (Sez. U, n. 33748 del 12/7/2005, COGNOME, Rv. 231679).
Tutta la giurisprudenza successiva di questa Corte di legittimità si è poi collocata nel solco tracciato dalle Sezioni Unite Mannino.
Così, pur affermando che in tema di impugnazioni, il giudice di appello è libero, nella formazione del suo convincimento, di attribuire alle acquisizioni probatorie il significato e il peso ritenuti giusti e rilevanti ai fini della decisione, solo obbligo di spiegare con motivazione immune da vizi le ragioni del suo convincimento, obbligo che, nell'ipotesi di decisione difforme da quella assunta dal giudice di primo grado, impone anche l'adeguata confutazione delle ragioni poste alla base della sentenza rif3rmata (Sez. 4, n. 28583 del 9/6/2005 Baia Rv. 232441) ha ribadito che la sentenza di appello di riforma totale del giudizio assolutorio di primo grado deve confutare specificamente, pena altrimenti il vizio di motivazione, le ragioni poste dal primo giudice a sostegno della decisione assolutoria, dimostrando puntualmente l'insostenibilità sul piano logico e giuridico degli argomenti più rilevanti della sentenza di primo grado, anche avuto riguardo ai contributi eventualmente offerti dalla difesa nel giudizio di appello, e deve quindi corredarsi di una motivazione che, sovrapponendosi pienamente a quella della decisione riformata, dia ragione delle scelte operate e della maggiore considerazione accordata ad elementi di p; ova diversi o diversamente valutati (Sez. 6, n. 6221 del 20/4/2005, dep. 2006, COGNOME, Rv. 233083). E, ancora, si è affermato che, in tema
di motivazione della sentenza ; il giudice di appello che riformi la sentenza impugnata ha il dovere di indicazione specifica delle ragioni giustificative della decisione, specie nel caso in cui valuti diversamente il materiale istruttorio rimasto inalterato non potendosi limitare alla citazione formale delle fonti di prova (Sez. 2, n. 746 del 11/11/2005, dep. 2006, Vagge, Rv. 232986) E che la sentenza di appello, che riforma integralmente la sentenza assolutoria di primo grado, deve confutare specificamente, per non incorrere nel vizio di motivazione, le ragioni poste a sostegno della decisione riformata, dimostrando puntualmente l'insostenibilità sul piano logico e giuridico degli argomenti più rilevanti ivi contenuti anche avuto riguardo ai contributi eventualmente offerti dalla difesa nel giudizio di appello, e deve quindi corredarsi di una motivazione che, sovrapponendosi pienamente a quella della decisione riformata, dia ragione delle scelte operate e della maggiore considerazione accordata ad elementi di prova diversi o diversamente valutati (Sez. 5, n. 42033 del 17/10/2008, COGNOME, Rv. 242330; conf. Sez. 5, n. 8361 del 17/01/2013, COGNOME Rv. 254638 che ha posto l'accento sulla necessità per il giudice di appello di confutare specificamente i più rilevanti argomenti della motivazione della prima sentenza, dando conto delle ragioni della relativa incompletezza o incoerenza, non potendo, invece, limitarsi ad imporre la propria valutazione del compendio probatorio perché preferibile a quella coltivata nel provvedimento impugnato; Sez. 6, n. 46742 del 8/10/2013, COGNOME, Rv. 257332; Sez. 6, n. 1253 del 28/11/2013, dep. 2014, Rv. 258005 che ha ulteriormente chiarito che il giudice di appello non può limitarsi ad inserire nella struttura argomentativa della decisione impugnata, genericamente richiamata, delle notazioni critiche di dissenso, essendo, invece, necessario che egli riesamini, sia pure in sintesi, il materiale probatorio vagliato dal primo giudice, considerando quello eventualmente sfuggito alla sua valutazione e quello ulteriormente acquisito per dare, riguardo alle parti della prima sentenza non condivise, una nuova e compiuta struttura motivazionale che dia ragione delle difformi conclusioni; Sez. 6, n. 39911 del 4/6/2014, COGNOME, Rv. 261589; Sez. 2, n. 50643 del 18/11/2014, Fu, Rv. 261327; Sez. 6, n. 10130 del 20/1/2015, COGNOME, Rv. 262907; Sez. 3, n. 6880 del 26/10/2016, dep. 2017, D.L., Rv. 269523). Corte di Cassazione – copia non ufficiale
Fino ad arrivare alle recenti Sez. 4, n. 14586/2021 e Sez. 4, n. 23594/2020, che hanno ribadito che quando il giudice dell'appello riforma la pronuncia assolutoria del primo grado di giudizio, viene richiesta l'adozione di una "motivazione rafforzata", che consiste nella precisa e completa indicazione delle ragioni per cui una determinata prova assume una valenza dimostrativa completamente diversa rispetto a quella ritenuta dal giudice di primo grado. In altri termini, la sentenza di seconde cure deve risultare munita di un apparato giustificativo che dia conto degli specifici passaggi ogici relativi alla disamina delle questioni controverse, in
modo da conferire alla decisione una forza persuasiva tale da superare il corollario dell'oltre ogni ragionevole dubbio.
4.3. Orbene, nel caso in esame la Corte territoriale ha fatto buon governo di tali principi, non limitandosi (cfr. pagg. 37 e ss. della sentenza impugnata) ad offrire una diversa lettura del materiale istruttorio, ma fornendo una specifica indicazione delle evidenze probatorie ritenute decisive a sovvertire la sentenza di primo grado, con una precisa e specifica indicazione delle ragioni che hanno condotto ad un differente apprezzamento del compendio probatorio formatosi nel giudizio di prime cure.
I giudici del gravarne del merito, in altri termini, hanno delineato nel provvedimento impugnato le linee portanti del proprio diverso ragionamento sul materiale probatorio e, per altro verso, hanno confutato specificamente gli argomenti della motivazione della decisione di primo grado dando conto in maniera compiuta delle ragioni che hanno determinato la riforma del provvedimento impugnato e della insostenibilità sul piano logico e giuridico degli argomenti più rilevanti i contenuti.
Come ricorda la sentenza impugnata, il principale elemento d'accusa è costituito proprio dal fatto che la COGNOME si era prestata a fare da tramite tra gl acquirenti e il marito rispetto alle forniture di cocaina che venivano richieste dalla coppia COGNOME mettendo a disposizione il proprio cellulare con l'evidente scopo di evitare che gli ordini provenienti dalla coppia predetta giungessero sul cellulare del marito, che avrebbe potuto essere intercettato. Del resto, analoga finalità era stata perseguita anche con lo stratagemma di far partire i messaggi criptici dal telefono cellulare della COGNOME invece di farli partire da quello del Settimi
Si dà anche atto che dalla lettura degli atti di indagine – ed ancora una volta in particolare dalle intercettazioni delle conversazioni captate nel corso dell'attività investigativa – si deve escludere che il cellulare intestato alla COGNOME fosse in realtà in esclusivo uso al marito e che di conseguenza la donna fosse inconsapevole dell'esistenza stessa degli squilli, del loro significato e dell'attività svolta marito. Del resto che la donna sapesse bene che le ioro visite erano finalizzate alla consegna della cocaina alla coppia NOMECOGNOME emerge dal fatto che essa era presente nell'abitazione della coppia quando la cocaina veniva poi colà ceduta agli acquirenti.
Peraltro ritiene la Corte che la presenza della Zheku non possa essere ricondotta nel paradigma della connivenza, dal momento che un contributo rilevante ex art. 110 ccd. proc. pen. all'attività di cessione – per quanto essa sia stata svolta principalmente dal marito – da costei è stato indubbiamente
Ed invero che la COGNOME stessa avesse in uso il proprio cellulare e fosse dunque perfettamente a conoscenza del significato del doppio squillo proveniente dal
telefono della COGNOME, risulta inequivocabilmente dal fatto che ad un certo momento, quando la Zheku deve allontanarsi dal territorio nazionale a luglio del 2019, il "dialogo" tra acquirenti e venditori si imbatte in gravi difficoltà, dal momento che in quell'arco di tempo non è praticabile lo strumento del messaggio criptico del doppio squillo. E alle pagg. 38-39 si dà conto di come i sodali si organizzino per far fronte alla temporanea assenza della donna.
Secondo la logica motivazione del provvedimento impugnato già l'attiva partecipazione della Zheku all'accordo intervenuto tra i principali protagonisti dell'attività illecita per organizzarsi su come fronteggiare la sua assenza ,sarebbe sufficiente a dimostrare che il ruolo assunto dalla donna non è affatto neutro, ma (elemento positivamente valutabile nell'organizzazione dell'attività di spaccio del marito. Invero la donna dà il proprio univoco ed esplicito consenso al fatto che pure durante la sua assenza dall'Italia essa provvederà a fornire il proprio contributo "come sempre", ossia mettendo al corrente il marito dell'arrivo del segnale convenuto quando sorge iE necessità di portare la cocaina presso l'abitazione dei coniugi COGNOME
L'azione della donna, come si legge in sentenza, oltre a costituire un contributo materiale allo svolgimento dell'attività di spaccio del marito mediante la sua funzione di "ponte" tra gli acquirenti e il marito stesso, integra anche un contributo di ordine morale all'attività criminosa. Dovendosi in tal senso considerare, invero?, il valore che assume nella vicenda il fatto che il COGNOME non intende fornire 'al Settimio il numero della propria utenza cellulare nemmeno in occasione dell'assenza della moglie, temendo evidentemente che il proprio cellulare possa essere intercettato; o più semplicemente per evitare, laddove la coppia COGNOMECOGNOME fosse stata scoperta, che l'analisi dei tabulati dei telefoni in uso alla coppia consentisse di scoprire l'esistenza dei contatti tra i celiulari in loro uso ed il suo te fono.
Le difficoltà che incontra la coppia COGNOME–COGNOME a contattare COGNOME quando la moglie è all'estero (cfr. pag. 40) dimostrano per i giudici di appello che la partecipazione della Zheku costituisce in realtà condicio sine qua non del contatto tra fornitore ed acquirenti: senza il determinante contributo della Zheku, COGNOME e COGNOME non sono in grado di contattare il COGNOME al fine di fargli sapere che necessitano di essere riforniti di stupefacente.
Motivatamente la Corte triestina ritiene non condivisibile la motivazione posta a fondamento della dichiarazione assolutoria della COGNOME dal Gup (pag. 20 della sentenza di primo grado) secondo cui «. . .per quanto concerne. ..la COGNOME, t'utilizzo dei suo cellulare per i due squilli e la sua presenza in casa di Settimi allorché il marito gli vende la droga, non sono sufficienti; potrebbe aver accompagnato COGNOME senza avere alcun ruolo nella trattativa e nella successiva
cessione. E potrebbe aver lasciato il suo cellulare in uso al marito, senza per questo potersi ritenere correa nei traffici di quest'ultimo…».
Il ragionamento svolto – si evidenzia logicamente- non tiene conto di quanto emerso nel corso delle indagini ed in particolare del fatto che senza il cellulare della COGNOME, NOME e COGNOME vanno incontro a notevoli difficoltà nel contattare COGNOME per chiedergli la consueta fornitùra di stupefacente.
Per i giudici di appello non è condivisibile quanto prospettato dal giudice di prime cure quando questi afferma che la COGNOME potrebbe aver lasciato il proprio cellulare in uso al marito senza sapere nulla del traffico di stupefacente. Invero una tale soluzione sarebbe ipotizzabile soltanto se il COGNOME si recasse da solo nell'abitazione di Settimio-Rizzi, dal momento che l'assenza della COGNOME non consentirebbe di affermare la sua consapevolezza dell'attività di cessione di droga del marito e, soprattutto, non consentirebbe di escludere che questi potrebbe in effetti essersi impossessato del cellulare della moglie per ricevere il segnalt convenuto. Per contro accade invece che la COGNOME in molti casi accompagna il marito presso l'abitazione degli acquirenti ed è presente nell'abitazione anche quando COGNOME e NOME trattano lo stupefacente che viene poi consegnato ai coimputati. Inoltre si dà conto in sentenza della conversazione intercettata nel corso della quale la COGNOME, con il suo esplicito "come sempre" dimostra non soltanto la piena consapevolezza della COGNOME dell'attività di spaccio del marito, che è logicamente ritenuta indizio univoco dal quale si desume che: a la COGNOME mantiene la disponibilità del proprio cellulare; b. riceve lei stessa il segnale convenuto del cui significato è perfettamente consapevole. Pertanto l'ipotesi formulata dal giudice di prime cure è in evidente antitesi con gli elementi di prova testé enunciati.
I giudici di appello ricordano, peraltro, che anche il G.i.p. in sede di applicazione della misura cautelare ha condiviso l'impostazione seguita dalla Corte, ritenendo sussistente un grave quadro indiziario ex art. 273 cod. proc. pen. nei confronti della Zheku, tanto da emettere nei suoi confronti la misura degli arresti domiciliari. E che un ulteriore elemento a carico della donna – che dimostra in termini univoci la sua consapevolezza del motivo delle numerose visite del marito – è costituito dalla conversazione ambientale del 19 giugno, dalla quale si evince che l'imputata aderisce all'attività di spaccic del COGNOME. Invero, nel corso della visita ai coniugi COGNOME, anche la COGNOME partecipa attivamente alla trattativa~ mentr2 i due uomini stanno discutendo l'affare e COGNOME propone al COGNOME di acquistare "venti", chiaro invito al Settimi° ad acquistare 20 grammi di cocaina, la COGNOME incalza l'acquirente, che tentenna, dicendogli " no no, prendi prendi" e ciò all'evidente fine di concludere un migliore affare mediante la cessione di un maggior quantitativo di stupefacente.
Tranne che in alcuni episodi, almeno fino al mese di dicembre 2019 evidenziano i giudici di appello – la COGNOME é sempre presente e partecipa insieme con il marito alla consegna della cocaina agli acquirenti.
Ancora, la Corte territoriale dà motivatamente atto di condividere la tesi del PM appellante, secondo cui ulteriore indizio del rilevante valore della partecipazione dell'imputata viene dalla presenza costante della Zheku riconducibile anche al materiale trasporto della partita di cocaina da consegnare, in quanto una coppia senza alcun precedente in materia di stupefacente desta pochissimi sospetti nelle forze dell'ordine. Perciò, oltre ad essere incontrovertibile la costante presenza dell'imputata nelle visite fatte dal marito alla coppia dei coimputati, appare logicamente ritenuto chiaro il significato della partecipazione della donna nei termini poc'anzi indicati, costituito dal fatto che, la presenza di una donna – meglio ancora se la propria moglie – rendeva meno sospette le frequenti visite del Mejdani alla coppia COGNOME.
In sentenza si rimarca il dato che la COGNOME era consapevole del moth.P9idelle visite del marito e, di conseguenza, a tutto voler concedere, non poteva non essere consapevole che la sua presenza serviva al marito per distogliere da lui eventuali sospetti. Del resto proprio la consapevolezza del significato del proprio ruolo assunto per tutelare il COGNOME – aveva per i giudici di appello evidentemente indotto la COGNOME a farsi anche carico della ricezione dei messaggi con i quali NOME e COGNOME periodicamente chiedevano la fornitura della cocaina. In altri termini se la COGNOME consapevole che il marito, ad ogni visita fatta alla coppia COGNOME, consegna loro dello stupefacente, costei non può nel contempo non rendersi conto che l'invio sul proprio Lellulare del segnale convenuto è strumentale a tenere indenne il marito da possibili attività di intercettazione. Tale compito attribuito all COGNOME è dunque perfettamente coerente con l'intento, perseguito dal Mejdani e di cui si è detto poco sopra, di tenere nascosto il numero della propria utenza cellulare.
In considerazione del contenuto delle conversazioni poc'anzi citate, insieme con la costante presenza della COGNOME agli incontri tra il di lei marito e la coppia COGNOME, risulta chiaro che il messaggio criptico, costituito dagli squilli invi al cellulare dell'imputata, assume una significativa valenza probatoria nel renderla complice ex art. 110 cod. pen. dell'attività di spaccio organizzata dal marito.
La Corte territoriale, inoltre, si è confrontata criticamente anche con la tesi difensiva – riproposta tout court in questa sede – che si fonda sulle dichiarazioni rese dal COGNOME all'udienza del 5 luglio 2021 )tese a scagionare la moglie da ogni responsabilità, assumendo che la COGNOME non è in grado di capire e parlare la lingua italiana.
Con motivazione priva di aporie logiche, la Corte del merito rileva che non corrisponde al vero che la Zheku non comprende e non parla la lingua italiana, dal momento che dalle intercettazioni ambientali emerge invece l'esatto contrario; vero è che talvolta l'impiotata, dovendo esprimersi con frasi più complesse, preferisce esprimersi in lingua inglese, come accade durante l'incontro del 27 agosto 2019. Tuttavia la prova della sua comprensione della lingua italiana e della capacità di costei di esprimersi – quantomeno con frasi semplici – anche nel nostro idioma discende per i giudici di appello dalle due intercettazioni ambientali del 19 e del 25 giugno 2019, nel corso delle quali si evince che la Zheku comprende il dialogo tra il marito e la coppia NOMECOGNOME tanto che interviene esprimendosi in italiano con frasi pertinenti al dialogo in atto, sia confermando la propria disponibilità a fare da collegamento tra il marito e il NOME anche durante la sua assenza dall'Italia, sia sollecitando il COGNOME ad acquistare un maggior quantitativo di cocaina a sostegno della proposta proveniente dal Mejdani. A quelle conversazioni si 3ggiunge altresì l'ambientale del 13 agosto, nel corso della quale al dialogo tra COGNOME e il marito la COGNOME assiste ed interviene con brevi commenti, congedandosi insieme con il marito rivolgendo al NOME il saluto in italiano "ciao caro".
Le predette intercettazioni ambientali -rilevano i giudici del gravame del merito – smentiscono quanto riferito dall'imputato, quando afferma che "…quando io andavo da Settimio, mia moglie non era presente ai nostri discorsi e lei stava in un'altra stanza anche perché non parla la lingua italiana. Mia moglie non sapeva quello che facevo e spesso usavo io il suo telefono. Non ho mai raccontato a mia moglie gli affari che avevo con Settimio… ".
Come si possa sostenere che la COGNOME non sapesse la ragione delle visite del marito se lei stessa, presente alle trattative del maritc con il COGNOME, sollecit quest'ultimo ad acquistare un quantitativo maggiore di cocaina rispetto a quello solito per i giudici di appello non è dato di comprendere. E nemmeno si vede come sia possibile negare non solo la partecipazione, ma perfino la consapevolezza del significato delle visite compiute nell'abitazione della coppia COGNOME da parte di chi sul proprio telefono cellulare riceveva abitualmente degli squilli del cui arrivo avvertiva il marito ed è poi presente in detto alloggio quando il marito, COGNOME NOME, consegna loro la cocaina ordinata. Né, secondo la logica conclusione della sentenza impugnata, si può sostenere – come tenta di sostiene il COGNOME – che la COGNOME non capiva che cosa accadesse nell'abitazione predetta quando lei e il marito si recavano a far visita alla coppia COGNOMECOGNOME perché non in grado di comprendere l'italiano: come si è poc'anzi visto, agli atti è stata acquisita prova documentale che l'imputata comprendeva e parlava l'italiano tanto da essere in
grado di capire di che cosa discutevano i presentì e di inserirsi nei loro discorsi con le frasi poc'anzi riferite.
In ragione di tali elementi, per la Corte territoriale si deve pertanto ritenere come sostenuto dall'appellante – che la COGNOME fosse consapevole concorrente – sia pure in posizione subordinata rispetto a quella del marito – nell'attività di spaccio da costui organizzata rispetto ad ogni episodio in cui la donna ha accompagnato il COGNOME nell'abitazione degli acquirenti, con la sola eccezione del delitto di cui al capo 35).
4.4. A fronte di tale articolata motivazione, come detto corrispondente ai canoni della "motivazione rafforzata" nell'odierno ricorso si articola un motivo generico, in quanto non costituente una critica argomentata al provvedimento impugnato che, diversamente, riporta una motivazione adeguatamente articolata nel fornire al materiale intercettivo una valenza dimostrativa diversa da quella attribuita ad esso dal primo giudice, valorizzando a tal proposito non solo le circostanze fattuali rimaste indiscusse in entrambi i gradi di giudizio (il collaudato sistema dei doppi squilli, provenienti da cellulare di COGNOME e inviati a quello della ricorrent nonché la presenza di NOME COGNOME durante il trasporto e la cessione della cocaina all'interno dell'abitazione della coppia COGNOME in presenza del marito), ma anche le intercettazioni telefoniche indicative della funzionalità logistica del telefono della ricorrente nell'ambito delle operazioni di vendita di stupefacente comprato da COGNOME dalla coppia COGNOME–COGNOME.
Né, come visto, la Corte territoriale omette di supportare il proprio ragionamento giuridico con un rigoroso confronto con le motivazione del giudice di primo grado, rilevandone l'incompletezza e lacunosità (ad esempio, per non avere dato conto il GUP dell'indispensabilità del telefono cellulare della ricorrente per gli accordi sui traffici, tanto da concordare i correi degli squilli sulla stessa utenza anche allorché costei si trova all'estero, nella piena consapevolezza da parte di COGNOME di fungere da intermediaria tra i correi "come sempre"), nonché evidenziandone le intrinseche incongruenze (di avere ipotizzato un inconsapevole utilizzo da parte di NOME del telefono della moglie pur se costei era sempre presente agli incontri immediatamente successivi al segnale convenuto sul proprio cellulare).
Quanto poi al contributo concorsuale attribuito alla ricorrente, la Corte territoriale muove un percorso argonnentativo scevro dei lamentati vizi di illogicità, nel desumere detta partecipazione da agiti comportamentali di apprezzabile rilievo nella definizione delle eissioni (come fornire il proprio numero di telefono cellulare per il rintraccio di COGNOME e accompagnare quest'ultimo agli incontri per le cessioni).
4.5. La sentenza impugnata opera un buon governo della giurisprudenza di questa Corte di legittimità secondo cui la connivenza non punibile, riguardo alla
disciplina degli stupefacenti, può essere integrata solo da un comportamento meramente passivo, mentre costituisce concorso nel delitto il contributo manifestato anche solo in forme che agevolino la detenzione, l'occultamento e il controllo della droga, assicurando al concorrente una certa sicurezza o comunque garantendogli, anche implicitamente, una collaborazione sulla quale egli può contare.
Questa Suprema Corte ha più volte espresso il principio secondo il quale la distinzione tra l'ipotesi della connivenza non punibile ed il concorso nel delitto, con specifico riguardo alla disciplina degli stupefacenti, va ravvisata nel fatto che mentre la prima postula che l'agente mantenga un comportamento meramente passivo, nel concorso di persone ex art. 110 cod. pen. è richiesto un contributo che può manifestarsi anche in ferme che agevolino la detenzione, l'occultamento ed il controllo della droga, assicurando all'altro concorrente una certa sicurezza o comunque garantendogli, anche implicitamente, una collaborazione sulla quale questF può contare (cfr. Sez. 3, n. 34985 del 16/7/2015, COGNOME ed altro, Rv. 264454, fattispecie in cui la Corte ha ritenuto corretta l'affermazione di responsabilità a titolo di concorso del titolare dell'abitazione che aveva offerto ospitalità al detentore dello stupefacente, consentendogli l'uso di una cantina per custodire la droga e che, al momento della perquisizione, aveva tentato di occultare le chiavi dell'autovettura all'interno della quale erano custodite le chiavi della predetta cantina; conf. Sez. 3, n. 41055 del 22/9/2015, COGNOME ed altro, Rv. 265167, relativa ad un caso in cui la Corte ha escluso che fosse sufficiente per configurare il concorso nella detenzione di sostanza stupefacente l'accertamento di un rapporto di coabitazione nell'appartamento in cui la droga era custodita, non ravvisando a carico del convivente alcun obbligo giuridico di impedire l'evento ex art. 40 cod. pen Sez. 4, n. 21441 del 10/04/2006, Rv. 234569; Sez. 6, n. 14606 del 18/02/2010, Rv. 247127).
Naturalmente spetta al giudice del merito indicare il rapporto di causalità efficiente tra l'attività incentivante,che integra il concorso morale,e quella posta in essere dall'autore materiale del reato, in quanto la semplice presenza inattiva non può costituire concorso morale, mentre, però, può essere sufficiente una volontà di adesione all'altrui attività criminosa, la quale venga a manifestarsi in forme agevolative della detenzione di sostanze stupefacenti, consistente nella consapevolezza di apportare un contributo causale, assicurando all'agente una certa sicurezza ovvero garantendo, anche implicitamente, una collaborazione in caso di bisogno, in modo da consolidare la consapevolezza nel correo di poter contare su una propria attiva collaborazione (cfr. Sez. 6, n. 9986 del 20/5/1998, Costantino e altro, Rv. 211587 in cui la Corte hel ritenuto sussistente il dolo del concorso nel reato da parte del coniuge, per la collocazione dello stupefacente in piena vista nella stanza da letto, per il prelievo della droga da parte del coniuge e la consegna agli agenti
operanti con occultamento sulla persona della maggior quantità possibile della sostanza per sottrarla al sequestro).
È stato affermato, in precedenza, con dicta che conservano la loro attualità ancorché risalenti nel tempo, che la condotta di concorso può manifestarsi in "forme di presenza" sempre che le stesse agevolino la condotta illecita, "anche solo assicurando all'altro concorrente stimolo all'azione o un maggior senso di sicurezza nella propria condotta, palesando chiara adesione alla condotta delittuosa." (cfr. Sez. 6, n. 9930 del 3/6/1994, COGNOME, Rv. 199162): è necessario quindi un contributo causale, seppure in termini minimi "di facilitazione della condotta delittuosa, mentre la semplice conoscenza o anche l'adesione morale, l'assistenza inerte e senza iniziative a tale condotta non realizzano la fattispecie concorsuale". (cfr. Sez. 4, n. 3924 del 5/2/1998, Brescia e altri, Rv. 210638).
Si tratta di principi correttamente applicati dai giudici del merito, nel caso i esame, per le ragioni sopra esposte.
4.6. Infondati sono anche gli ulteriori profili di doglianza proposti nell'interess della Zheku.
La Corte territoriale, ancora, sulla base delle risultanze probatorie, costruisce il ruolo della ricorrente finanche come "decisivo" (una "condicio sine qua non del contatto tra fornitori e acquirenti"), il che assorbe l'ulteriore motivo sulla prete erronea qualificazione dei fatti di cui ai capi 19) e 22) come ipotesi di lieve entit ex art. 73 co. 5 d.P.R. 309/90, invocata dalla difesa sul presupposto di un asserito ruolo "marginale" della Zheku nell'ambito di cessioni che, in ragione di vari parametri (tra cui i quantitativi trattati), il giudicante ha escluso di minimale offensi già nei confronti dei correi.
La mancata derubricazione degli episodi, stante i limiti edittali per i reati contestati, elide ogni censura sul mancato riconoscimento della causa di non punibilità ex art. 131 bis cod. pen. (prevista per reati con pena non superiore nel minimo a due anni di reclusione), seppure invocata.
Esente da censura è la dosimetria della pena che, anche in relazione agli aumenti per la continuazione, nonché per il riconoscimento delle circostanze attenuanti generiche nella massima estensione, si è assestata nei valori minimali.
Al rigetto del ricorso della Zheku consegue, ex lege, la condanna della ricorrente al pagamento delle spese del procedimento
Essendo i ricorsi di NOME e di NOME COGNOME inammissibili e, a norma dell'art. 616 cod. proc. pen, non ravvisandosi assenza di colpa nella determinazione della causa di inammissibilità (Corte Cost. sent. n. 186 del
13.6.2000), alla condanna dei ricorrente al pagamento delle spese del procedi- mento consegue quella al pagamento della sanzione pecuniaria nella misura indi-
cata in dispositivo.
P.Q.M.
Dichiara inammissibili i ricorsi di NOME NOME e di COGNOME e condanna gli stessi al pagamento delle spese processuali e della somma di euro
tremila ciascuno in favcre della cassa delle ammende.
Rigetta il ricorso di NOME che condanna al pagamento delle spese processuali.
Così deciso il 25/03;2025