Sentenza di Cassazione Penale Sez. 1 Num. 32283 Anno 2024
Penale Sent. Sez. 1 Num. 32283 Anno 2024
Presidente: COGNOME
Relatore: COGNOME
Data Udienza: 13/12/2023
SENTENZA
sui ricorsi proposti da: NOMECOGNOME nato a NAPOLI il 06/07/1987 NOMECOGNOME nata a NAPOLI il 27/08/1971 NOME COGNOME nata a NAPOLI il 26/02/1986 NOME COGNOME nato a NAPOLI il 24/04/1994 NOMECOGNOME nato a NAPOLI il 08/11/1989
avverso la sentenza del 20/01/2023 della CORTE RAGIONE_SOCIALE APPELLO di NAPOLI visti gli atti, il provvedimento impugnato e il ricorso;
udita la relazione svolta dalla Consigliera NOME COGNOME;
udito il Procuratore generale, NOME COGNOME il quale ha concluso chiedendo il rigetto per tutti i ricorsi.
Uditi i difensori:
L’avv. NOME COGNOME del foro di ROMA, in difesa di NOME COGNOME e NOME COGNOME conclude insistendo nell’accoglimento dei motivi di ricorso.
L’avv. NOME COGNOME del foro di NAPOLI in difesa di COGNOME
e VINCENZA COGNOME, conclude chiedendo l’accoglimento dei motivi di ricorso.
L’avv. NOMECOGNOME del foro di ROMA, in difesa di RAGIONE_SOCIALE, conclude riportandosi ai motivi di ricorso e chiedendone l’accoglimento.
L’avv. NOME COGNOME del foro di ROMA, in difesa di NOME COGNOME e NOME COGNOME conclude chiedendo l’accoglimento dei motivi di ricorso e l’annullamento della sentenza impugnata.
L’avv. NOME COGNOME del foro di NOLA, in difesa di NOME COGNOME conclude chiedendo l’annullamento della sentenza impugnata e l’accoglimento dei motivi di ricorso.
L’avv. NOME COGNOME del foro di NAPOLI, in difesa di NOME COGNOME ed NOME COGNOME conclude riportandosi ai motivi di ricorso e chiedendone l’accoglimento. ai
RITENUTO IN FATTO
Con sentenza del 20/1/2023, la Corte di Assise di appello di Napoli ha confermato la sentenza della Corte di Assise di primo grado del 4/6/2020 che aveva condannato gli imputati NOME COGNOME NOME COGNOME NOME COGNOME NOME COGNOME ed NOME COGNOME all’ergastolo con isolamento diurno per un anno per i seguenti reati: omicidio di NOME COGNOME e NOME COGNOME aggravato da premeditazione, dai motivi abietti e dall’aggravante ex art. 416 bis.1 cod. pen.; tentato omicidio, aggravato come sopra, in danno di NOME COGNOME, NOME COGNOME ed NOME COGNOME; violazione della disciplina sulle armi per illegale detenzione e porto in luogo pubblico di almeno una pistola calibro 9, arma comune da sparo; fatti commessi a Napoli, il giorno 22 aprile 2016. Con recidiva semplice per NOME COGNOME, e recidiva specifica e reiterata per NOME COGNOME.
La vicenda era avvenuta nel circolo ricreativo RAGIONE_SOCIALEINDIRIZZO, nel INDIRIZZO del INDIRIZZO di Napoli, nella serata del 22 aprile 2016.
Secondo la ricostruzione tratta dalle testimonianze dei presenti, intorno alle ore 19.30 era giunto nei pressi del circolo un motociclo SH 300 con due persone a bordo, che indossavano il casco; il passeggero era sceso ed aveva esploso svariati colpi di pistola, che causavano la morte di NOME COGNOME e NOME COGNOME ed il ferimento di NOME COGNOME NOME ed NOME COGNOME.
2.1. Le prove a supporto della responsabilità degli odierni ricorrenti sono state tratte da captazioni telefoniche ed ambientali, particolarmente nell’abitazione milanese ove NOME COGNOME era, all’epoca dei fatti, ristretto agli arresti domiciliari e conviveva con la madre, NOME COGNOME e con la moglie, NOME COGNOME. Da tali intercettazioni si è ricavata l’opera di ideazione, organizzazione e coordinamento dell’agguato da parte del COGNOME, coadiuvato dalle congiunte e dal cugino NOME NOMECOGNOME
Nel giorno dell’agguato, tutti gli imputati si trovavano a Napoli, COGNOME approfittando di un permesso per partecipare ad un processo; erano rientrati alla spicciolata a Milano dopo il fatto (vds. pagine 267 – 270 impugnata sentenza).
Nei giorni successivi, era stata occultata una microspia nella vettura di NOME COGNOME uno dei sopravvissuti all’agguato, strumento che aveva disvelato ulteriori particolari di rilievo sull’azione criminale.
Già dal marzo 2016 la famiglia del COGNOME era oggetto di una “cacciata” da parte del clan nemico dei COGNOME, che mirava a conquistare il controllo totale del quartiere Sanità. Tale situazione traeva origine da risalenti contrapposizioni tra famiglie rivali, dettate dalla finalità di dominio territoriale. Pertan COGNOME riteneva giunto il momento di risolvere il problema del quartiere, imponendo la presenza della sua famiglia, se del caso ricorrendo anche ad azioni di fuoco. La madre, NOME COGNOME, a sua volta si mostrava particolarmente agguerrita e determinata a contrastare i COGNOME, che spadroneggiavano alla Sanità, e la nuora NOME COGNOME che aveva subìto la cacciata dal quartiere, aveva raggiunto il marito a Milano, e lo teneva informato dei movimenti e delle alleanze che si andavano delineando tra i clan interessati al dominio della Sanità.
Quanto ad NOME COGNOME rilevante è la conversazione n. 3595 in cui, discutendo con COGNOME, rivendicava di avere fatto cinque botte, riconoscendosi in tal modo autore materiale del duplice omicidio e del triplice tentato omicidio.
Ulteriori apporti di rilievo ai fini della ricostruzione dell’agguato derivano dalle informazioni dei collaboratori di giustizia NOME COGNOME e NOME COGNOME la cui attendibilità è stata sancita dal riconoscimento per entrambi della speciale attenuante ex art. 416 bis.1, comma 3, cod. pen., effettuato nella sentenza del GUP del Tribunale di Napoli del 26/4/2019.
Il primo era stato edotto della vicenda da NOME COGNOME, detto “O’ zoo”, che si trovava nel circolo al momento dell’agguato: da costui aveva saputo che a sparare era stato “COGNOME“, cioè NOME COGNOME.
COGNOME, collaboratore dal 2018, proveniente dalle fila del clan COGNOME, aveva narrato i retroscena per il controllo del rione INDIRIZZO, conteso da vari gruppi criminali che si fronteggiavano, alternando contrapposizioni ed alleanze mutevoli: in particolare i COGNOME erano egemoni alle Fontanelle, mentre il gruppo COGNOME stava sotto e sopra o vicariello e dietro San Gennaro. Tra le varie informazioni apprese de relato, è di rilievo quella veicolata dalla moglie di NOME COGNOME la quale aveva affermato che ad uccidere suo marito era stato NOME COGNOME COGNOME.
Per quanto concerne NOME COGNOME l’impugnata sentenza ne ha valorizzato il ruolo di ispiratore di strategie dirette all’eliminazione degl esponenti del gruppo rivale, mediante consigli e suggerimenti al cugino NOME in ordine alla pianificazione dell’agguato e alle possibili vie di fuga, senza che rilevi se tali indicazioni siano state seguite o no, ciò costituendo il profilo de ritenuto concorso morale. Ma sono stati evidenziati anche elementi di concorso materiale, particolarmente nell’individuazione di un’adeguata base logistica per l’esecuzione dell’agguato (vds. progr. 956).
Avverso detta sentenza gli imputati hanno proposto ricorso per cassazione, tramite i rispettivi difensori: avv.ti NOME COGNOME e NOME COGNOME per NOME COGNOME ed NOME COGNOME; avv. NOME COGNOME per NOME COGNOME; avv. NOME COGNOME per NOME COGNOME; avv. NOME COGNOME per NOME COGNOME e NOME COGNOME; avv. NOME COGNOME e avv. NOME COGNOME – con atti distinti – per NOME COGNOME.
Sono stati altresì presentati motivi aggiunti dall’avv. COGNOME per COGNOME e COGNOME dall’avv. COGNOME per COGNOME e dall’avv. COGNOME per COGNOME ed NOME COGNOME.
Detti ricorsi sono di seguito sintetizzati partitamente, nei limiti strettamente necessari per la motivazione della sentenza, come prescrive l’art. 173 disp. att. cod. proc. pen.
Ricorsi di NOME COGNOME ed NOME COGNOME (avv.ti COGNOME e COGNOME)
4.1. Nel primo motivo è stata dedotta mancanza e contraddittorietà della motivazione, quanto all’affermazione di responsabilità degli imputati per i delitti contestati, con riferimento alla diagnosi di piena attendibilità delle informazioni
rese dai collaboratori di giustizia NOME COGNOME e NOME COGNOME in ordine alla idoneità delle relative chiamate in reità a riscontrarsi reciprocamente.
Nell’ambito di tale motivo, si sono delineati numerosi paragrafi, diretti a segnalare specifici profili di carenza e contraddittorietà della motivazione emergenti dalle propalazioni dei citati collaboratori.
4.1.1. Con riguardo alle propalazioni di COGNOME, si deducono criticità per i presunti rapporti di intimità e reciproco affidamento da costui intrattenuti con il clan COGNOME e con suoi esponenti apicali. La sentenza di appello ha attuato una completa elisione delle parti dell’esame del dichiarante che evidenziavano una palese controtendenza con l’asserita intimità dei rapporti, con ciò incorrendo in profili di contraddittorietà intrinseca ed estrinseca.
4.1.2. Ulteriori profili di carenza e contraddittorietà della motivazione sono stati dedotti quanto all’attendibilità oggettiva delle propalazioni di COGNOME con riguardo all’asserita mancata condivisione con NOME COGNOME delle presunte confidenze ricevute da COGNOME.
4.1.3. Si deducono carenza, illogicità e contraddittorietà della motivazione in ordine all’obiettiva attendibilità del fatto veicolato de relato da COGNOME.
4.1.4. Ulteriori criticità sono state contestate a fronte della motivazione che ha vagliato la piena attendibilità del collaboratore NOME COGNOME.
4.1.5. A questo punto si affrontano le lacune della motivazione in ordine all’attendibilità oggettiva delle propalazioni del collaboratore COGNOME definito dichiarante de relato all’epoca del fatto era ristretto agli arresti domiciliari – e puntualmente smentito dalle sue fonti di riferimento.
4.1.6. Criticità delle informazioni veicolate de relato da NOME COGNOME
4.1.7. Criticità delle informazioni rese dal COGNOME a seguito del discorso “orecchiato” tra NOME COGNOME (vedova di NOME COGNOME) e NOME COGNOME (vedova di NOME COGNOME). In particolare, si deplora che nessuna considerazione sia stata spesa nell’impugnata sentenza in tema di verosimiglianza del riferito episodio.
4.1.8. Si contesta la trattazione del tema specifico del momento in cui i vertici del clan COGNOME avrebbero avuto conoscenza della riferibilità della strage ad NOME COGNOME nell’ottica della valutazione di credibilità oggettiva e soggettiva dei collaboratori COGNOME e COGNOME.
4.1.9. Parziale travisamento per omissione della conversazione n. 53 del 23 aprile 2016 delle ore 19.11.02 tra NOME COGNOME ed altro soggetto non identificato (pag. 43 perizia trascrittiva), ritenuta di rilievo dirimente per valutazione dell’attendibilità oggettiva del collaboratore COGNOME nonché per l’idoneità delle sue propalazioni a fungere da riscontro incrociato della chiamata in reità del collaboratore COGNOME.
4.2. Nel secondo motivo di impugnazione, si denunciano criticità motivazionali dipendenti da una lettura travisante e contraddittoria delle prove acquisite mediante intercettazione delle comunicazioni, ritenute carenti di concludenza probatoria in rapporto al canone del ragionevole dubbio.
Anche questo macro-motivo è suddiviso in svariati paragrafi.
4.2.1. Nel primo si censura travisamento e manifesta contraddittorietà della motivazione, quanto all’apprezzamento delle intercettazioni successive ai reati in accertamento.
4.2.2. Nei successivi paragrafi 3 e 4 si deducono carenze argomentative quanto alla prospettazione alternativa dell’eziologia dell’agguato mortale fornita dalla difesa nel gravame e sorretta da plurimi elementi di prova, che si denunciano oggetto di sistematico travisamento per omissione ad opera della Corte di Assise di secondo grado.
4.2.3. Segue la censura di contraddittorietà e manifesta illogicità della motivazione laddove valuta gli apprezzamenti svolti dai soggetti intercettati a proposito del mancato rispetto del codice di comportamento in ordine alla individuazione e selezione dei bersagli da colpire.
4.2.4. In tale paragrafo si censura la motivazione dedicata ad escludere l’esistenza di contrapposizioni tra il clan COGNOME e gruppi criminali diversi da quello asseritamente capeggiato da NOME COGNOME.
4.2.5. Il successivo paragrafo è dedicato a censurare la motivazione sui seguenti punti (per ciascuno dei quali si sono tracciati dei sottoparagrafi): 1) tema della causale del fatto di sangue; 2) asserita riferibilità delle conversazioni 634, 635, 637, 639 e 2210 al programma di azione funzionale all’agguato omicidiario del 22/4/2016; 3) conversazione n. 3594; 4) conversazione ambientale n. 3327; 5) circostanza per cui il giorno dell’agguato tutti gli imputati si trovassero a Napoli; 6) conversazioni ambientali 3853, 3854, 3856; 7) scambio di sms intercorso tra NOME COGNOME e NOME COGNOME
4.3. Nel terzo motivo, si censura per carenza e/o contraddittorietà della motivazione il riconoscimento dell’aggravante della premeditazione.
4.4. Nel quarto motivo, si deduce violazione di legge e vizio di motivazione quanto alla ritenuta aggravante ex art. 416 bis.1 cod. pen., il cui riconoscimento non è stato corredato né da provvedimenti giudiziari definitivi, né da accertamenti incidentali sulla pretesa caratura mafiosa del presunto gruppo criminale capeggiato da NOME COGNOME
4.5. Nel quinto motivo, si deduce violazione di legge e vizio di motivazione quanto alla ritenuta aggravante dei motivi abietti, per violazione del combinato disposto degli artt. 15, 61 n. 1, 68 e 416 bis.1 cod. pen. riferita al mancato assorbimento della circostanza dei motivi abietti in quella di mafia.
4.6. Nell’ultimo motivo di ricorso si denuncia il diniego delle circostanze attenuanti generiche ed il significativo scostamento dalla misura del minimo edittale nella commisurazione del trattamento sanzionatorio.
4.7. Nei motivi aggiunti, trasmessi digitalmente con atto del 24/11/2023 (che consta di ulteriori 28 pagine), si sono svolti approfondimenti per ciascuna delle voci già trattate nell’atto contenente i ricorsi principali.
Sia nell’atto originario che in quello successivamente trasmesso vi sono elencati allegati, ai fini della regolarità dell’impugnazione nonché per esigenze di autosufficienza dei ricorsi.
5. Ricorso di NOME COGNOME (avv. COGNOME)
Questo atto di impugnazione si compone di nove motivi.
5.1. Il primo motivo deduce violazione di legge penale in ordine all’affermazione di responsabilità per il delitto di omicidio volontario (capo A).
Nella ricostruzione dell’impugnata sentenza, COGNOME e COGNOME sono stati riconosciuti come mandanti del duplice omicidio per avere entrambi deciso, ideato e pianificato l’agguato contro NOME COGNOME e NOME COGNOME; costoro avrebbero dato incarico agli esecutori materiali fornendo loro i mezzi per perpetrare gli omicidi. Vengono in particolare in rilievo, come prove, le intercettazioni telefoniche dal 5 marzo al 19 aprile 2016, dalle quali emergerebbe l’attivazione dei due imputati, mossi da comune risentimento contro i COGNOME, e quelle successive al 7 maggio 2016, dopo l’omicidio del padre e del fratello di NOME COGNOME dalle quali emergeva la volontà di vendetta nei confronti di NOMECOGNOME
Il punto viene contrastato con argomentazioni dirette a negare la responsabilità della COGNOME, per la vaghezza del contributo da lei assicurato a titolo di mandato o di istigazione al delitto. Invero, dal compendio captativo non emerge alcuna indicazione in tal senso, ma soltanto traspaiono i sentimenti di odio e di vendetta che il nucleo familiare del COGNOME nutriva nei confronti dei nemici COGNOME. Si deduce quindi che l’impugnata sentenza pone un problema di imputazione alla istigatrice di un fatto diverso da quello istigato, e ciò determina il venire meno del contributo concorsuale del concorrente morale.
5.2. Per l’affermazione di responsabilità per i tentati omicidi del capo B, si deduce violazione di legge penale, per non essere stato esplicitato nemmeno un rigo di motivazione con riferimento alla posizione della Spina, e si richiamano le considerazioni espresse sul concorso morale nel delitto al capo precedente.
5.3. Analoghe critiche sono rivolte all’affermata responsabilità della Spina per i reati di porto e detenzione della pistola utilizzata nell’agguato: l’imputata
non ha aderito alla condotta criminale in questione, né ha rafforzato il proposito criminoso altrui.
5.4. Si deducono ulteriori violazioni di legge penale con riferimento all’aggravante della premeditazione, a quella ex art. 416 bis.1 cod. pen. tanto nella componente oggettiva che in quella soggettiva, nonché per l’aggravante dei futili motivi che avrebbe dovuto essere assorbita dall’aggravante speciale ex art. 416 bis.1 cod. pen.
5.5. Quanto al trattamento sanzionatorio, si contesta il riconoscimento della recidiva semplice, determinato da un unico precedente per invasione di edifici, senza alcuna analisi concreta dei riflessi di tale condanna su quella per i reati oggi in questione, sotto i profili soggettivi della maggiore colpevolezza e pericolosità dell’agente.
5.6. Ancora, si deplora il diniego delle circostanze attenuanti generiche, la cui analisi non è stata condotta nell’ottica di una valutazione complessiva degli elementi oggettivi e soggettivi a ciò inerenti.
5.7. Nell’ultimo motivo di impugnazione, si denuncia violazione di legge con riferimento agli artt. 133 e 81 cod. pen.
Invero, essendo la Spina mera istigatrice morale, non le si potrebbero imputare le aggravanti incidenti sul contributo causale ai fatti, da escludere, sicché non la si può condannare all’ergastolo, ma alla pena della reclusione.
6. Ricorso di NOME COGNOMEavv. COGNOME)
6.1. Il primo motivo deduce violazione di legge e connesso vizio di motivazione, con riferimento all’affermazione di responsabilità della ricorrente per i delitti a lei ascritti. Censura la difesa che l’apparato motivazionale della sentenza impugnata si risolve in poche righe a pagina 270, con frequente ricorso a congetture ed illazioni. Ciò riguarda anche la prima sentenza, da pag. 100 a pag. 104, ove si indica la prova a carico della COGNOME, rappresentata soltanto da due conversazioni ambientali. Ma si rimarca che se la decisione omicidiaria era stata assunta prima dell’8 marzo 2016, allorché “NOME, moglie di NOME, aveva comunicato al marito che le erano state date sei ore di tempo per allontanarsi dalla Sanità”, tali conversazioni non provano nulla, essendo intervenute prima delle conversazioni ambientali che vedono coinvolta la ricorrente.
6.2. Il secondo motivo di ricorso contesta il riconoscimento dell’aggravante mafiosa, inconfigurabile per chi, come la COGNOME, non ha rivestito ruoli di mandante o di esecutore materiale, ma soltanto quello di concorrente morale.
6.3. L’ultimo motivo di impugnazione attiene al diniego delle circostanze attenuanti generiche, che l’impugnata sentenza ha basato su elementi non pregnanti quali la gravità dei fatti, l’intensità del dolo, l’assenza di segni
dissociazione, senza curarsi dell’incensuratezza della COGNOME e dell’effettivo contributo reso dalla stessa, consistito nelle parole di due sole conversazioni ambientali.
7. Ricorsi di NOME COGNOME e NOME COGNOME (avv. COGNOME).
In tale atto unitario, si affrontano sei motivi di impugnazione, comuni alle due imputate.
7.1. Nel primo motivo si contesta l’utilizzabilità delle intercettazioni disposte con il decreto n. 643/2016 (allegato al ricorso), che aveva autorizzato captazioni telefoniche ed ambientali riguardanti NOME COGNOME e le congiunte COGNOME (madre) ed COGNOME (moglie).
Argomenta la difesa che non sussistevano i presupposti per autorizzare ed eseguire dette intercettazioni sulla scorta della più elastica disciplina antimafia, come interpretata da alcuni arresti di legittimità (nel ricorso si cita la sentenza di Sez. 1, n. 34895 del 30/3/2022, riferita a vicende riguardanti gli affiliati al clan COGNOME). In tali pronunce si è affermato che ai fini dell’applicazione dell’art. 13 della Legge n. 203 del 1991 – che detta la disciplina derogatoria rispetto agli artt. 266 e 267 cod. proc. pen. per le intercettazioni per delitti di criminalità organizzata – non sono da considerarsi tali tutti i delitti aggravati dalla circostanza di cui all’art. 7 L. n. 203 del 1991, ma soltanto le fattispecie criminose associative.
L’impossibilità di ricorrere alla più larga disciplina ex L. n. 203 del 1991 comporta l’inutilizzabilità delle captazioni che attingono le due imputate, la cui responsabilità è stata ricostruita esclusivamente sulla scorta delle risultanze delle intercettazioni disposte con il decreto n. 643/2016, che aveva permesso l’ascolto dei dialoghi intercorsi nell’abitazione di Milano tra NOME e le sue congiunte.
7.2. Il secondo motivo deduce violazione di legge e vizio di motivazione quanto all’affermazione di responsabilità per il COGNOME e dunque per le due ricorrenti. Nell’ambito di questo motivo si sono ripercorse le argomentazioni che la difesa aveva illustrato nel processo di appello e si deplora che siano state trascurate nell’impugnata sentenza.
In particolare, in ordine alla causale, si ribadisce che non sussistevano ragioni sufficienti per commettere la cosiddetta strage di Fontanelle: infatti, dalle conversazioni tra gli imputati emergeva soltanto il disprezzo verso i nemici COGNOME, anche per il diverso modo di intendere “la malavita”. Inoltre, la cacciata dal rione Sanità dei familiari dei COGNOME era avvenuta successivamente alla pianificazione dei delitti, così da escludere il supposto legame di causa ed effetto: sul punto la Corte territoriale avrebbe travisato le risultanze probatorie in relazione alla corretta cronologia dei fatti.
NOME
Quanto all’oggetto delle programmazioni captate nei dialoghi intercettati, la difesa rimarca che non sono emersi elementi certi riguardo ai delitti per cui è processo, ma soltanto riferimenti vaghi e fantasiosi a luoghi, modalità, persone, peraltro non coincidenti con quelli riscontrati in concreto nella vicenda in esame.
Si afferma, poi, che manca la prova che i soggetti intercettati avessero deciso di mettere in pratica i propri propositi, né può essere sufficiente il rilievo della sentenza per cui dopo i fatti del 22/4/2016 erano cessate le programmazioni, indice di avvenuta esecuzione dei piani criminosi.
Le conversazioni captate dopo la strage, che nell’impugnata sentenza sono state ritenute di notevole rilievo per contenere espressioni asseritamente confessorie, sono invece ambigue ed equivoche sotto tale profilo, e di converso contengono plurimi riferimenti all’estraneità del gruppo COGNOME ai fatti. Invero, si erano rappresentate causali alternative collegate ai contrasti dei COGNOME con altri soggetti, di eguale se non superiore conflittualità rispetto a quella che contrapponeva costoro al gruppo NOME Tali possibili moventi alternativi sono stati sminuiti dai giudici di appello con motivazione illogica e contraddittoria.
Infine, l’apporto dei collaboratori di giustizia valorizzato nell’impugnata sentenza è ritenuto di scarso momento, trattandosi di propalazioni de relato dai racconti dei due testimoni oculari NOME COGNOME e NOME COGNOME
A prescindere dalle molteplici discrasie tra i due testi diretti e dai profili di conflitto con altre ipotesi ricostruttive, il ricorso deplora che l’individuazion dell’esecutore della strage in NOME COGNOME confligge con le investigazioni condotte dai COGNOME, delle quali non vi sarebbe stata alcuna necessità se l’individuazione del responsabile fosse stata così certa e definitiva.
7.3. Il terzo motivo avanza critiche in merito all’affermazione di responsabilità delle ricorrenti COGNOME ed COGNOME. Si rammenta che le due donne sono rispettivamente la madre e la moglie del COGNOME, con lui conviventi a Milano, nell’abitazione in cui commentavano gli accadimenti del quartiere INDIRIZZO.
Secondo la difesa, al di là della innegabile partecipazione emotiva alla vicenda che coinvolgeva il congiunto e la loro famiglia, le imputate non avevano fornito alcun contributo penalmente apprezzabile, ed infatti nessun collaboratore di giustizia le ha ricollegate ai fatti.
Sul punto, il ricorso critica l’impostazione della sentenza di appello, che ha invece ritenuto che le ricorrenti avessero attuato un contributo agevolatore dell’opera degli altri concorrenti e di rafforzamento dell’altrui volontà omicida, contestando che le condotte di COGNOME ed COGNOME avessero rivestito tali caratteristiche, ed evidenziando che la motivazione non ha posto in luce alcun concreto contributo ideativo e/o di condizionamento delle altrui volontà.
Si è anche rimarcato che la notoria impronta fortemente maschilista che connota le organizzazioni di tipo mafioso, postulando la negazione di ogni incidenza delle donne nell’ambito dei sodalizi criminali, avrebbe impedito di riconoscere alcun ruolo della moglie e della madre del COGNOME nelle dinamiche ideative ed organizzative della strage. Ne consegue che le parole delle due donne non avevano potuto rivestire alcuna portata ideativa o rafforzativa in ordine alla commissione della strage di Fontanelle.
7.4. Il quarto motivo contesta la ricorrenza della premeditazione.
Riprendendo le argomentazioni precedenti, si osserva che – trattandosi di discorsi generici ed ipotetici, nonché privi di ogni effettiva e specifica deliberazione del piano di azione – da essi non potrebbe trarsi alcuna indicazione del momento in cui è stato deliberato l’agguato, così da non emergere la prova sia del requisito cronologico che di quello ideologico. L’impugnata sentenza, invece, ha apoditticamente ritenuto esistente una ferma e consolidata risoluzione criminosa, fin dai primi dialoghi, così riconoscendo l’aggravante in discorso fuori dai limiti di legge e dell’elaborazione giurisprudenziale.
7.5. Il quinto motivo contesta l’aggravante dei motivi abietti e futili.
Si contesta la motivazione adottata sul punto, che è stata imperniata sul riconoscimento dell’aggravante de qua, onde distinguerla da quella di mafia, in base alla ritenuta volontà degli imputati di attuare una violenta ritorsione rispetto alla cacciata dal quartiere Sanità ad opera di un clan camorristico rivale, percepita come un affronto intollerabile.
Il ricorso formula due critiche: la prima attiene al ritenuto carattere non spregevole di una reazione veemente all’atto ingiusto di cacciare intere famiglie da un quartiere, da ritenersi un torto grave; la seconda, per non essersi i giudici avveduti che tale impostazione riconduce il fatto nell’alveo dell’astio verso il clan nemico dei COGNOME, e dunque refluisce nell’aggravante di mafia.
7.6. Nell’ultimo motivo di impugnazione, si lamenta il diniego delle circostanze attenuanti generiche, rilevando che le imputate erano originariamente incensurate e fino a quel momento estranee a dinamiche associative; si deplora altresì la parificazione sanzionatoria agli altri imputati, evidenziando che COGNOME ed COGNOME non erano stabilmente inserite in strutture associative, e che la prima presenta un unico precedente per invasione di edifici.
Ricorso di NOME COGNOMEavv. COGNOME e avv. COGNOME, con atti distinti).
8.1. Nel primo atto di ricorso, si deducono i seguenti motivi.
8.1.1. Violazione di legge e vizio di motivazione per il ritenuto concorso dell’imputato nei delitti di omicidio, nonché nelle fattispecie di tentato omicidio.
Nell’impugnata sentenza il contributo di NOME è stato descritto in termini di fornitore di attività di supporto nella individuazione degli appoggi e delle vittime, nonché del momento propizio per l’azione, rafforzando altresì il proposito criminoso. Come le due imputate, anche NOME sarebbe stato coinvolto nella elaborazione del piano omicidiario, al quale aveva aderito, operando in modo da rafforzare il proposito delittuoso dei correi.
La difesa contesta tale valutazione, osservando che dalle propalazioni dei collaboratori di giustizia non emerge alcun elemento utile, nemmeno indiziario, a carico del COGNOME; né le intercettazioni ambientali che lo attingono consentono di affermare la sua partecipazione concorsuale ai delitti in esame, sotto il profilo del concorso morale ritenuto dai giudici. Il contributo del COGNOME è stato privo di reale pericolosità, e semmai rientra nello schema del tentativo di concorso, figura non ammessa nell’ordinamento giuridico penale, in quanto dilaterebbe imprevedibilmente i confini della punibilità. Invero, il criterio della causalit agevolatrice esige la sussistenza del nesso eziologico tra la singola condotta e quella di altro partecipe, o tra la prima e il fatto come concretizzatosi nella realtà, ma nella specie – come emerge dalle captazioni – NOME non ha attuato alcun incisivo indirizzamento o rafforzamento delle altrui volontà, in quanto le sue parole si rivolgevano ad un soggetto, COGNOME, già pienamente determinato all’azione criminosa: a tutto concedere, si sarebbe al cospetto di una mera connivenza, ravvisandosi nel Daniello il ruolo di colui che viene guidato dal COGNOME, il quale gli spiega modalità esecutive già ben delineate, sicché manca la prova di una reale partecipazione del ricorrente alla fase ideativa e organizzativa dell’agguato.
8.1.2. Nel secondo motivo si contesta la partecipazione del ricorrente alle fattispecie di tentato omicidio, secondo lo schema argomentativo che si è sintetizzato nel motivo precedente.
8.1.3. Nel terzo motivo anche l’imputazione per violazione della disciplina sulle armi viene criticata in base alle precedenti argomentazioni, rilevando altresì che proprio sul punto della dotazione delle armi si sarebbe dovuta ricercare una specifica attività organizzativa del COGNOME, secondo l’accusa a lui elevata, mentre l’affermazione di responsabilità a tale titolo risente di un giudizio astratto e meccanicistico.
8.1.4. Per tutte le incolpazioni, si deduce vizio di motivazione in ordine alla mancata considerazione in termini concreti delle numerose ipotesi alternative indicate dalle difese dei coimputati NOME COGNOME ed NOME COGNOME COGNOME invocando sul punto l’effetto estensivo dell’impugnazione ai sensi dell’art. 587, comma 1, cod. proc. pen.
8.1.5. Negli ultimi due motivi si deducono violazione di legge e vizio di motivazione in ordine al diniego delle circostanze attenuanti generiche, che si accusa essere sorretto da motivazione apodittica, astratta e generica, senza considerazione della situazione specifica del ricorrente. Invero, la negazione delle attenuanti ex art. 62 bis cod. pen. è stata motivata in forma indiscriminata e cumulativa, così da tacciarsi la motivazione riferita al Daniello come apparente.
8.2.1. Nel secondo atto di ricorso, il primo motivo deduce violazione di legge e connesso vizio di motivazione per la inutilizzabilità delle intercettazioni ambientali disposte con decreto n. 643/2016 (atti allegati al ricorso), in violazione degli artt. 267 cod. proc. pen. e 13 Legge n. 203 del 1991.
Secondo il ricorso, i decreti autorizzativi sono dotati di una motivazione di mera apparenza, laddove individuano le ragioni funzionali alle disposte intercettazioni nella possibilità di individuare tramite tale mezzo di prova gli autori dell’omicidio di NOME COGNOME, patrigno del COGNOME, avvenuto a Napoli nel settembre 2015, considerato che le captazioni già effettuate in carcere avevano evidenziato che COGNOME ed i congiunti avevano individuato l’area di provenienza del delitto, ma nulla di più specifico.
Pertanto, si tratterebbe di motivazione in concreto inesistente: nel caso di specie, COGNOME non era persona sottoposta ad indagine per quel delitto (omicidio COGNOME), sicché la protrazione dell’intrusione investigativa per oltre quattro mesi costituirebbe un’arbitraria compressione del diritto alla segretezza delle conversazioni garantito dalla Costituzione e da fonti convenzionali.
Inoltre, si rimarca che il riferimento alla possibile vendetta in gestazione da parte dei familiari del defunto NOME era del tutto generico, basato su eventi incerti e futuribili, perciò insuscettibili di integrare una valida motivazione del decreto autorizzativo delle intercettazioni.
La motivazione con cui l’impugnata sentenza ha respinto detta eccezione, riconoscendo l’adeguatezza dei decreti autorizzativi, non è stata ritenuta corrispondente al tenore delle doglianze avanzate nel gravame, dirette alla verifica delle condizioni originarie legittimanti l’autorizzazione ad intercettare, e viene tacciata di evocare situazioni estranee all’assetto costituzionale che non prevede il monitoraggio preventivo.
8.2.2. Il secondo motivo si duole dell’affermazione di responsabilità per i delitti in contestazione, sub specie di violazione di legge e connesso vizio argomentativo, in quanto il ritenuto concorso morale e materiale del Daniello si fonda sul travisamento della prova che l’imputato abbia compiuto una concreta attività agevolativa, circostanza che viene negata dalla difesa sia in ordine al concorso morale che per quello materiale.
Non si ritiene conferente sul punto l’evocato “contesto di crimine organizzato” in cui si inserisce la vicenda delittuosa, e la relazione intercorrente tra NOME e NOMECOGNOME entrambi condannati per il reato ex art. 416 bis cod. pen. (il primo in veste apicale e l’altro come mero partecipe), nella specie finalizzata ad un’azione collettiva, in cui convergono i contributi organizzativi, esecutivi ed agevolatori, accomunati anche da una più ampia causalità psichica dei concorrenti, intesa come reciproco condizionamento volitivo tra più agenti, uno soltanto dei quali determina la concreta azione delittuosa, termini in cui si è espressa l’impugnata sentenza. Si denuncia la mancanza di una specifica individuazione del contributo agevolatore del Daniello, che sarebbe stato inteso come comprensivo di qualunque attività latamente riferibile al fatto, così ampliando oltre ogni limite l’imputabilità del reato a titolo di concorso, fino a valorizzare ipotesi d tentativo di concorso, estranee all’assetto normativo. Si rammenta su tale profilo l’insegnamento delle Sezioni Unite COGNOME (Sez. u, n. 45276 del 30/10/2003, Rv. 226101), per cui: «In tema di concorso di persone nel reato, la circostanza che il contributo causale del concorrente morale possa manifestarsi attraverso forme differenziate e atipiche della condotta criminosa (istigazione o determinazione all’esecuzione del delitto, agevolazione alla sua preparazione o consumazione, rafforzamento del proposito criminoso di altro concorrente, mera adesione o autorizzazione o approvazione per rimuovere ogni ostacolo alla realizzazione di esso) non esime il giudice di merito dall’obbligo di motivare sulla prova dell’esistenza di una reale partecipazione nella fase ideativa o preparatoria del reato e di precisare sotto quale forma essa si sia manifestata, in rapporto di causalità efficiente con le attività poste in essere dagli altri concorrenti, non potendosi confondere l’atipicità della condotta criminosa concorsuale, pur prevista dall’art. 110 cod. pen., con l’indifferenza probatoria circa le forme concrete del suo manifestarsi nella realtà». Corte di Cassazione – copia non ufficiale
8.2.3. Nel terzo motivo si deducono violazione di legge ed apparenza della motivazione in ordine alla confermata sussistenza delle aggravanti della premeditazione e dei motivi abietti e futili.
8.2.4. Di seguito si deplora la conferma dell’esclusione delle circostanze attenuanti generiche e l’eccessività del trattamento sanzionatorio, in entrambi i casi per non avere dato conto della valutazione dei parametri previsti dall’art. 133 cod. pen.
8.2.5. Con motivi aggiunti trasmessi digitalmente in data 27/11/2023, si denuncia l’inutilizzabilità dei risultati delle intercettazioni disposte secondo l previsione dell’art. 13 della L. 203 del 1991. In tale prospettiva si è citata la pronuncia di questa Corte (Sez. 1, n. 34895 del 30 marzo 2022) laddove ha affermato, nel solco degli approdi esegetici delle Sezioni Unite “Scurato”, che nel
concetto di “criminalità organizzata”, evocato dalla novella emergenziale dei primi anni ’90 quale presupposto normativo indefettibile per poterne fare ricorso, non possano farsi rientrare i delitti monosoggettivi anche se aggravati dal ricorso al metodo mafioso o se commessi con il fine di agevolare consorterie di tipo mafioso.
È noto che è intervenuto un recente provvedimento legislativo che ha sancito l’applicazione della disciplina speciale dell’art. 13 L. n. 203 del 1991 anche nei procedimenti per i delitti, consumati o tentati, previsti dagli articoli 452-quaterdecies e 630 del codice penale, ovvero commessi con finalità di terrorismo o avvalendosi delle condizioni previste dall’articolo 416-bis del codice penale o al fine di agevolare l’attività delle associazioni previste dallo stesso articolo. Ma, secondo il ricorrente, tale norma presenta tutte le caratteristiche (formali e sostanziali) delle c.d. “leggi innovative/modificative retroattive”: infatti, il contenuto del primo comma dell’art. 1 non riproduce la semantica tipica delle norme di interpretazione autentica, in quanto non interviene sulla definizione concettuale della categoria dei reati di “criminalità organizzata”, ma estende l’applicazione delle norme di deroga all’art 267 cod. proc. pen. introdotte dalla legislazione emergenziale del 1991. A sostegno di tale interpretazione soccorre la considerazione che il secondo comma, contenendo una specifica disposizione transitoria finalizzata ad estendere gli effetti anche ai procedimenti in corso, sarebbe stato del tutto inutile e superfluo qualora si fosse effettivamente al cospetto di una legge di interpretazione autentica.
Invece, la novella non è una legge di interpretazione autentica, ma una norma nuova: ciò la espone a dubbi di costituzionalità o di compatibilità con i principi e le norme sovranazionali da parte della CEDU e della Corte di Giustizia Europea, qualora si intendesse attribuirle efficacia retroattiva tout court anziché limitata soltanto ai procedimenti in corso, per reati antecedenti alla novella, nei quali l’autorizzazione al ricorso alle intercettazioni con l’impiego della normativa emergenziale non sia ancora stata richiesta dal Pubblico ministero ovvero non sia ancora intervenuta. Diversamente argomentando, si finirebbe per attribuire alla norma transitoria un’efficacia sanante (rispetto ad autorizzazioni la cui erroneità dei presupposti legali è conclamata dall’art. 1 della menzionata legge n. 137 del 9 ottobre 2023) del tutto estranea al nostro sistema positivo.
Da tali premesse discende che, alla stregua della corretta interpretazione della norma transitoria, deve applicarsi la disposizione previgente, secondo il principio tempus regit actum, con la conseguenza che il decreto che ha autorizzato la captazione delle conversazioni nell’abitazione milanese del COGNOME fu adottato in violazione dell’art. 267 cod. proc. pen., non ricorrendo i presupposti per l’applicazione della disciplina derogatoria di cui all’art. 13 della L. 203/91.
CONSIDERATO IN DIRITTO
Si esaminano per primi i ricorsi – che le difese hanno trattato congiuntamente – degli imputati NOME COGNOME ed NOME COGNOME
Nel primo motivo, il tema portante è la critica di inattendibilità delle informazioni rese dai collaboratori di giustizia NOME COGNOME e NOME COGNOME insieme alla dedotta inidoneità delle relative chiamate in reità a riscontrarsi reciprocamente.
1.1. Vanno premesse le linee guida di questa Corte di legittimità sul tema della idoneità di plurime chiamate in reità a riscontrarsi reciprocamente, così integrando la condizione indicata dall’art. 192, comma 3, cod. proc. pen. per attribuire piena valenza probatoria alle propalazioni dei collaboratori di giustizia.
Sul punto, va premesso in linea generale che la possibilità che plurime dichiarazioni di coimputati nel medesimo reato (o in procedimento connesso o collegato ai sensi dell’art. 12 cod. proc. pen.) siano idonee a fungere da riscontro reciproco è una acquisizione stabile della giurisprudenza di legittimità, ribadita in molteplici arresti di questa Corte, concordi nel richiedere che tali dichiarazioni convergano sul nucleo essenziale del narrato, rimanendo quindi indifferenti eventuali divergenze o discrasie che investano soltanto elementi circostanziali del fatto, a meno che tali discordanze non siano sintomatiche di un’insufficiente attendibilità dei chiamanti stessi (Sez. U., n. 20804 del 29/11/2012, dep. 2013, COGNOME e altri, Rv. 255145; Sez. 1, n. 7643 del 28/11/2014, dep. 2015, COGNOME e altro, Rv. 262309; Sez. 1, n. 34102 del 14/07/2015, COGNOME e altro, Rv. 264368; Sez. 1, n. 17370 del 12/09/2023, dep. 2024, COGNOME, Rv. 286327). In tali pronunce, che hanno affrontato il tema della valutazione di convergenza delle dichiarazioni di reità o di correità dei collaboranti e, più in generale, della concordanza della prova orale, questa Corte di cassazione ha stabilito il principio di diritto, secondo il quale il “nucleo essenziale” della propalazione deve essere individuato e apprezzato non già in termini astratti dal contesto delle rappresentazioni, con esclusivo e limitato riferimento all’azione tipizzata dalla norma incriminatrice, bensì in rapporto allo “specifico fatto materiale oggetto dalla narrazione” nella sua interezza e alla stregua del rilievo assegnato dal dichiarante, nell’impianto narrativo, agli accadimenti, ai fatti, alle circostanze evocati. Analogo criterio merita di essere adottato nella valutazione della prova orale rappresentativa di fatti assai remoti nel tempo in relazione alle fisiologiche discrasie e incertezze comportate dall’inevitabile affievolimento del ricordo nella rielaborazione mnemonica del dichiarante. Sicché è stato ritenuto plausibile che particolari e dettagli secondari possano svanire o confondersi ovvero, addirittura, che neppure siano mai stati fissati nella memoria della fonte al momento della Corte di Cassazione – copia non ufficiale
originaria percezione sensoriale. Invero, l’esigenza di convergenza e di concordanza fra le dichiarazioni accusatorie provenienti da diversi soggetti rientranti fra quelli menzionati nei commi terzo e quarto dell’art. 192 cod. proc. pen., in funzione di reciproco riscontro fra le dichiarazioni stesse, non può essere spinta al punto di pretendere che queste ultime siano totalmente sovrapponibili tra loro, in ogni particolare, spettando invece pur sempre al giudice il potere-dovere di valutare, dandone atto in motivazione, se eventuali discrasie possano trovare plausibile spiegazione in ragioni diverse da quelle ipotizzabili nel mendacio di uno o più fra i dichiaranti.
1.2. L’impugnata sentenza ha operato nel rispetto di tali linee-guida, dando adeguatamente conto dell’attendibilità intrinseca ed estrinseca tributata alle propalazioni dei collaboratori di giustizia NOME COGNOME e NOME COGNOME con argomentazioni scevre da vizi logici e diffusamente illustrate alle pagine 227 e seguenti della motivazione. In tali spazi sono state affrontate tutte le censure della difesa, qui riproposte, in particolar modo analizzando la genesi dei contributi informativi alla luce della storia criminale dei propalanti e delle ragioni della decisione collaborativa, nonché degli ulteriori parametri richiesti per vagliare la validità delle informazioni.
Va, poi, considerato che tali propalazioni non costituiscono l’asse portante del costrutto motivazionale, bensì meri spunti di arricchimento di un quadro probatorio di per sé compiuto e costituito in massima parte dall’ingente messe di intercettazioni telefoniche ed ambientali, sia precedenti che successive alla vicenda processuale, al cui cospetto gli elementi tratti dagli apporti informativi dei collaboratori di giustizia si configurano come elementi probatori accessori e secondari.
L’attendibilità di NOME COGNOME non è scalfita dalle minuziose critiche dei ricorrenti. Essa è stata adeguatamente illustrata alle pagine 228-230 dell’impugnata sentenza, e dà conto della qualificata posizione di detto collaborante, non a caso definito da NOME COGNOME “occhio ed orecchio della Sanità”, onde rimarcarne la capillare conoscenza di luoghi, persone ed eventi e la fitta rete di relazioni da costui intessuta nel quartiere. Né hanno pregio le critiche di inattendibilità intrinseca, adombrate per la pretesa necessità del COGNOME di difendersi da dedotte ritorsioni dei Genidoni, poiché – come spiegano i giudici di appello – la collaborazione di costui era iniziata dopo che gli imputati erano già stati arrestati per i fatti per cui è processo, in base ad un solido e autonomo compendio probatorio (riconosciuto anche da questa Corte in sede cautelare), sicché non era a lui addebitabile alcun intento di calunnia o di inquinamento probatorio nell’indicazione delle responsabilità, ed infatti alcuna chiamata di reità
è stata effettuata dal COGNOME nei confronti degli altri imputati per la specifica vicenda in esame.
Va respinto il censurato vizio argomentativo per cui la sentenza di appello avrebbe attuato una completa elisione delle parti dell’esame del dichiarante che evidenziavano una palese controtendenza con l’asserita intimità dei rapporti con il clan COGNOME. Al contrario, sul punto si è logicamente espressa l’impugnata sentenza, rilevando che NOME COGNOME era nato, in prospettiva criminale, quale appartenente al clan COGNOME, tuttavia se ne era allontanato dopo l’omicidio di suo cognato, ritenendo che fosse addebitabile proprio ai COGNOME; né, successivamente, aveva aderito alla proposta di NOME COGNOME, che gli aveva offerto la gestione di una piazza di spaccio, restando però contiguo agli “uomini delle Fontanelle”, dai quali acquistava abitualmente cocaina e per i quali ricopriva il ruolo di informatore.
Quanto al collaboratore NOME COGNOME la sua attendibilità è stata parimenti congruamente ritenuta, trattandosi di soggetto inserito nel clan COGNOME appena diciassettenne e fornitore di preziose informazioni su tale organizzazione ampiamente sfruttate nella sentenza del GUP del Tribunale di Napoli del 26/4/2019 che aveva riconosciuto l’esistenza e l’operatività di detto clan.
Entrambi i collaboratori – nella parte in cui veicolano informazioni apprese da altre persone, fonti dirette di conoscenza – sono stati tacciati di inattendibilità in quanto smentiti dai propri interlocutori: per COGNOME, da NOME COGNOME detto “o’ zoo”, e per COGNOME da NOME COGNOME e NOME COGNOME (vedova di NOME COGNOME).
Trattasi di critiche reiterative e generiche per essere state adeguatamente considerate e confutate nell’impugnata sentenza.
In termini generali, correttamente la Corte di secondo grado si è attenuta all’insegnamento per cui non necessariamente va attribuita prevalente credibilità alla fonte diretta, escussa ai sensi dell’art. 195 cod. proc. pen., dovendosi invece considerare la situazione nel contesto generale. Invero, alla stregua dell’esegesi di legittimità, «In caso di contrasto tra quanto riferito dai testi de relato e dalla fonte da essi indicata, è legittima l’attribuzione, in esito ad esauriente verifica, di maggiore veridicità alle dichiarazioni dei primi, in quanto l’art. 195 cod. proc. pen. non stabilisce al riguardo alcuna gerarchia, ma prevede solo l’obbligo, a impulso di parte, di escussione giudiziaria della fonte diretta» (Sez. 1, n. 1717 del 21/12/1999, dep. 2000, Pg in proc. Modeo e altro, Rv. 215342; Sez. 1, n. 39662 del 07/10/2010, COGNOME, Rv. 248478; Sez. 6, n. 38064 del 05/06/2019, COGNOME, Rv. 277062).
Sul piano concreto, ineccepibile è la motivazione con cui le Corti di merito hanno illustrato le ragioni della ritenuta attendibilità tributata al collaborator COGNOME in contrapposizione alla testimonianza di NOME COGNOME.
Quest’ultimo ha tenuto in giudizio un atteggiamento reticente e minimizzante, affermando che il giorno dell’agguato non era mai entrato nel circolo, ma si era intrattenuto in INDIRIZZO per bere un caffè, e si era allontanato dopo aver udito gli spari, nel fuggi-fuggi generale (e non prima del fatto di sangue, come aveva riferito NOME COGNOME). Invece, NOME COGNOME e NOME COGNOME hanno riferito della sua presenza dentro il circolo, intento a raccontare barzellette, e NOME COGNOME – nella conversazione intercettata il 26.4.2016 aveva detto che c’era quello di vico COGNOME che faceva le battute.
Secondo COGNOME, alla stregua del racconto di COGNOME, “o’ zoo” si era rifugiato nel bagno, e dunque avrebbe ben potuto vedere lo sfondamento della parete di cartongesso, eventualmente dopo il termine della sparatoria. Né risulta inverosimile, come assume la difesa, che mentre costui era in bagno il killer avesse aperto la porta, scorgendolo e risparmiandolo, circostanza invece credibile ove si pensi che non era COGNOME l’obiettivo dell’azione criminosa e, del resto, COGNOME – nelle conversazioni intercettate successivamente – non aveva mai palesato timori di essere stato riconosciuto.
Anche per il collaboratore COGNOME è stata effettuata una valutazione di ampia credibilità, ad onta delle smentite operate dai testi di riferimento NOME COGNOME e NOME COGNOME. Non è irrilevante ricordare che COGNOME è stato condannato con sentenza irrevocabile per appartenenza al clan COGNOME ed evidentemente non aveva alcuna intenzione di collaborare all’accertamento della verità sulla vicenda in esame, mentre COGNOME aveva riferito di avere saputo da suo zio NOME COGNOME che lo COGNOME aveva riconosciuto COGNOME alias COGNOME, mentre scendeva armato dalla moto pochi attimi prima della strage; la medesima circostanza gli era stata riferita direttamente dallo Stella nel luglio 2016.
Ancora, non si ravvisa alcuna illogicità nella sorpresa espressa da NOME COGNOME, vedova di NOME COGNOME, alla notizia riferitale da NOME COGNOME in merito al riconoscimento dell’COGNOME, con riferimento al fatto che quindici giorni dopo l’agguato erano stati uccisi il padre ed il fratello dell’imputato. Invero, vi potrebbe essere stata una erronea collocazione temporale di tale conversazione, casualmente orecchiata dal COGNOME, in un’epoca tale da giustificare la reazione sorpresa della Cantalupo.
Il tema involge l’ulteriore doglianza riguardante il momento storico in cui i vertici del clan COGNOME avrebbero avuto conoscenza della riferibilità della strage ad NOME COGNOME profilo che per i ricorrenti non avrebbe ricevuto corretta trattazione nell’impugnata sentenza. Al riguardo, la difesa
enfatizza il dato che COGNOME aveva indicato tale momento nella fase delle condoglianze, in cui NOME COGNOME stava iniziando una inchiesta privata per l’individuazione dei responsabili; COGNOME, invece, aveva situato la conoscenza dei responsabili da parte dei COGNOME già nelle ore immediatamente successive alla strage. Ebbene, si rimarca che i due termini cronologici non appaiono così distanti da concretizzare una effettiva e in qualche modo rilevante discrasia tra i due propalanti, mentre resta intatta la valenza processuale di tali dichiarazioni, convergenti su molteplici profili, quali i mandanti dell’agguato, la sua causale, le modalità di azione, l’identità del killer, elementi emergenti anche e soprattutto dal compendio captativo, in funzione del quale si valorizzano le informazioni rese dai collaboratori di giustizia.
Nemmeno risulta integrato il dedotto vizio di travisamento per omissione del dialogo n. 53 del 23 aprile 2016 delle ore 19.11.02 tra NOME COGNOME e tale COGNOME soggetto non identificato, da cui la difesa rileva che 24 ore dopo la strage il clan COGNOME non aveva ancora individuato i responsabili del fatto: da ciò si accampano criticità per la valutazione dell’attendibilità oggettiva del collaboratore COGNOME, nonché per l’idoneità delle sue propalazioni a fungere da riscontro incrociato della chiamata in reità del collaboratore COGNOME
Anche tale censura deve essere respinta: evidentemente nessun particolare rilievo è stato attribuito a tale conversazione – peraltro citata a pag. 35 della sentenza di primo grado – per la ragione che da essa emerge un dato neutro, attinente alla “nebbia” che ancora aleggiava intorno a mandanti ed esecutori della strage, pur essendo in corso approfondimenti da parte del clan colpito, com’è abituale in simili frangenti, essendo necessario accertare la provenienza dell’aggressione onde orientare la reazione nella giusta direzione.
1.3. Nel secondo motivo si censura la pretesa lettura travisante e contraddittoria delle prove acquisite dalle intercettazioni delle comunicazioni, ritenute carenti di concludenza probatoria in rapporto al canone del ragionevole dubbio. Trattasi di doglianza radicalmente infondata.
Si premette che non si ritiene di ritornare sulle ricostruzioni alternative della vicenda propugnate dalla difesa dei ricorrenti, trattandosi di argomentazioni generiche per non essersi confrontate con le contrarie valutazioni delle sentenze di merito, ambito cui appartiene tale doglianza.
Il tema – che è stato ripreso in tutti i ricorsi – sarà trattato in fra, nel paragrafo 3.2. (in sede di esame del ricorso NOME).
Tornando alle censure rilevanti illustrate in detto macro-motivo, vengono in rilievo le conversazioni 3594 e 3595 dell’1.5.2016 (in realtà un dialogo unitario pur scisso in due progressive), in cui vi è la famosa frase “il patto qual era? una botta, ora ne ho fatte cinque” proferita dall’COGNOME e, a ragione, ritenuta dai
giudici di merito prova inconfutabile della rivendicata paternità dell’azione di fuoco.
La lettura di tali conversazioni illustrata nelle sentenze di merito è invece di lineare conseguenzialità logica, e deve qui validarsi.
La prima conversazione n. 3594, captata nell’abitazione milanese del Genidoni, aveva ad argomento il dato che i COGNOME, nonostante il colpo subìto il 22/4/2016, proseguivano nell’opera di cacciare i familiari di Genidoni dal rione Sanità, così destando l’ira del capo-clan che affermava la necessità di una soluzione radicale, come quella di aggredire qualche familiare dei COGNOME per schiattargli la capuzzella a terra; aggiungeva di aver inviato come intermediario COGNOME, cioè NOME COGNOME, per cercare un contatto con NOME (indicato come lo scemo che tiene sessant’anni) onde fare smettere tale cacciata, senza conseguire alcun risultato.
L’interlocutore NOME COGNOME, pur adottando toni più cauti e paventando una escalation di violenze, particolarmente ai danni della “brava gente”, cioè di familiari non coinvolti nelle dinamiche della malavita, si offriva di scendere giù a fare “un’altra tarantella”, così chiaramente evidenziando che vi era stata una precedente tarantella ad opera sua.
La difesa ha riproposto la tesi per cui il vuoto sonoro di un secondo e mezzo tra le progressive 3594 e 3595 sarebbe sufficiente a pronunciare due o tre parole, nel momento in cui COGNOME stava articolando il suo discorso, dato che poteva sostenere la tesi che COGNOME stesse riferendo discorsi altrui, fatti da “quello scemo mongoloide”, ma tale impostazione non trova conferme nel prosieguo della conversazione e si rivela del tutto congetturale, come ha osservato l’impugnata sentenza.
La tesi difensiva è che detta frase era riferita ad un discorso di altri, ossia riguardante gli COGNOME che avevano esortato i COGNOME ad intraprendere azioni contro i COGNOME. Ciò emergerebbe dalle parole pronunciate da NOME ed NOME che rimpallano l’espressione “hanno fatto”. Sul punto, la Corte ha i invece rilevato che l’espressione prova la cautela dei dialoganti per timore di essere intercettati, né vi è alcuna manipolazione del testo trascritto dall’ing. COGNOME (pag. 203): infatti, NOME dapprima dice “abbiamo fatto”, ma viene subito corretta da NOME che rettifica in “hanno fatto, hanno fatto”, essendosi ritenuto che in una parte il dialogo fosse chiaro e spontaneo, in altra invece condizionato dalla consapevolezza di essere intercettati.
Ancora, si duole la difesa che la Corte non avrebbe considerato la conversazione n. 3627 del 2/5/2016 (trascritta su impulso della difesa), che dovrebbe leggersi con riferimento alla conversazione n. 3595.
Tale critica è ingiustificata, in quanto l’impugnata sentenza ha dedicato un intero paragrafo (pagine 221-227) all’esame e alla valutazione delle intercettazioni trascritte su istanza della difesa, con specifico riferimento proprio al progressivo n. 3627, riportando integralmente il testo della conversazione intercorsa tra NOME COGNOME ed NOME COGNOME.
Ebbene, si rimarca che da detta fumosa conversazione non si evince che altri sarebbero i responsabili della strage, si parla piuttosto di iniziative futur ancora da compiere, e, peraltro, non si comprende chi sarebbe il terzo il cui discorso è riportato da COGNOME, il quale comunque – nella conversazione n. 3594/3595 – si diceva disponibile a tornare a Napoli a fare un’altra “tarantella”, ossia un’altra azione eclatante, a conferma di avere già attuato una prima tarantella. Né si può seriamente obiettare che il rilievo circa l’illogicità della tesi difensiva, priva dell’indicazione del soggetto cui si fa riferimento nella conversazione, contrasta col diritto al silenzio, poiché in tal caso si resta nell’ambito di una mera congettura, che non avvalora la ricostruzione alternativa propugnata dalla difesa.
Gli ulteriori profili di ritenuta illogicità manifesta sono del tutto infondati.
In particolare, quello che lamenta che non vi sia traccia nell’impugnata sentenza del conflitto tra i COGNOME ed i COGNOME prima e dopo la strage del 22 aprile 2016, è contrastato dalle intercettazioni riferibili a COGNOME. Nemmeno risponde al vero che il clan COGNOME avesse ridottissima capacità criminale, come emerge chiaramente dalla sentenza irrevocabile di condanna di detta organizzazione per il delitto ex art. 416 bis cod. pen. (Sez. 1, n. 41797 del 9/6/2023), e come già era insito nell’accertamento contenuto nella sentenza del GUP di Napoli del 26/4/2019.
Il tema della cacciata dal INDIRIZZO dei familiari di COGNOME è stato congruamente trattato dai giudici di merito alla stregua di quanto è emerso proprio da detta sentenza, mentre il particolare che in una conversazione di NOME COGNOME (non riportata per esteso) costei avesse affermato che NOME COGNOME le aveva fatto le scuse per l’intimidazione nei confronti del fratello NOMECOGNOME non esclude il dato oggettivo che fin dal febbraio 2016 (dunque ben prima del ritrovamento del fucile da parte di NOME COGNOME) i COGNOME stessero cercando NOME COGNOME, madre di NOME, per cacciarla dal quartiere, cosa puntualmente avvenuta, e che la donna commentava i primi giorni di marzo, affermando che “vogliono che noi ce ne dobbiamo andare dalla Sanità”.
Ancora, la difesa dei ricorrenti contesta che i dialoghi 634, 635, 639 e 2210 presentino riferimenti all’azione del 22 aprile, ma in termini non convincenti: il primo attesta un conflitto tra più parti belligeranti, osservazione che non esclude la tesi accusatoria; il n. 635 riguarda un progetto da attuare fuori la
Chiesa ed è comunque indicativo del preventivo studio di fattibilità del piano omicidiario, parlandosi di colpire i Vastarella nella loro zona; per il dialogo n. 639 riguardante il percorso che avrebbe dovuto fare il killer, la difesa rimarca che non si è considerata la relazione del consulente tecnico di parte dalla quale emerge che gli itinerari menzionati non erano compatibili con quelli seguiti realmente dal killer. Ma tale dato non rileva, poiché l’azione programmata era sempre quella, da compiersi in quel rione, evidentemente rimodulata con adattamenti dell’ultim’ora, come hanno osservato i giudici del merito. Invero, nessun pregio riveste la critica per cui le modalità di azione del 22/4/2016 non avevano trovato preciso riscontro nei dialoghi intercettati quanto all’uso di un solo motorino e non di autovetture, ovvero all’uso di una moto Honda SH 300 e non di uno Sport City: ad onta delle contrarie affermazioni della difesa, può fondatamente ritenersi che le effettive modalità dell’agguato siano state decise nei particolari soltanto in prossimità dell’azione, quando tutti gli imputati si eran concentrati a Napoli, giungendovi da Milano, senza una ragione diversa da quella di procedere all’azione delittuosa, e al sicuro dalle intercettazioni ambientali, che erano in corso soltanto nel domicilio milanese del Genidoni. Non a caso, dopo la strage, gli imputati erano rientrati a Milano, in tempi diversi ma ravvicinati, ed familiari di NOME COGNOME si erano rifugiati a Fabriano, per il timore di subire ritorsioni.
Infine, la conversazione n. 2210 del 31/3/2016 conteneva lo sfogo di NOME COGNOME che invocava per i COGNOME “lo stesso dolore che ho avuto io, la mamma tale e quale lo deve avere …”, e, con ragione, è stata ritenuta da entrambe le Corti di Assise una delle captazioni collegate ai progetti di vendetta contro il clan nemico.
1.4. I motivi di impugnazione successivi sono dedicati alla contestazione delle aggravanti della premeditazione, dei motivi abietti, e di quella ex art. 416 bis.1 cod. pen.
Nessuno di tali motivi può ritenersi dotato di qualche fondatezza, mentre deve validarsi pienamente la motivazione resa dai giudici di merito.
Quanto alla premeditazione, è stato rimarcato come l’agguato omicidiario aveva avuto lunga gestazione, iniziando a profilarsi nella mente degli imputati nei mesi precedenti, prendendo progressivamente corpo nelle riflessioni sulla predisposizione del piano manifestate dalle captazioni telefoniche ed ambientali, senza mai deflettere gli interlocutori dalla volontà di attuare la risposta armata alla cacciata dal Rione Sanità, pur essendosi la fase organizzativa protratta per un consistente periodo di tempo.
L’agguato era in danno del clan COGNOME, obiettivo assunto in termini generali, sicché la mancata uccisione di NOME COGNOME il quale fortunosa-
mente e grazie alla prontezza di NOME COGNOME era riuscito a trovare scampo nell’intercapedine sfondata, nulla toglie alla piena riuscita del programma delittuoso nei modi in cui era stato concepito ed organizzato.
Ricorre senz’altro anche l’aggravante della mafiosità, in entrambe le esplicazioni dell’agevolazione di un’organizzazione mafiosa, nonché del ricorso al metodo mafioso, come ha illustrato esaustivamente l’impugnata sentenza.
La censura per cui detta aggravante non sarebbe configurabile in quanto non sorretta da provvedimenti giudiziari definitivi, né da accertamenti incidentali sulla pretesa caratura mafiosa del gruppo criminale capeggiato da NOME COGNOME non è congruente, né coerente con il dato della intervenuta definitività della sentenza di questa Corte, Sez. 1, n. 41797 del 9/6/2023, che ha sancito la natura camorristica del clan COGNOME. È noto che la circostanza aggravante dell’agevolazione mafiosa, prevista dall’art. 416-bis.1 cod. pen., postulando che il reato sia commesso al fine specifico di agevolare l’attività di un’associazione mafiosa, implica necessariamente la prova dell’esistenza reale e non semplicemente supposta di essa (Sez. 6, n. 11352 del 31/01/2023, COGNOME, Rv. 284471), ma ciò non implica che l’accertamento probatorio sia soltanto quello dotato del crisma della definitività, né che sia senz’altro acclarata la sussistenza di una compagine mafiosa o camorristica di riferimento, non solo quando è contestato l’utilizzo del metodo mafioso, ma neppure quando è addebitata la finalità agevolativa, anche se, in questa seconda evenienza, occorre che lo scopo sia quello di contribuire all’attività di un’associazione operante in un contesto di matrice mafiosa, secondo una logica di contrapposizione tra gruppi ispirati da finalità di controllo del territorio con le modalità tipiche previ dall’art. 416-bis cod. pen. (Sez. 1, n. 18019 del 11/10/2017, dep. 2018, Calabria, Rv. 273302; Sez. 2, n. 27548 del 17/05/2019, COGNOME, Rv. 276109), come per l’appunto accade nel caso di specie. Corte di Cassazione – copia non ufficiale
Infine, è stato correttamente ritenuto sussistente dai giudici del merito il concorso tra la citata aggravante e quella dei motivi abietti, secondo il seguente schema argomentativo. Diversamente dai casi in cui vi è assorbimento di detta aggravante, allorché finisce per coincidere con la finalità di agevolazione di un sodalizio di stampo mafioso o che agisce in una logica di tal genere, nel caso di specie il motivo abietto conserva una sua autonoma rilevanza, poiché copre un ulteriore margine di disvalore aggiuntivo, costituito dalla specifica finalità di attuare una violenta ritorsione in danno dei COGNOME, rei di avere orchestrato la cacciata dei Genidoni dal INDIRIZZO, iniziativa che era stata percepita come un intollerabile affronto, da punire con l’eliminazione dei membri di rilievo della contrapposta organizzazione. Tale impostazione è riconosciuta nell’esegesi di questa Corte, che ha affermato – nella massima composizione collegiale – che
«Allorché siano contestate, in relazione al medesimo reato, le circostanze aggravanti di aver agito sia al fine di agevolare l’attività di un’associazione di tip mafioso, sia per motivi abietti, le due circostanze concorrono se quella comune, nei termini fattuali della contestazione e dell’accertamento giudiziale, risulta autonomamente caratterizzata da un quid pluris rispetto alla finalità di consolidamento del prestigio e del predominio sul territorio del gruppo malavitoso» (Sez. U, n. 337 del 18/12/2008, dep. 2009, COGNOME e altri, Rv. 241577: fattispecie in cui la circostanza del motivo abietto era consistita nell’intent punitivo dell’autore di un omicidio, dettato da spirito di mera sopraffazione, e quella dell’agevolazione mafiosa nella volontà di riaffermare, attraverso il delitto così connotato, la persistente supremazia del sodalizio criminale. In termini: Sez. 6, n. 9956 del 17/06/2016, dep. 2017, COGNOME e altri, Rv. 269718; Sez. 1, n. 24950 del 22/2/2023, COGNOME ed altri, Rv. 284829).
1.5. L’ultimo motivo di censura ha riguardato il trattamento sanzionatorio, ritenuto eccessivo per la negazione delle circostanze attenuanti generiche e per l’inflizione della massima pena detentiva.
Tale motivo è inammissibile poiché deduce argomentazioni di mero stampo confutativo, laddove la motivazione sugli indicati profili non presenta lacune o elementi di illogicità, avendo congruamente motivato – secondo i parametri indicati da questa Suprema Corte – sia le ragioni di evidente mancanza di meritevolezza delle invocate attenuanti da parte dei ricorrenti NOME ed NOME Emanuele Salvatore, alla stregua di tutti i criteri oggettivi e soggettivi indicati dall’art. 133 cod. pen., sia la dosimetria della pena, conseguente all’accertamento delle contestate aggravanti, in specie quella della premeditazione, alla pluralità dei delitti puniti con pena perpetua, e alla operatività dell continuazione, che hanno comportato anche l’applicazione dell’isolamento diurno per la durata di un anno.
Ricorsi nell’interesse di NOME COGNOME e NOME COGNOME.
Le posizioni di tali imputate sono state oggetto sia di atti di impugnazione individuali, che di un atto congiunto.
2.1. È preliminare l’esame dell’eccezione di inutilizzabilità delle intercettazioni telefoniche ed ambientali, illustrata nell’atto a firma del difensore comune delle ricorrenti, avv. COGNOME nonché nei motivi aggiunti presentati dalla difesa dell’imputato COGNOME che trattano lo stesso tema, anche sotto il profilo della Legge 9 ottobre 2023, n. 137, di conversione del D.L. n. 105 del 9 agosto 2023, contestandone la natura di norma interpretativa e dunque l’applicabilità alla vicenda in esame, e ventilando, in caso di diversa soluzione, criticità di tenuta costituzionale e convenzionale della nuova normativa.
Il problema si è posto a causa di una pronuncia di questa Suprema Corte – Sez. 1, n. 34895 del 30 marzo 2022, COGNOME, Rv. 283499 – che reca la seguente massima: «In tema di intercettazioni di conversazioni o comunicazioni, per delitti di “criminalità organizzata”, di cui all’art. 13 d.l. 13 maggio 19 convertito, con modificazioni, dalla legge 12 luglio 1991, n. 203, devono intendersi tutti i reati di tipo associativo, anche comuni, correlati ad attiv criminose più diverse, ai quali è riferito il richiamo ai delitti elencati nell’art commi 3-bis e 3-quater, cod. proc. pen., con esclusione delle ipotesi di mero concorso nei delitti commessi avvalendosi delle condizioni di cui all’art. 416-bis cod. pen. ovvero al fine di agevolarne l’attività».
Si è dunque ritenuto, da parte delle difese dei ricorrenti, che – trattandosi nel caso in esame di delitti non formalmente correlati a fattispecie associative non fosse applicabile la più larga disciplina autorizzativa delle captazioni telefoniche ed ambientali, ab origine autorizzate con richiamo ai delitti ex art. 51, commi 3 bis e 3 quater, cod. proc. pen., con conseguente illegittimità del decreto autorizzativo n. 643/2016, mancando le condizioni di applicazione del regime derogatorio previsto dall’art. 13 d. I. n. 152 del 1999.
Osserva questa Corte, tuttavia, che in materia è di recente intervenuta la citata Legge n. 137 del 2023, dettando disposizioni che hanno così statuito:
Capo I DISPOSIZIONI IN MATERIA DI PROCESSO PENALE
«Art. 1 Disposizioni in materia di intercettazioni
1. Le disposizioni di cui all’articolo 13 del decreto-legge 13 maggio 1991, n. 152, convertito, con modificazioni, dalla legge 12 luglio 1991, n. 203, si applicano anche nei procedimenti per i delitti, consumati o tentati, previsti dagli articoli 452-quaterdecies e 630 del codice penale, ovvero commessi con finalità di terrorismo o avvalendosi delle condizioni previste dall’articolo 416-bis del codice penale o al fine di agevolare l’attività delle associazioni previste dallo stesso articolo.
2. La disposizione del comma 1 si applica anche nei procedimenti in corso alla data di entrata in vigore del presente decreto.» Omissis
La giurisprudenza di questa Corte ha già esaminato il tema della natura di tali disposizioni, nella sentenza di Sez. 2, n. 47643 del 28/09/2023, Putignano, Rv. 285524, in cui si è affermato che, «in tema di intercettazioni, ha natura di norma interpretativa, come tale applicabile retroattivamente, la previsione dell’art. 1 d.l. 10 agosto 2023, n. 105, convertito dalla legge 9 ottobre 2023, n. 137, che ha definito l’ambito applicativo della disciplina “speciale” di cui all’art. 13 d.l. 13 maggio 1991, n. 152, convertito, con modificazioni, dalla legge 12 luglio 1991, n. 203, riguardante i presupposti e le modalità esecutive delle operazioni di captazione nei procedimenti per delitti di criminalità organizzata,
tra i quali quelli, consumati o tentati, commessi avvalendosi delle condizioni previste dall’art. 416-bis cod. pen. o al fine di agevolare l’attività de associazioni in esso contemplate».
Non residuano, dunque, perplessità sulla natura interpretativa di tale legge, caratteristica che ne garantisce l’applicazione retroattiva, particolarmente con riguardo ai delitti, consumati o tentati, commessi avvalendosi delle condizioni previste dall’art. 416-bis cod. pen., considerato peraltro che la pronuncia valorizzata dalle difese non si poneva come espressione univoca nella esegesi di legittimità in tema di intercettazioni, trovando contrasto in altr pronunce, ed è stata infine smentita in sede legislativa.
Invero, con riguardo alla rilevata assenza di una nozione giuridica unitaria di “criminalità organizzata”, l’elaborazione giurisprudenziale si è orientata verso la costruzione di una piattaforma ampia, che trova giustificazione nei principi già sanciti dalle sentenze delle Sezioni Unite Petrarca (n. 17706 del 22 marzo 2005) e Donadio (n. 37501 del 15/07/2010), e da ultimo dalla sentenza COGNOME (n. 26889 del 28/04/2016), pronunce in cui i “delitti di criminalità organizzata” sono stati valutati in una prospettiva teleologica volta a valorizzare gli obietti perseguiti dalla norma al fine di consentire l’uso di uno strumento efficace di repressione dei reati più gravi. Sulla scorta di tali pronunce, il regime derogatorio previsto dall’art. 13 è stato dunque ritenuto applicabile, oltre che ai reati associativi, anche ai reati monosoggettivi indicati all’art. 51, commi 3-bis e 3-quater, cod. proc. pen., aggravati dal metodo mafioso, dalla finalità di agevolare un’associazione mafiosa e per finalità di terrorismo.
Per le ragioni esposte, deve essere respinta l’eccezione di inutilizzabilità delle captazioni telefoniche ed ambientali svolte nel presente processo.
2.2. Il secondo motivo condiviso contesta l’affermazione di responsabilità del COGNOME e dunque delle due ricorrenti.
Analizzando specificamente la causale della vicenda, si ribadisce che non sussistevano ragioni sufficienti per commettere la cd. strage di Fontanelle: infatti, dalle conversazioni tra gli imputati emergeva soltanto il disprezzo verso i nemici COGNOME, anche per il diverso modo di intendere “la malavita”. Inoltre, la cacciata dal rione Sanità dei familiari del COGNOME era avvenuta successivamente alla pianificazione dei delitti, così da escludere il supposto legame di causa ed effetto: sul punto la Corte territoriale avrebbe travisato le prove in relazione alla corretta cronologia dei fatti.
Trattasi di obiezioni confutative e generiche, perché non aderenti alle risultanze probatorie ed alle argomentazioni delle sentenze di merito.
Le captazioni effettuate prima dell’azione di fuoco davano ampiamente conto della decisa volontà del gruppo di “schiattare a terra la testa” degli odiati
nemici, il guappone NOME COGNOME ed il figlio, e dunque non erano soltanto espressione del più sentito disprezzo nei loro confronti: eloquenti in tal senso, tra le molte captazioni, quelle del progr. n. 930 e del progr. n. 2794.
A cagionare tale irriducibile avversione devono ritenersi senz’altro motivi sufficienti l’uccisione di NOME e NOME COGNOME, marito e figlio di NOME COGNOME, e l cacciata del gruppo COGNOME dal INDIRIZZO, minaccia esiziale per la sopravvivenza di detto clan. La spinta all’azione di sangue, peraltro, non è addebitabile soltanto al COGNOME, ma primariamente alla madre, che si era espressa in termini cruenti proprio commentando la sua cacciata dal quartiere, nel progr. 886, e deprecando di essere stata una donna sola e senza protezione, avendo il figlio in carcere, altrimenti avrebbe provveduto a “schiattare” NOME COGNOME. Eguali propositi di vendetta e di sangue erano manifestati dalla nuora NOME COGNOME, nel progr. n. 1842.
Quanto al dedotto travisamento delle prove alla stregua della cronologia dei fatti, si rileva che NOME COGNOME veniva costretta ad abbandonare l’abitazione nel febbraio 2016, con immediata correlazione alle minacce subite dal fratello della COGNOME, NOMECOGNOME nello stesso contesto, e del tutto infondata è la pretesa mancanza di prova che la donna non si fosse allontanata di sua volontà, attese le già richiamate frasi bellicose pronunciate in argomento dalla COGNOME, che affermava pure di avere dovuto aspettare che il figlio uscisse dal carcere per ottenere l’agognata vendetta. Pertanto, l’esatta cronologia degli eventi vede dapprima attuarsi la cacciata dal quartiere Sanità dei familiari del Genidoni – la madre nel febbraio, la moglie nel marzo 2016 – e poi, progressivamente, il dipanarsi delle attività di istigazione, ideazione, preparazione e infine esecuzione dell’agguato, protrattesi nei mesi di marzo e aprile 2016.
Non è utile a smentire la programmazione dell’agguato il dato che il riferimento alle Fontanelle sia affidato soltanto alla citazione di una scalinata, mentre il richiamo ad un garage è da intendersi indicato come base logistica, e non ad un obiettivo da colpire, oltre al già esposto rilievo che i profili di concret programmazione non possono che essere stati fissati nell’imminenza dell’azione.
Svetta tra tutti gli elementi indiziari, poi, il rilievo assai pregnante ch dopo l’esecuzione dell’agguato, erano cessate le captazioni imperniate su argomenti di ideazione e preparazione dell’azione di fuoco, specificando peraltro che non è esatta l’affermazione difensiva che l’ultima conversazione in tal senso sarebbe da collocare al 31.3.2016, oltre venti giorni prima dei fatti, essendo da annoverare tra i dati rilevanti anche il dialogo del 12 aprile 2016 (progr. 2794), in cui NOME aveva manifestato l’intenzione di scendere laggiù e uccidere il guappone e NOME COGNOME. Peraltro, il successivo 19 aprile Genidoni aveva
appreso che i COGNOME avevano sigillato le porte di casa dei suoi familiari, così ricevendo una potente sollecitazione ad agire.
Le conversazioni captate dopo i fatti, effettivamente, contengono espressioni meno dirette e non chiaramente confessorie, ma si è detto che si trattava di precauzioni intese ad allontanare i sospetti dal gruppo, come quando le donne avevano rimbeccato NOME che aveva affermato “abbiamo fatto”, venendo subito corretto da NOME che rettificava in “hanno fatto, hanno fatto” (progr. n. 3595).
Anche le svariate causali alternative indicate dalla difesa risultano diversivi privi di concretezza, non essendosi accertate le relative responsabilità, in particolare in merito al ferimento di NOME COGNOME nell’ottobre 2016, o il collegamento con la vicenda in esame degli omicidi di NOME ed NOME COGNOME, commessi nel maggio 2017, e di NOME COGNOME e NOME COGNOME, uccisi il 3 agosto 2016.
Infine, la denuncia che i collaboratori di giustizia non abbiano affatto parlato della COGNOME e della COGNOME, con attribuzione di ruoli specifici, è un dato irrilevante, in quanto NOME COGNOME e NOME COGNOME hanno riportato informazioni, specificamente sulla fase esecutiva dell’agguato, acquisite in gran parte de relato dalle persone presenti, sicché nulla avrebbero potuto relazionare in merito ai contributi concorsuali – dietro le quinte – offerti dalle due imputate da NOME COGNOME nelle fasi di ideazione e preparazione dell’azione di fuoco.
2.3. Nell’impugnazione congiunta, nonché nei primi tre motivi del ricorso di NOME COGNOME e nel primo motivo del ricorso di NOME COGNOME si contesta l’affermazione di responsabilità delle due imputate per i reati in esame, negando che ricorrano gli indici del concorso nel reato, nei rispettivi ruoli la COGNOME di mandante e concorrente nella fase esecutiva, e la COGNOME di partecipe alla fase preparatoria mediante attività di istigazione e supporto tali da rafforzare il proposito criminoso.
Le censure, da trattare congiuntamente, sono infondate.
In termini generali, va affermato che le conformi sentenze di merito hanno ben lumeggiato le condotte di ciascuna imputata, essenzialmente tratte dalle captazioni telefoniche ed ambientali, rivelatrici del loro ruolo attivo nell fasi di ideazione, istigazione, preparazione ed esecuzione dell’azione di sangue.
Non vi è stata un’indistinta e generica attribuzione di responsabilità, come obiettano le difese, ma una precisa indicazione di atti e comportamenti delle due donne, tali da soddisfare i requisiti tratti dall’elaborazione teorica del reato plur soggettivo, che richiede una rigorosa individuazione delle condotte organiche, per quanto atipiche, alla consumazione del reato in forma collettiva.
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I precetti rilevanti in argomento ribadiscono che «In tema di concorso di persone nel reato, la circostanza che il contributo causale del concorrente morale possa manifestarsi attraverso forme differenziate e atipiche della condotta criminosa (istigazione o determinazione all’esecuzione del delitto, agevolazione alla sua preparazione o consumazione, rafforzamento del proposito criminoso di altro concorrente, mera adesione o autorizzazione o approvazione per rimuovere ogni ostacolo alla realizzazione di esso) non esime il giudice di merito dall’obbligo di motivare sulla prova dell’esistenza di una reale partecipazione nella fase ideativa o preparatoria del reato e di precisare sotto quale forma essa si sia manifestata, in rapporto di causalità efficiente con le attività poste in essere dagl altri concorrenti, non potendosi confondere l’atipicità della condotta criminosa concorsuale, pur prevista dall’art. 110 cod. pen., con l’indifferenza probatoria circa le forme concrete del suo manifestarsi nella realtà» (Sez. U, n. 45276 del 30/10/2003, Pg, COGNOME e altri, Rv. 226101; in termini: Sez. 2, n. 43067 del 13/10/2021, COGNOME, Rv. 282295). È stato altresì affermato che «In tema di concorso di persone, il contributo psichico rilevante ai sensi dell’art. 110 cod. pen., in caso di azione collettiva, deve essere espressivo di condivisione dell’evento, in forma solo verbale o accompagnata da manifestazioni esteriori diverse dalla condotta tipica, ed idoneo a semplificare o agevolare l’ideazione o l’esecuzione dell’azione, anche se solo nei confronti di una parte consistente di compartecipi» (Sez. 1, n. 6237 del 15/09/2021, Dell’Aquila, Rv. 282620).
Non potendosi qui pedissequamente ripercorrere tutte le specifiche indicazioni fattuali dell’impugnata sentenza, nonché di quella di primo grado, illustrative delle condotte attribuite alle imputate, ci si limita a rimarcare che notazione difensiva riguardante “la notoria impronta fortemente maschilista che connota le organizzazioni di tipo mafioso” è un tratto che appartiene al passato, essendosi anche tali organizzazioni “evolute”, come il resto della società, tanto da affidare alle componenti femminili ruoli di grande rilievo, a prescindere dalla restrizione in carcere dei congiunti uomini. Nella specie, è innegabile il ruolo primario svolto particolarmente da NOME COGNOME nello spingere all’azione il figlio e gli altri, cercando ostinatamente quel riscatto dall’umiliante cacciata dal quartiere che soltanto un’azione ben orchestrata poteva assicurare, e soprattutto una vendetta contro i COGNOME, che erano da lei ritenuti gli autori dell’omicidio de figlio NOME nel gennaio 2015, e del marito NOME Esposito nel novembre 2015.
Né si può affermare che le sollecitazioni delle due imputate verso NOME fossero rimaste prive di concreta incidenza sulle determinazioni di quest’ultimo, sol perché provenienti da persone di genere femminile. Invero, alle pagine 100 e seguenti della sentenza di primo grado vi è un’esauriente rassegna dei contributi più significativi apportati da NOME COGNOME e NOME COGNOME alla
causa dell’agguato, con la ricerca di persone adatte a fungere da “specchiettisti” che fossero in grado di operare alle Fontanelle senza destare sospetti, come raccomandava la COGNOME, e con proposte di vario genere (conversazione n. 2210 del 31/3/2016, citata). In specie, NOME COGNOME consigliava “tu devi colpire al cuore, devi prendere il cuore… perché una volta che hai preso il cuore…”, e la suocera completava: “deve fare lo stesso dolore che ho avuto io, la mamma tale e quale lo deve avere…”.
Dal canto suo, COGNOME le metteva al corrente dei progressi del progetto organizzativo, informandole che “NOME stava accompagnando loro fino a sopra il posto, portava le armi sopra a Materdei”, così dando conto della piena consapevolezza di entrambe le donne dell’approvvigionamento di armi utili all’azione in fieri; ancora, tre giorni prima dell’agguato, COGNOME aveva informato la madre che “ieri sera gli ho mandato le pistole”, e la COGNOME aveva ribattuto: “mamma mia… e quando è?”. Nel progressivo n. 3594 del 1° maggio 2016, la medesima esclamava rammaricata: “sfortunatamente non abbiamo preso il perno principale”, osservazione riferita al fatto che nell’agguato erano stati colpiti soltanto i nipoti ed il cognato del guappone NOME COGNOME e nemmeno il figlio NOME, così controbattendo ad NOME COGNOME che aveva proferito la famosa frase: “quale era il patto, una botta? Ne ho fatte cinque… adesso che vuoi …”. Infatti, la Spina pretendeva l’eliminazione del padre o del figlio, intesi come NOME e NOME COGNOME e NOME COGNOME aveva aggiunto: “… e pure il fanatico” (agnome attribuito a NOME COGNOME, come ha testimoniato il Comm. NOME COGNOME).
2.3. Per gli ulteriori motivi di ricorso riguardanti l’aggravante ex art. 416 bis.1 cod. pen., la premeditazione ed i motivi abietti, si fa rinvio alla trattazio del punto illustrata per gli imputati NOME COGNOME (paragrafo 1.4.).
Si specifica che la premeditazione è di ampia evidenza per entrambe le imputate, come è stato osservato dai giudici di merito, per il tambureggiamento di sollecitazioni rivolte al COGNOME onde attuare la vendetta contro i COGNOME e per l’ausilio prestato nell’ideazione e nell’organizzazione della strage.
Parimenti, sussiste in via autonoma e senza assorbimento, come si è già illustrato per i ricorrenti COGNOME ed COGNOME, l’aggravante del motivo abietto, palpabile nelle esternazioni delle due donne, laddove fomentavano il congiunto a “colpire al cuore”, infliggendo ai COGNOME lo stesso dolore che avevano provato loro per l’uccisione dei familiari.
In tal modo, si conferma che – oltre all’aggravante di stampo mafioso, che risulta perfettamente integrata nella vicenda in ambedue i profili, richiamandosi sul punto le precedenti considerazioni – la condotta delle imputate è stata informata ad un ulteriore impulso negativo consistente nel fine punitivo del clan
nemico, dettato da spirito di vendetta e di mera sopraffazione, come è riconosciuto dall’esegesi di legittimità sopra citata.
Va altresì specificato che non è condivisibile il rilievo per cui, trattandos di concorrenti morali, non sarebbero imputabili alle due donne le aggravanti incidenti sul contributo causale ai fatti.
Sul punto, si osserva che l’art. 118 cod. pen. prescrive di valutare, soltanto con riguardo alla persona cui si riferiscono, le circostanze concernenti i motivi a delinquere, l’intensità del dolo e il grado della colpa (oltre che ovviamente, “le circostanze inerenti alla persona del colpevole”), con riferimento all’art. 70 n. 2 cod. pen. che reca la nozione di circostanze soggettive.
Nel caso di specie, tuttavia, vi è piena comunanza dei motivi a delinquere, nonché identica intensità del dolo quanto alle posizioni delle due ricorrenti COGNOME ed COGNOME, ad onta del contributo soltanto morale delle medesime. L’esegesi di legittimità, del resto, ha teorizzato l’estensione di tali circo stanze al al concorrente, senza specifiche distinzioni tra contributo materiale e partecipazione morale, sia con riguardo alla premeditazione, che per i motivi abietti. In termini generali, si è affermato che in materia di valutazione delle circostanze aggravanti o attenuanti (art. 118 cod. pen.), la premeditazione (che attiene all’intensità del dolo sotto il profilo del perdurare nel tempo, all’inter del soggetto, di una risoluzione criminosa irrevocabile) può essere estesa al coimputato – che non abbia partecipato all’originaria deliberazione volitiva – solo qualora costui ne abbia acquisito piena consapevolezza precedentemente al suo contributo all’evento ed a tale distanza di tempo da consentire che la maturazione del proposito criminoso prevalga sui motivi inibitori (Sez. 5, n. 8346 del 26/06/1997, COGNOME e altri, Rv. 208704; Sez. 6, n. 56956 del 21/09/2017, COGNOME e altri, Rv. 271952); ovvero, con più larga previsione, si è richiesta l’effettiva conoscenza della altrui premeditazione prima dell’esaurirsi del proprio apporto volontario alla realizzazione dell’evento criminoso (Sez. 1, n. 40237 del 10/10/2007, COGNOME, Rv. 237866; Sez. 5, n. 29202 del 11/03/2014, C., Rv. 262383; Sez. 1, n. 37621 del 14/07/2023, COGNOME, Rv. 285761). Corte di Cassazione – copia non ufficiale
La circostanza aggravante dei motivi abietti e futili, pur avendo natura soggettiva, è estensibile al concorrente che, con il proprio volontario contributo, abbia dato adesione alla realizzazione dell’evento, rappresentandosi e condividendo gli sviluppi dell’azione esecutiva posta in essere dall’autore materiale del delitto e, perciò, maturando e facendo propria la particolare intensità del dolo che abbia assistito quest’ultimo (Sez. 1, n. 6775 del 28/01/2005, Pg in proc. COGNOME e altri, Rv. 230147; in termini: Sez. 1, n. 13596 del 28/09/2011, dep. 2012, COGNOME e altri, Rv. 252348; Sez. 1, n. 50405 del 10/07/2018, COGNOME, Rv. 274538; Sez. 1, n. 13314 del 12/01/2024, M., Rv. 286256).
Quanto all’aggravante ex art. 416 bis.1 cod. pen., è noto che «La circostanza aggravante dell’aver agito al fine di agevolare l’attività delle associazioni di tipo mafioso ha natura soggettiva inerendo ai motivi a delinquere, e si comunica al concorrente nel reato che, pur non animato da tale scopo, sia consapevole della finalità agevolatrice perseguita dal compartecipe» (Sez. U, n. 8545 del 19/12/2019, dep. 2020, COGNOME, Rv. 278734 – 01). Nulla quaestio per il metodo mafioso, che invece riveste connotazioni prettamente oggettive.
2.4. L’ultimo motivo di impugnazione, che lamenta il diniego delle circostanze attenuanti generiche, sarà trattato congiuntamente all’omologo motivo del ricorso COGNOME poiché risulta fondato nei termini che saranno ivi illustrati.
3. Ricorso dell’imputato NOME COGNOME
3.1. I primi tre motivi del ricorso COGNOME ed il secondo motivo del ricorso COGNOME contestano l’affermazione di responsabilità dell’imputato, ritenendo evanescente il suo contributo alla consumazione dei delitti rubricati alle imputazioni A), B) e C). Addirittura, si teorizza trattarsi di un “tentativ concorso”, figura irrilevante sul piano penalistico e dunque non sanzionabile.
Tale impostazione è fallace sul piano teorico e, in concreto, non aderente alle emergenze probatorie.
Le sentenze di merito, con valutazione conforme e scrupolosamente motivata, hanno illustrato i punti di emersione del contributo reso dal NOME, cugino di NOME, in termini che non si limitano a configurare una sua mera adesione morale, bensì postulano il ruolo di agevolatore dell’esecuzione del piano delittuoso, risultato accertato in termini coerenti alla contestazione di reato “avere preso parte alla fase organizzativa dei delitti, fornendo attività di supporto nella individuazione degli appoggi nonché delle vittime e del momento propizio per l’azione, rafforzando altresì il proposito criminoso”.
Nella descrizione del contributo dell’imputato in tale direzione, le sentenze di merito hanno valorizzato plurimi elementi.
Dalle captazioni – la cui legittimità è stata assodata nel paragrafo 2.1., trattando i ricorsi delle imputate COGNOME ed COGNOME – emerge che NOME riponeva grande fiducia nel cugino NOMECOGNOME al quale aveva attribuito il compito di individuare una base logistica, disponendo che costui scendesse a Napoli per provvedere a reperire una casa (progr. n. 956).
Correttamente si è osservato che tale direttiva implicava l’assunzione di un ruolo attivo del Daniello nella fase esecutiva dell’agguato. Né rileva che tale compito non abbia avuto una accertata efficienza ai fini dell’organizzazione dell’azione di sangue, poiché – come perspicuamente rileva l’impugnata sentenza – non occorre una precisa corrispondenza tra quanto ideato e quanto realizzato,
trattandosi di valutare ai fini del concorso nel reato la mobilitazione del COGNOME per la predisposizione di uno dei passaggi organizzativi dell’azione, e quindi di apprezzare il suo contributo – in questo caso, materiale – alla realizzazione collettiva del risultato delittuoso.
La difesa del COGNOME ha sostenuto che, a seguito dell’acquisita irrevocabilità della sentenza di condanna degli odierni ricorrenti per il delitto ex art. 41 bis cod. pen. per partecipazione all’organizzazione camorristica del INDIRIZZO Sanità – Sez. 1, n. 41797 del 9/6/2023 – per detto imputato non potrebbe ritagliarsi un margine di responsabilità ulteriore, in quanto le condotte rilevanti nel presente processo sarebbero già state considerate come espressioni della partecipazione associativa in quel processo. Ma tale tesi non ha fondamento, poiché non risulta che tra le contestazioni elevate in detto processo vi fosse anche quella riguardante la vicenda in esame, sicché è da escludere la ricorrenza di un bis in idem.
Va ancora evidenziato che le intercettazioni si sono dipanate tra il marzo e l’aprile 2016, cessando di focalizzarsi su argomenti organizzativi subito dopo l’azione di fuoco, e fin lì avevano avuto ad oggetto la preparazione di una rete logistica ed operativa riferita a luoghi, strumenti e persone – percorsi, mezzi di locomozione, basi logistiche, esecutori materiali, “specchiettisti” e “filatori” univocamente correlati agli omicidi, consumati e tentati, in danno del clan COGNOME, notazione della cui pregnanza si è già detto. Le intercettazioni di maggiore rilievo, interessanti l’imputato COGNOME sono state elencate nelle pagine 115 – 118 della sentenza di primo grado, alle quali si fa rinvio per la specifica disamina del pieno coinvolgimento operativo del ricorrente nella preparazione dell’agguato, e non meramente inteso a raccogliere gli sfoghi del COGNOME, così da concretare una semplice connivenza.
Nessun rilievo assume il dato che i collaboratori di giustizia non abbiano fatto cenni al COGNOME, poiché – come si è già rilevato per le imputate COGNOME e COGNOME – detti propalanti sono stati utili a lumeggiare le dinamiche generali dei clan coinvolti nel conflitto per il controllo del quartiere Sanità, ovvero per rifer le informazioni apprese de relato in merito allo svolgimento dell’agguato, e certamente non potevano avere contezza di cosa si era mosso dietro le quinte, per la specifica preparazione dell’azione delittuosa.
3.2. Ulteriore motivo di impugnazione risiede nella doglianza riguardante la mancata valorizzazione delle numerose ipotesi alternative indicate dalle difese dei coimputati COGNOME ed COGNOME NOME COGNOME invocando sul punto l’effetto estensivo dell’impugnazione ai sensi dell’art. 587, comma 1, cod. proc. pen. Anche nel ricorso congiunto delle imputate COGNOME ed COGNOME si erano avanzate analoghe doglianze, per la ritenuta svalutazione delle ipotesi alternative.
Va qui rimarcato, a trattazione congiunta di tali doglianze, che il tema delle causali alternative è stato minuziosamente scandagliato dalla Corte di Assise di primo grado, alle pagine 118 – 125 della motivazione, ed altresì ripreso nell’impugnata sentenza, alla pagina 245 e seguenti, così da costituire un saldo accertamento in fatto, nutrito delle medesime considerazioni logiche da parte dei collegi giudicanti, secondo il principio della cosiddetta “doppia conforme”.
La riproposizione di tali tesi alternative, di puro stampo fattuale, mediante argomentazioni congetturali, non le rende materia da trattarsi in sede di legittimità, al cospetto di un quadro probatorio che si è univocamente orientato verso la ricostruzione della vicenda quale generata dalla contrapposizione frontale tra il clan COGNOME ed il clan COGNOME per il controllo delle piazze di spaccio.
A mero titolo riassuntivo, si evidenzia che la pista del clan COGNOME è stata esclusa grazie alle propalazioni di NOME COGNOME, che aveva ricondotto nella giusta prospettiva la vicenda del pestaggio di “Zeppola Anguilla”, già compiutamente vendicato con l’aggressione ai danni di COGNOME, e certamente non tale da cagionare addirittura una strage come quella in esame, trattandosi di schermaglie di piccolo cabotaggio tra i due gruppi, COGNOME e COGNOME, che erano sostanzialmente in buoni rapporti, operando in sinergia e condividendo i proventi delle attività illecite. I commenti di soddisfazione con cui il clan COGNOME sembra accogliere la notizia di una rottura tra i due gruppi sono stati ritenuti dai giudici di merito piuttosto manifestazione di una speranza di coinvolgere i COGNOME dalla propria parte, e del resto non si comprende a quale evento conflittuale stessero riferendosi gli imputati. Peraltro, secondo il collaboratore NOME COGNOME, l’apertura ufficiale delle ostilità tra i due gruppi e databile da agosto 2016, in seguito all’omicidio di NOME COGNOME e NOME COGNOME quindi in epoca successiva alla vicenda in esame.
La pista degli COGNOME è stata parimenti esclusa come causa scatenante del violento agguato del 22 aprile 2016. Vi si era voluta vedere una connessione con i fatti in esame, in quanto un appartenente al clan COGNOME aveva tentato un approccio carnale verso NOME COGNOME, cugina di NOME COGNOME e NOME COGNOME nonché moglie di NOME COGNOME, affiliato detenuto di tale clan.
I motivi di tale ragionata esclusione sono stati diffusamente illustrati nell’impugnata sentenza e ad essi si rinvia, trattandosi di rilievi fattuali sorre da logicità e coerenza. Invero, è convincente il rilievo che gli omicidi di NOME COGNOME e del figlio NOME nel 2017 non erano ricollegabili ai COGNOME: infatti, nella conversazione n. 53 del 23/4/2016, NOME COGNOME riferiva all’inter locutore COGNOME che il nipote NOME (COGNOME) – uno dei feriti nell’agguato – g aveva assicurato che il killer non era il figlio dei COGNOME, cioè NOME COGNOME, avendolo visto bene e descrivendolo come “uno grassottello e alto”.
In egual modo si è esclusa la causale del coinvolgimento nell’agguato di NOME COGNOME, figlio di NOME, titolare di una piazza di spaccio, ma cacciato dal INDIRIZZO ad opera dei COGNOME, secondo le informazioni rese dal collaboratore COGNOME. I giudici del merito osservano che si trattava di un episodio risalente al 28 gennaio 2016 e basato su una mera deduzione captata in una conversazione svoltasi in casa COGNOME, senza alcun margine di certezza.
Infine, milita contro tale ipotesi alternativa anche un dato oggettivo, costituito dalla inusuale altezza di NOME COGNOME, uomo di mt 1,92, laddove il killer era stato descritto dai presenti come genericamente alto, ciò adattandosi alla corporatura di NOME COGNOME alto mt 1.80.
Sono state quindi passate in rassegna, al fine di escluderne la rilevanza, la causale legata al clan COGNOME – smentita dall’indagine tecnica sulla localizzazione delle celle telefoniche dei componenti di detto gruppo – e la causale di COGNOME “o COGNOME“, che era addebitabile ad una mera supposizione ipotizzata in una conversazione tra NOME COGNOME ed il figlio NOME
Come si vede da tale succinta ricapitolazione, le ipotesi alternative non sono state affatto tralasciate dai giudici di merito, bensì specificamente analizzate e convincentemente ritenute non passibili di essere causa della strage per cui è processo, sulla base di argomentazioni organiche e di totale logicità, così da escludere ogni dedotto profilo di vizio motivazionale.
3.3. Il terzo motivo del secondo atto di ricorso deduce l’insussistenza delle aggravanti della premeditazione e dei motivi abietti, e sul punto si rinvia alle argomentazioni svolte con riguardo agli altri imputati, in quanto estensibili.
3.4. Negli ultimi due motivi del ricorso COGNOME e nell’ultimo del ricorso COGNOME, si deducono violazione di legge e vizio di motivazione in ordine al diniego delle circostanze attenuanti generiche, che si accusa essere sorretto da motivazione apodittica, astratta e generica, senza considerazione della situazione specifica del ricorrente. Invero, la negazione delle attenuanti ex art. 62 bis cod. pen. è stata motivata in forma indiscriminata e cumulativa, così da tacciarsi la motivazione riferita al COGNOME come apparente. Vanno qui riprese le analoghe censure formulate nell’interesse delle imputate COGNOME ed COGNOME.
Tale doglianza risulta fondata nei confronti di tutti e tre i ricorrenti.
La pur estesa trattazione del tema del diniego delle circostanze attenuanti generiche contenuta nell’impugnata sentenza risente del suo immediato modellarsi sulle posizioni degli imputati COGNOME COGNOME gravati da precedenti specifici essendo stati condannati per associazione di stampo camorristico, oltre che per svariati reati contro il patrimonio e la persona.
Invece, per le posizioni dei residui imputati, incensurati o quasi tali all’epoca della sentenza impugnata (per la Spina si ta un precedente per
invasione di edificio, senza però farne oggetto di concreta valutazione ai fini della contestata recidiva semplice), manca una individualizzazione del trattamento sanzionatorio alla luce dei parametri indicati dall’art. 133 cod. pen., che dia conto della peculiarità delle singole posizioni e della diversità dei ruoli rivest nella vicenda per cui è processo. Nemmeno la sentenza di primo grado ha risposto a tale esigenza, non essendosi affatto pronunciata sulla eventualità di concedere le circostanze attenuanti generiche, e dunque non potendo integrare la motivazione sul punto censurato dai ricorrenti.
Va pertanto disposto l’annullamento con rinvio dell’impugnata sentenza per ovviare a tale carenza motivazionale, che interessa le posizioni degli imputati NOME COGNOME NOME COGNOME e NOME COGNOME
In conclusione, l’impugnata sentenza deve essere annullata su questo specifico profilo, demandandosi ad altra Corte territoriale la verifica circa la meritevolezza degli imputati NOME COGNOME NOME COGNOME ed NOME COGNOME di conseguire le circostanze attenuanti generiche, invocate nei rispettivi gravami con bilanciamento in prevalenza rispetto alle contestate aggravanti.
Tale punto sarà trattato in piena libertà decisionale, ma dando congruamente conto delle ragioni, positive o negative, alla stregua dell’insegnamento interpretativo per cui «In tema di circostanze, ai fini del diniego dell concessione delle attenuanti generiche, non è necessario che il giudice prenda in considerazione tutti gli elementi favorevoli o sfavorevoli dedotti dalle parti o rilevabili dagli atti, ma è sufficiente il riferimento a quelli ritenuti deci comunque rilevanti, purché la valutazione di tale rilevanza tenga conto, a pena di illegittimità della motivazione, delle specifiche considerazioni mosse sul punto dall’interessato» (ex multis: Sez. 3, n. 23055 del 23/04/2013, COGNOME e altri, Rv. 256172; Sez. 3, n. 2233 del 17/06/2021, dep. 2022, Bianchi, Rv. 282693).
Nel resto, i ricorsi dei predetti imputati, nonché quelli degli imputati NOME COGNOME ed NOME COGNOME sono infondati e devono essere respinti, con accollo delle spese processuali a tali ultimi due ricorrenti, integralmente soccombenti.
P.Q.M.
Annulla la sentenza impugnata nei confronti di NOMECOGNOME NOME e NOME limitatamente alle circostanze attenuanti generiche con rinvio per nuovo giudizio sul punto ad altra sezione della Corte di Assise di appello di Napoli.
Rigetta nel resto i ricorsi di COGNOME, COGNOME e NOME? .,. .
Rigetta i ricorsi di NOME NOME e di COGNOME NOMECOGNOME che condanna al pagamento delle spese processuali.
Così deciso il giorno 13 dicembre 2023
La Consigliera est.