Sentenza di Cassazione Penale Sez. 2 Num. 12966 Anno 2024
Penale Sent. Sez. 2 Num. 12966 Anno 2024
Presidente: COGNOME NOME
Relatore: COGNOME NOME
Data Udienza: 18/01/2024
SENTENZA
sui ricorsi proposti da:
NOME COGNOME, nato a Catania il DATA_NASCITA
COGNOME NOME, nato a Catania il DATA_NASCITA
COGNOME NOME COGNOME, nato a Catania il DATA_NASCITA
COGNOME NOME, nato a Catania il DATA_NASCITA
avverso la sentenza del 12/04/2023 della Corte d’appello di Catania visti gli atti, il provvedimento impugnato e i ricorsi;
lette le conclusioni del Pubblico Ministero, in persona del Sostituto Procuratore Generale NOME COGNOME, la quale ha concluso chiedendo che i ricorsi siano dichiarati inammissibili;
udita la relazione svolta dal Consigliere NOME COGNOME.
RITENUTO IN FATTO
Con sentenza del 12/04/2023, la Corte d’appello di Catania, in parziale riforma della sentenza del 25/03/2016 del Tribunale di Catania: a) dichiarava non doversi procedere nei confronti di NOME COGNOME in ordine al reato di danneggiamento di cui al capo C) dell’imputazione per essere lo stesso reato improcedibile per mancanza della querela; b) confermava la condanna di NOME COGNOME, NOME COGNOME, NOME COGNOME e NOME COGNOME per i reati, commessi in Catania il 13/09/2012, di: b.1) rapina impropria aggravata (dall’essere state la violenza e minaccia commesse da più persone riunite) in
concorso ai danni di NOME COGNOME di cui al capo A) dell’imputazione; b.2) tentata estorsione aggravata (dall’avere agito in più persone riunite) in concorso sempre ai danni di NOME COGNOME di cui al capo B) dell’imputazione; c) rideterminava la pena irrogata ad NOME COGNOME per tali due reati in due anni e due mesi di reclusione ed C 500,00 di multa, confermando la pena che era stata irrogata dal Tribunale di Catania, nella stessa misura e per i medesimi due reati, a NOME COGNOME, NOME COGNOME NOME e NOME COGNOME; d) concedeva a NOME COGNOME e a NOME COGNOME la sospensione condizionale di tale pena.
Avverso l’indicata sentenza del 12/04/2023 della Corte d’appello di Catania, hanno proposto ricorsi per cassazione, per il tramite dei propri rispettivi difensori NOME COGNOME, NOME COGNOME, NOME COGNOME e NOME COGNOME (questi ultimi due ricorrenti con un unico atto).
Il ricorso di NOME è affidato a due motivi.
3.1. Con il primo motivo, il ricorrente deduce, in relazione all’art. 606, comma 1, lett. d), cod. proc. pen., la mancata assunzione della prova decisiva – della quale aveva fatto richiesta nel proprio atto di appello – costituita: a) dai verba dei controlli che erano stati effettuati dai Carabinieri di Catania il giorno dei f (13/09/2012) e i giorni precedenti, in quanto necessari al Fine di verificare la veridicità di quanto era stato riferito dall’COGNOME in ordine al fatto che egli «era st controllato in compagnia della presunta persona offesa»; b) dall’esame, quale testimone, del sig. COGNOME, il quale, sulla base di quanto sarebbe stato riferito dal testimone della polizia giudiziaria NOME COGNOME, era stato in un primo momento fermato e identificato, per poi essere rilasciato in quanto riconosciuto estraneo ai fatti, e che «ha potuto assistere ai fatti per cui è processo e ai momenti immediatamente successivi».
Secondo il ricorrente, tali prove, GLYPH la cui acquisizione era stata immotivatamente negata dalla Corte d’appello di Catania, si dovevano ritenere decisive «in quanto avrebbe eliminato qualsiasi dubbio circa la penale responsabilità dell’NOME facendo luce e dipanando le residue zone d’ombra del quadro probatorio acquisito».
3.2. Con il secondo motivo, il ricorrente lamenta, in relazione all’art. 606, comma 1, lett. b) ed e), cod. proc. pen., che la Corte d’appello di Catania avrebbe «richiama per relazione la motivazione del giudice di primo grado, senza rispondere alle critiche alla decisione contenute nell’appello e fornendo motivazione illogica sulla credibilità della persona offesa».
Il ricorrente deduce anzitutto che l’asserita ammissione, da parte della Corte d’appello di Catania, circa la «natura ioci causa dei fatti» (così il ricorso), sarebbe «incompatibile con un giudizio positivo sulla credibilità della persona offesa» NOME COGNOME. Il ricorrente rappresenta che, in sede di convalida dei loro arresti (i cui
verbali erano stati acquisiti al fascicolo per il dibattimento), i quattro imput avevano unanimemente riferito (con dichiarazioni da ritenersi genuine, attesa l’impossibilità di concordare, stante lo stato detentivo, una comune versione dei fatti) che il COGNOME era un loro amico, che, come in altri giorni, si trovava con lor anche la sera dei fatti, che, a causa di uno scherzo, consistito nella sottrazione e nel nascondimento del suo telefono cellulare, aveva reagito venendo alle mani con uno degli imputati e che, per questo, «piccato e offeso», se n’era andato dimenticando il proprio borsello lì dove lo aveva appoggiato e aveva «ritenuto opportuno denunciare l’inesistente rapina ed estorsione alla polizia solo per ripicca». Il ricorrente rappresenta ancora l’«llogicità» dei contenuto di ta denuncia, della deposizione dibattimentale del COGNOME e della «condotta degli imputati al momento dell’arrivo della polizia così come riportata dal teste sovrintendente COGNOMECOGNOME sentito all’udienza del 17 ottobre 2014». Ciò rappresentato, l’COGNOME deduce il vizio logico della sentenza impugnata là dove, da un lato, ammette la natura «goliardic» della condotta degli imputati e, dall’altro lato, ritiene l’attendibilità del racconto del COGNOME «laddove riferisce di essere stat fermato, con il solo fine di perpetrare una rapina ed una estorsione, da soggetti a lui sconosciuti e con i quali non aveva alcun rapporto».
In secondo luogo, il ricorrente lamenta che la Corte d’appello di Catania avrebbe del tutto omesso di motivare in ordine alla sussistenza dell’elemento soggettivo dei reati, senza considerare la censura, che era stata avanzata dalla propria difesa, che «la finalità scherzosa della condotta non può che escluderne l’elemento soggettivo».
4. Con il proprio ricorso, NOME COGNOME lamenta, in relazione all’art. 606, comma 1, lett. b) , cod. proc. pen., l’erronea applicazione degli artt. 628 «co. 1 e 3 n. 1 quater c.» e degli artt. 56, 110 e 629, primo e secondo comma, cod. pen., con riguardo «alla sussistenza degli elementi materiale e soggettivo dei reati contestati» e, in relazione all’art. 606, comma 1, lett. e), cod. proc. pen., la mancanza e la contraddittorietà della motivazione in ordine alla valutazione della credibilità delle dichiarazioni della persona offesa NOME COGNOME.
Il ricorrente rappresenta che, rispetto alla versione dei fatti della persona offesa, sarebbe molto più «plausibil» quella che era stata fornita dai quattro imputati nel corso dei loro interrogatori in carcere da parte del G.i.p. del Tribunale di Catania (versione che, per le ragioni già evidenziate nel ricorso di NOME COGNOME, non avrebbe potuto essere previamente concordata dai quattro). Il COGNOME espone in particolare di avere dichiarato al G.i.p.: di conoscere gli altri quattro giovani, particolare, il COGNOME, in quanto frequentatore del chiosco ed ex compagno di scuola dell’RAGIONE_SOCIALE; che i suddetti giovani, la sera del 13/09/2012, ebbero «una discussione assimilabile a uno scherzo che ha condotto, forse per indignazione
e rabbia, il COGNOME a recarsi presso le forze dell’ordine, lasciando il borsello poggiato sul bancone del chiosco»; che, in particolare, il COGNOME «era stato vittima di uno scherzo, nel corso del quale era stato sottratto il cellulare, che accidentalmente era caduto a terra rompendosi». Il ricorrente asserisce quindi che, «resumibilmente, detto scherzo, travisato nelle sue reali intenzioni, ha condotto la persona offesa all’esasperazione e alla conseguente denuncia».
Ciò rappresentato, il ricorrente deduce che la Corte d’appello di Catania si sarebbe limitata a «riportare il racconto della persona offesa senza valutare le incongruenze tra il suo narrato e le contraddizioni che emergono negli atti di indagine» e «a riportare in sentenza il capo di imputazione e a dare per assodato che l’odierno ricorrente e i coimputati ne siano responsabili», senza tenere «in considerazione sostanzialmente nessuno degli elementi emersi durante l’istruttoria dibattimentale». In particolare, la Corte d’appello di Catania non avrebbe valutato il fatto, «di non poco rilievo» – e che era stato suffragato anche dalle dichiarazioni che erano state rese in sede di interrogatorio di garanzia dal coimputato COGNOME (il quale «descrive minuziosamente il cruscotto dell’auto a riprova del fatto che conosceva bene la parte offesa») – che i cinque giovani si conoscevano, sicché non si potrebbe «condividere la motivazione dell’impugnata sentenza nella parte in cui dubita della conoscenza e della frequentazione del COGNOME con gli imputati», circostanza che «avrebbe dovuto indurre il Giudicante a ritenere più che ragionevole la versione fornita dagli imputati». Inoltre, la Cort d’appello di Catania non avrebbe valutato l’elemento dell’«utilità che l’odierno appellante avrebbe ottenuto dal porre in essere una tale condotta delinquenziale». Ancora, i giudici di appello non avrebbe considerato che, se avessero realmente commesso i reati loro attribuiti, i quattro imputati «molto più probabilmente avrebbero rapidamente abbandonato il /ocus commissi del/di e nascosto la res furtiva». Corte di Cassazione – copia non ufficiale
Il COGNOME contesta poi la qualificazione giuridica dei fatti a lui attribuiti in quan «dalla descrizione de fatti, così come riferiti dalla parte offesa, [.. ritengono sussistenti gli elementi materiali e psicologici del reato di violenza privata e non certo di rapina aggravata e tentata estorsione in concorso», atteso che, nella propria condotta, mancherebbero «gli elementi attinenti la violenza e la minaccia finalizzate all’impossessamento di denaro o altra res».
I ricorsi di NOME COGNOME e NOME COGNOME sono affidati a due motivi.
5.1. Con il primo motivo, i ricorrenti lamentano, in relazione all’art. 606, comma 1, lett. e) ed e), cod. proc. pen., l’inosservanza degli artt. 192 e 521 dello stesso codice e la «mancata correlazione motivazionale».
Dopo avere rammentato che, nei capi A) e B) dell’impul:azione, veniva loro contestato, rispettivamente, «il ruolo di “pali”», e di avere minacciato («minacciavano»), i ricorrenti espongono che, nei propri atti di appello, avevano rappresentato come il COGNOME, in sede di controesame da parte delle difese, avesse affermato che il COGNOME e il COGNOME «guardavano la scena, semplicemente», sicché non avevano posto in essere alcuna delle suddette condotte che gli erano state contestate.
Ciò esposto, i ricorrenti lamentano che la motivazione della Corte d’appello di Catania secondo cui «i due difensori parcellizzano l’affermazione della parte offesa» implicherebbe di «ineludibilmente considerare solo la parte utile alla conferma della sentenza, azzerando le risultanze processuali emergenti dal controesame svolto dalla difesa, e quindi significa non tenere in alcun conto quanto contestato nell’imputazione al capo a) ed al capo b) con buona pace dell’art. 521 c.p.p.; e quel che più rileva, significa ignorare le risultanze processuali nella lor globalità con buona pace dell’art. 192 c.p.p. ed in ultima analisi, signifi ignorare le doglianze difensive basate sulle risultanze processuali e dunque svuotare di significato l’appello stesso».
5.2. Con il secondo motivo, i ricorrenti lamentano, in relazione all’art. 606, comma 1, lett. b) , c) ed e) , cod. proc. pen., l’erronea applicazione dell’art. 110 cod. pen. e dell’art. 192 cod. proc. pen. e l’«assoluta carenza di motivazione, ponendo in essere la c.d. motivazione apparente».
I ricorrenti rappresentano: a) che la ricostruzione dei fatti che era stata fornita dalla persona offesa era smentita dal contenuto delle dichiarazioni che erano state rese da tutti e quattro gli imputati il 15/09/2012 in sede di interrogatorio d garanzia – e, dunque, «nell’immediatezza e senza alcuna possibilità di aggiustamento difensivo in quanto isolati» – i quali avevano offerto «una spiegazione diversa e credibile degli accadimenti assolutamente concordante e verosimile», cioè che «i giovani si conoscevano e l’azione del COGNOME, partita da uno scherzo tra amici degenerò in una lite, e la denuncia, fu il frutto di un momento di rabbia della parte offesa, allora nessun 110 e totale inattendibilità» della persona offesa, la quale, «vedendo le gravissime conseguenze del suo gesto se ne è pentito amaramente ma ormai era troppo tardi, prova ne è stata la mancata costituzione di parte civile ma per non rischiare la calunnia, ha dovuto tenere il punto in dibattimento»; b) poiché dal contenuto degli stessi interrogatori di garanzia emergeva che i cinque giovani «si conoscevano e si frequentavano, viene a cadere incontrovertibilmente l’azione improvvisa e preorganizzata e quindi l’ipotesi del concorso ex art. 110 c.p.»; c) la frase della persona offesa secondo cui il COGNOME e il COGNOME «guardavano la scena, semplicemente», «significa ineludibilmente la totale estraneità ai fatti di causa sia materiale […
sia morale poiché conoscendosi e passando insieme la serata non rafforzavano alcunché», sicché «crolla miseramente e fragorosamente in dibattimento, il “dar man forte” come scritto in denuncia e nel verbale di arresto, non emergendo alcuna azione né in concorso e/o quantomeno preventivamente concordata né singola posta in essere dal COGNOME e dal COGNOME con buona pace anche solo del concorso morale»; d) il COGNOME, con l’affermare che fu fermato in mezzo alla strada da quattro giovani dei quali conosceva il solo NOME, «dà una versione dei fatti non conforme ai reali accadimenti e quindi, viene a mancare incontrovertibilmente l’attendibilità della parte offesa ex art 192 c.p.p.»; e) sentenza impugnata, con l’affermare che «il fatto che i quattro imputati si conoscevano con la parte offesa nulla toglie alla prova acquisita con l’oralità del dibattimento», avrebbe omesso «la verifica esplicitamente richiesta e pone in essere la c.d. motivazione apparente, ripetendo quanto affermato dalla sentenza di primo grado e, quindi, non tenendo in alcuna considerazione quanto rappresentato dalle difese e dalle risultanze processuali».
CONSIDERATO IN DIRITTO
Il ricorso di NOME.
1.1. Il primo motivo è manifestamente infondato.
Secondo il consolidato orientamento della giurisprudenza di legittimità, che trova il proprio fondamento nella presunzione di completezza dell’istruttoria dibattimentale svolta in primo grado, mentre la decisione di procedere a rinnovazione dell’istruzione dibattimentale deve essere specificamente motivata, giacché occorre dare conto dell’uso del potere discrezionale derivante dell’acquisita consapevolezza di non essere in grado di decidere allo stato degli atti, nel caso di rigetto della richiesta di rinnovazione del dibattimento la decisione del giudice può essere sorretta anche da una motivazione implicita, rinvenibile nella struttura argomentativa della pronuncia, la quale evidenzi la sussistenza di elementi sufficienti per affermare o negare la responsabilità del reo (Sez. 4, n. 1184 del 03/10/2018, dep. 2019, RAGIONE_SOCIALE, Rv. 275114-01; Sez. 3, n. 24294 del 07/04/2010, D.S.B., Rv. 247872-01; Sez. 4,, n. 47095 del 02/12/2009, Sergio, Rv. 245996-01; Sez. 6, n. 5782 del 18/12/2006, dep. 2007, COGNOME, Rv. 236064-01).
Nel caso di specie, la Corte d’appello di Catania ha implicitamente fornito una risposta negativa alle richieste della difesa dell’COGNOME di acquisizione dei verbali de controlli effettuati dai Carabinieri di Catania che sarebbero stati necessari al fine di verificare la veridicità di quanto era stato riferito dall’COGNOME in ordine al fatt egli «era stato controllato in compagnia della persona offesa» e di esaminare, quale testimone, il sig. COGNOMECOGNOME
La Corte d’appello di Catania, infatti: a) da un lato, ha dato atto del fatto che «i quattro imputati si conoscevano con la parte offesa», con la conseguente evidente superfluità dell’acquisizione dei menzionati verbali, atteso che tale acquisizione sarebbe stata finalizzata a comprovare una circostanza (appunto, la conoscenza tra i quattro imputati e la persona offesa) che era già pacificamente emersa nel corso del processo; b) dall’altro lato, ha ribadito di valutare come pienamente attendibili, come già il Tribunale di Catania, le dichiarazioni della persona offesa NOME COGNOME. Peraltro, né in sede di appello (pagg. 6-7) né in sede di ricorso l’NOME ha indicato la dichiarazione del testimone della polizia giudiziar COGNOME dalla quale sarebbe emerso che il COGNOME era presente al momento dei fatti e non soltanto al momento dell’intervento dello stesso COGNOME.
1.2. Il secondo motivo è manifestamente infondato.
Secondo la costante giurisprudenza di legittimità, occ:orre effettuare un rigoroso riscontro della credibilità soggettiva e oggettiva della persona offesa, specie se costituita parte civile, accertando l’assenza di elementi che facciano dubitare della sua obiettività, senza la necessità, però, della presenza di riscontri esterni, stabilita dall’art. 192, comma 3, cod. proc. pen., per il dichiarant coinvolto nel fatto (ex plurimis: Sez. U, n. 41461 del 19/07/2012, RAGIONE_SOCIALE, Rv. 253214-01; Sez. 5, n. 12920 del 13/02/2020, COGNOME, Rv. 279070-01; Sez. 5, n. 21135 del 26/03/2019, S., Rv. 275312-01; Sez. 2, n. 41751 del 04/07/2018, COGNOME, Rv. 274489-01; Sez. 2, n. 43278 del 24/09/2015, COGNOME, Rv. 26510401; Sez. 5, n. 1666 del 08/07/2014, dep. 2015, Pirajno, Rv. 261730-01).
Le Sezioni Unite hanno peraltro anche statuito che «la valutazione della credibilità della persona offesa dal reato rappresenta una questione di fatto che ha una propria chiave di lettura nel compendio motivazionale fornito dal giudice e non può essere rivalutata in sede di legittimità, salvo che il giudice non sia incorso in manifeste contraddizioni» (Sez. U, n. 41461 del 19/07/2012, cit.; più di recente: Sez. 4, n. 10153 del 11/02/2020, C., Rv. 278609-01).
Quest’ultima circostanza si deve ritenere del tutto assente nel caso di specie. In particolare, quanto alle specifiche censure del ricorrente, si deve osservare che: a) l’avere reputato la possibilità di ritenere «che il tutto abbia contenuti goliardic (pag. 5 della sentenza impugnata), non si pone in contraddizione con la ritenuta attendibilità del racconto del COGNOME circa la sottrazione del proprio borsello, la violenza e la minaccia commesse nei suoi confronti per assicurarsene il possesso e la richiesta di una somma di denaro quale corrispettivo per la restituzione dello stesso borsello; b) l’avere privilegiato la versione dei fatti fornita dalla person offesa rispetto a quella fornita dai quattro imputati non configura alcun vizio motivazionale e trova anzi giustificazione anche nel fatto che l’imputato, diversamente dal testimone persona offesa, non ha l’obbligo cii dire la verità, ma
ha anzi il diritto, oltre che di tacere, anche di mentire nel processo, senza che da ciò possano derivargli conseguenze negative, ciò che, evidentemente, accresce il grado di affidabilità della fonte testimoniale.
Quanto al dedotto difetto di motivazione in ordine alla sussistenza dell’elemento soggettivo dei reati e all’omessa considerazione della censura secondo cui «la finalità scherzosa della condotta non può che escluderne l’elemento soggettivo», si deve osservare che, anche a volere reputare che, con l’affermare che «i può anche ritenere che il tutto abbia con’:enuti goliardici», l Corte d’appello di Catania abbia inteso fare riferimento a un intento ioci causa degli imputati – ben potendo, in vero, il termine goliardico esprimere il significato non solo di scherzo ma anche quello, differente, di bravata – si deve in ogni caso osservare che, come è stato chiarito dalla Corte di cassezione, l’intento di effettuare uno “scherzo” è idoneo a escludere il dolo del reato solo qualora la condotta non venga posta in essere con la volontà (o l’accettazione del rischio) di determinare la lesione tipica ovvero quando tale intenzione risulti incompatibile con l’eventuale finalità specifica che caratterizza il dolo suddetto, degradando altrimenti a mero movente dell’agire, di per sé ininfluente ai fini della rilevanza penale del fatto (Sez. 5, n. 40488 del 28/05/2018, Burzomì, Rv. 273873-01).
Nel caso in esame, la Corte d’appello di Catania ha ritenuto la sussistenza dei reati di rapina e di estorsione in quanto era stato accertato che gli imputati, dopo avere sottratto il borsello alla persona offesa, con una condotta violenta e minacciosa, se ne erano assicurati il possesso e, poi, avevano ulteriormente minacciato la stessa persona offesa di non restituirgli il suo borsello se non avesse consegnato loro una somma di denaro, così realizzando il fatto tipico previsto, rispettivamente, dall’art. 628, secondo comma, cod. pen., e dagli artt. 56 e 629 cod. pen. e determinando, in maniera consapevole, un’indebita ed effettiva compressione sia del patrimonio sia della libertà morale del COGNOME.
Trattandosi di reati a consumazione istantanea e considerato che il reato di tentata estorsione è a dolo generico e che l’eventuale intento di effettuare uno “scherzo” non appare incompatibile con la finalità di assicurarsi il possesso della cosa sottratta che connota il dolo specifico del reato di rapina impropria, la ritenuta sussistenza degli stessi reati si deve reputare corretta, sicché, a fronte dell’esattezza in diritto di tale soluzione della questione, si deve ritenere irrilevan che la Corte d’appello di Catania non abbia espressamente motivato al riguardo (Sez. 2, n. 19696 del 20/05/2010, COGNOME, P:v. 247123-01).
2. L’unico motivo del ricorso di NOME COGNOME è manifestamente infondato.
Come si è detto nell’esaminare il secondo motivo del ricorso di NOME COGNOME (punto 1.2), la Corte d’appello di Catania ha valutato come attendibili le dichiarazioni della persona offesa NOME COGNOME, senza incorrere in manifeste
contraddizioni e senza che, ciò considerato, si possa ritenere sussistente un vizio motivazionale nel fatto di avere privilegiato la versione dei fatti fornita dal persona offesa rispetto a quella fornita, pur concordemente, dai quattro imputati.
In particolare, quanto alle specifiche censure del ricorrente, si deve osservare che: a) diversamente da quanto dallo stesso sostenuto, la Corte d’appello di Catania non ha dubitato del fatto che i quattro imputati si conoscessero con la persona offesa e non ha trascurato di valutare tale circostanza, non illogicamente ritenendo che, tuttavia, essa nulla togliesse rispetto alla prova dei fatti che era emersa nel corso del dibattimento («il fatto che i quattro imputati si conoscevano con la parte offesa, seppur in modo superficiale nulla toglie alla prova acquisita con l’oralità del dibattimento»); b) l’esiguità del profitto («l’utilità che l’od appellante avrebbe ottenuto dal porre in essere una tale condotta delinquenziale») parimenti non esclude l’integrazione dei due reati; c) la considerazione del ricorrente secondo cui gli imputati, se avessero realmente commesso i reati loro attribuiti, «molto più probabilmente avrebbero rapidamente abbandonato il /ocus commissi delicti e nascosto la res furtiva» costituisce un argomento – espresso, peraltro, in termini di mera probabilità – diretto ad “attaccare” la valutazione d attendibilità delle dichiarazioni della persona offesa, il quale, tuttavia, n evidenzia una manifesta contraddizione della motivazione della Corte d’appello riguardo all’anzidetta valutazione, che, pertanto, come si è detto (al punto 1.2), non può essere nuovamente e diversamente compiuta in questa sede di legittimità.
Quanto alla censura del ricorrente relativa all’asseritamente erronea qualificazione giuridica dei fatti, essa appare: a) del tutto generica, atteso che i COGNOME, nel sostenere che, negli stessi fatti, sarebbe ravvisabile il reato di violenza privata, e non i reati di rapina e di tentata estorsione, a sostegno di tale assunto, si limita a rinviare – appunto, del tutto genericamente – alla «descrizione dei fatti così come riferiti dalla parte offesa», senza neppure indicare quale sarebbe stata tale descrizione sulla base della quale i fatti attribuitigli dovrebbero esser diversamente qualificati nel senso richiesto; b) comunque, manifestamente infondata, atteso che i fatti, come riferiti dal COGNOME (e riportati alla pag. 3 de sentenza di primo grado) – nel senso che, dopo che uno degli imputati si era impossessato del suo borsello, egli fu spintonato per evitare che potesse reimpossessarsi dello stesso borsello e che, dietro minaccia di non restituirglielo, gli fu richiesta una somma di denaro quale corrispettivo della stessa restituzione – appaiono integrare gli attribuiti reati di rapina impropria e di tentata estorsione
I ricorsi di NOME COGNOME e NOME COGNOME.
3.1. Il primo motivo è manifestamente infondato.
La Corte d’appello di Catania ha considerato la censura, che era stata sollevata dai ricorrenti nei propri atti di appello, fondata sul fatto che la persona offes NOME COGNOME, nella deposizione dibattimentale che aveva reso nel corso dell’udienza del 29/05/2015, in sede di controesame da parte delle difese degli imputati, come risultava dalla pag. 16 del verbale della suddetta udienza, aveva affermato che «li altri due guardavano la scena, semplicemente».
La Corte d’appello di Catania ha peraltro in proposito argomentato come lo stesso NOME COGNOME, come risultava dalla pag. 6 del menzionato verbale, avesse in tale sede fornito una descrizione complessiva degli avvenimenti che gli erano occorsi, e non soltanto dell’antefatto, al quale soltanto, perciò, si doveva ritenere riferita l’invocata dichiarazione secondo cui «li altri due guardavano la scena, semplicemente»; la quale dichiarazione, pertanto, escludeva soltanto che i due imputati «avessero svolto un ruolo fattivo nell’impossessarnento», ma non il contributo da essi dato ai reati quale risultava dalle precedenti più ampie dichiarazioni del COGNOME di cui alla pag. 6 del verbale di udienza.
La contestata affermazione della Corte d’appello di Catar ia secondo cui, con la ricordata censura, i ricorrenti «parcellizzano l’affermazione della parte offesa» appare, perciò, motivata in modo assolutamente logico e risulta diretta non, come sostenuto dai ricorrenti, a «considerare solo la parte utile alla conferma della sentenza», ma, del tutto correttamente, a manifestare la necessità di considerare il contenuto delle dichiarazioni della persona offesa riguardo ai fatti nel lor complesso e non soltanto a una parte di essi (1’«antefatto»).
Si deve inoltre evidenziare come i ricorrenti abbiano omesso sia di riportare le dichiarazioni del COGNOME nella loro integralità, sia di allegare ai ricorsi le ste dichiarazioni integrali.
3.2. Il secondo motivo è manifestamente infondato.
La Corte d’appello di Catania ha dunque evidenziato – in conformità con la sentenza di primo grado – come, dal contenuto delle dichiarazioni della persona offesa NOME COGNOME, considerando la condotta dei due imputati quale era stata descritta dallo stesso COGNOME con riferimento ai fatti nel loro complesso, fosse emerso il contributo che era stato dato dal COGNOME e dal COGNOME alla realizzazione dei reati loro attribuiti, pur non avendo essi assunto un «ruolo fattivo nell’impossessamento».
A tale proposito, si deve rammentare che, secondo la giurisprudenza della Corte di cassazione, il contributo partecipativo positivo, che è richiesto ai fini del sussistenza del concorso nel reato, si realizza anche solo assicurando all’altro concorrente lo stimolo all’azione criminosa o un maggiore senso di sicurezza, rendendo in tal modo palese una chiara adesione alla condotta delittuosa (Sez. 5,
n. 2805 del 22/03/2013, COGNOME, Rv. 258953-01; Sez. 1, n. 15023 del 14/02/2006, COGNOME, Rv. 234128-01).
Ciò posto, quanto alle specifiche censure dei ricorrenti, si deve osservare che: a) come si è detto esaminando il secondo motivo del ricorso di NOME COGNOME e l’unico motivo del ricorso di NOME COGNOME, non si può ritenere sussistente alcun vizio della sentenza impugnata nel fatto che la Corte d’appello di Catania abbia privilegiato la versione dei fatti fornita dalla persona offesa rispetto a quel fornita, pur concordemente, dai quattro imputati; b) come si è detto esaminando l’unico motivo del ricorso di NOME COGNOME, la Corte d’appello di Catania ha non illogicamente ritenuto che la circostanza che gli imputati conoscessero la persona offesa nulla togliesse rispetto alla prova dei fatti che era emersa nel corso del dibattimento, né la stessa circostanza, contrariamente a quanto sostenuto dai ricorrenti, è idonea a escludere la sussistenza del concorso di persone nei reati, tenuto anche conto che, a tale fine, non occorre un previo concerto, potendo sorgere la volontà che accomuni la condotta dei partecipanti anche nel repentino svolgersi di un fatto improvviso (Sez. 2, n. 2811 del 02/10/1991, dep. 1992, Beltrame, Rv. 189305-01, la quale ha anche precisato che l’adclebitabilità del reato a titolo di concorso morale prescinde dalla materiale partecipazione al fatto); c) si è già detto, esaminando il primo motivo, della necessità, correttamente sottolineata dalla Corte d’appello di Catania, di considerare il contenuto delle dichiarazioni della persona offesa riguardo ai fatti nel loro complesso e non soltanto a una parte di essi (I’«antefatto»), al quale esclusivamente si riferiva la frase del COGNOME «li altri due guardavano la scena, semplicemente»; d) dalla sentenza di primo grado, risulta che il COGNOME riferì di conoscere l’COGNOME, in quanto suo ex compagno di scuola, ma non risulta che lo stesso COGNOME abbia negato di conoscere gli altri tre imputati, negazione, questa, che è quindi meramente asserita dai ricorrenti, i quali hanno omesso di fornire riportando o allegando la relativa dichiarazione del COGNOME – qualsiasi riscontro a quanto da essi asserito; e) alla luce di quanto si è detto, si deve escludere che la sentenza impugnata abbia motivato in modo meramente apparente in ordine al concorso dei due ricorrenti nei reati loro attribuiti. Corte di Cassazione – copia non ufficiale
Pertanto, i ricorsi devono essere dichiarati inammissibili, con la conseguente condanna dei ricorrenti, ai sensi dell’art 616 cod. proc. pen., al pagamento delle spese del procedimento, nonché, essendo ravvisabili profili di colpa nella determinazione della causa di inammissibilità, al pagamento della somma di C 3.000,00 ciascuno in favore della cassa delle ammende.
Dichiara inammissibili i ricorsi e condanna i ricorrenti al pagamento delle spese processuali e della somma di euro tremila in favore della cassa delle ammende.
Così deciso il 18/01/2024.