Sentenza di Cassazione Penale Sez. 2 Num. 34820 Anno 2025
Penale Sent. Sez. 2 Num. 34820 Anno 2025
Presidente: COGNOME NOME
Relatore: COGNOME NOME
Data Udienza: 16/10/2025
SENTENZA
sul ricorso proposto da: COGNOME NOME, nata a Locri il DATA_NASCITA
avverso la sentenza del 16/01/2025 della Corte d’appello di Campobasso visti gli atti, il provvedimento impugnato e il ricorso; lette le conclusioni del Pubblico Ministero, in persona del AVV_NOTAIO Procuratore NOME COGNOME, il quale ha concluso chiedendo che il ricorso sia dichiarato inammissibile;
udita la relazione svolta dal Consigliere NOME COGNOME.
RITENUTO IN FATTO
Con sentenza del 16/01/2025, la Corte d’appello di Campobasso, in parziale riforma della sentenza del 14/02/2024 del Tribunale di Isernia, riduceva a sei mesi di reclusione ed € 100,00 di multa la pena irrogata a NOME COGNOME per il reato di truffa in concorso (con il padre NOME COGNOME) ai danni di NOME COGNOME.
Secondo il capo d’imputazione, tale reato era stato contestato a NOME COGNOME e a NOME COGNOME perché, «con artifizi e raggiri consistiti nel pubblicare sul sito www.subito.it l’annunzio di una vendita di un trattore marca Lamborghini modello TARGA_VEICOLO, presentandosi COGNOME NOME con il nome di NOME, nel contrattare con NOME l’acquisto del predetto a mezzo dell’utenza telefonica n. NUMERO_TELEFONO, rassicurandolo sul buon esito dell’affare, si procurava l’ingiusto profitto
consistito nel ricevere il pagamento della somma pattuita di C 8.500,00 (a mezzo due bonifici bancari su carta postpay evolution con codice iban IT04Y0760105138284145 intestata COGNOME NOME), senza provvedere ad inviare quanto promesso, con corrispondente danno per la persona offesa».
Avverso l’indicata sentenza del 16/01/2025 della Corte d’appello di Campobasso, ha proposto ricorso per cassazione, per il tramite del proprio difensore AVV_NOTAIO, NOME COGNOME, affidato a due motivi.
2.1. Il primo motivo è proposto in relazione all’art. 606, comma 1, lett. b) ed e), cod. proc. pen., e con riferimento agli artt. 110 e 640 cod. pen. e all’art. 546 cod. proc. pen., con riguardo all’affermazione di responsabilità dell’imputata per il delitto di truffa in concorso a lei attribuito.
La sentenza impugnata difetterebbe «di logicità a causa della indimostrata presenza, al di là di ogni ragionevole dubbio, degli elementi costitutivi del concorso nel delitto di truffa».
La ricorrente espone che aveva proposto uno specifico motivo di appello con il quale aveva «me in luce il mancato contributo causale della condotta della COGNOME e la sua consapevolezza in ordine alla realizzazione del fatto in capo alla COGNOME, rilevando come l’unico elemento di concorso della stessa, ossia l’intestazione della carta PostePay sulla quale venivano effettuati i bonifici da parte della p.o., non fosse sintomo di concorso, in quanto la carta veniva utilizzata dal padre senza che l’odierna ricorrente ne fosse a conoscenza».
La Corte d’appello di Campobasso avrebbe omesso di motivare in ordine a tale motivo di appello, con la conseguente mancanza della motivazione. In particolare, avrebbe «omesso di motivare ed indicare le prove della sussistenza di un apporto causale dell’odierna ricorrente alla commissione del delitto di furto , limitandosi apoditticamente ad affermare che la circostanza sia provata dall’intestazione della carta parabancaria». Né si potrebbe ritenere che la Corte d’appello abbia fornito una risposta implicita all’indicato motivo di appello.
Da ciò anche la violazione della «disciplina del concorso di persone una volta analizzati gli elementi probatori, non correttamente interpretati dal Giudice di seconde cure».
Secondo la ricorrente, l’unica valutazione che sarebbe stata fatta dalla Corte d’appello di Campobasso sarebbe quella riguardante le dichiarazioni della testimone NOME COGNOME, il cui narrato sarebbe stato ritenuto «non attendibile in quanto non sono state menzionate le circostanze secondo le quali la carta PostePay era stata prestata al padre o che quest’ultimo aveva avuto un uso esclusivo della detta carta» (così il ricorso).
Tale valutazione sarebbe contraddittoria e illogica.
La ricorrente considera in proposito che: a) le dichiarazioni della COGNOME «derivano da “asserzioni confidenziali” da parte della COGNOME, con cui la teste intratteneva un rapporto interpersonale stretto e, perciò, verosimilmente veritiero»; b) la denuncia di smarrimento della carta PostePay presentata dall’imputata «coincide temporalmente e si inserisce poco dopo i fatti di causa»; c) le dichiarazioni della testimone COGNOME «si sovrappongono perfettamente a tale prospettiva nella parte in cui si afferma che la COGNOME le aveva rivelato che il di lei genitore faceva un uso illecito della carta»; d) qualora avesse «effettivamente contribuito al reato in questione commesso dal padre, la motivazione che abbia spinto la ricorrente a denunciare lo smarrimento della carta – allertando di fatto le FF.00 – e ad informare la Sig.ra COGNOME che il padre faceva un uso illecito della carta».
Tali considerazioni condurrebbero «ad un’unica interpretazione: la COGNOME all’epoca del fatto non aveva il possesso della carta e sospettava che il padre, possibile responsabile della sottrazione, ne stesse facendo un uso illecito. Pertanto, senza rischio di calunnia, informava le FF.00. che la stessa non era più in possesso della carta PostePay».
La ricorrente rappresenta che, all’epoca dei fatti (agosto del 2017), era poco più che diciottenne, ragione per la quale «non era pienamente consapevole dell’utilizzo di una carta parabancaria, affidandosi – come sempre si fa a quell’età – ai genitori, in questo caso al padre».
Ciò consentirebbe anche di evidenziare «l’assenza di consapevolezza e volontà di contribuire causalmente alla realizzazione del fatto». Il che richiederebbe che ella dovrebbe «essersi rappresentata e avere voluto fornire un aiuto materiale al padre agevolando la truffa, nello specifico mettendo a disposizione la carta parabancaria».
Tuttavia, «nel caso de quo, non solo può affermarsi che non siamo in presenza di un previo accordo ma neppure che fosse sussistente il dolo di partecipazione in capo alla COGNOME, ignorando il padre il di lei contributo materiale».
Poiché, però, «uesto secondo caso non è chiaramente perseguibile», «l’unica possibile spiegazione è quella secondo cui , avendo messo a disposizione la carta PostePay al padre, la ricorrente avrebbe dovuto avere un previo accordo con il COGNOME NOME».
Tuttavia, «tale visione si scontra con la realtà e non è in grado di sovrapporsi agli atti del processo, in particolare con le circostanze della denuncia dello smarrimento della carta da parte della ricorrente e della confidenza effettuata dalla stessa alla teste COGNOME: se lo scopo della COGNOME era quello di conseguire un ingiusto profitto erché mettere a conoscenza della situazione le FF.00.? Perché confessare l’operato del padre alla COGNOME?».
La ricorrente conclude che «la semplice intestazione della carta, considerato l’apporto inesistente durante tutte le condotte realizzate dal padre al fine di realizzare la truffa, non è da sola sufficiente a dimostrare il concorso della COGNOME. L’odierna ricorrente non ha fornito consapevolmente la carta PostePay al padre, pertanto non sussistono gli elementi del concorso di persone del contributo causale e dell’elemento soggettivo».
2.2. Il secondo motivo è proposto in relazione all’art. 606, comma 1, lett. b) ed e), cod. proc. pen., con riguardo «alla commisurazione della pena».
Il trattamento sanzionatorio irrogato dalla Corte d’appello di Campobasso sarebbe «del tutto sproporzionato» e la decisione della stessa Corte «disancorata dai parametri di uniformità, omogeneità e simmetria in tema di commisurazione della pena», non avendo essa «valorizzato i principi della legalità e della proporzionalità della pena, del favor rei e, soprattutto, il principio di uguaglianza».
La Corte d’appello di Campobasso non avrebbe adeguatamente motivato in ordine alle ragioni per le quali aveva ritenuto di discostarsi dal minimo edittale, con la conseguenza che tale discostamento si tradurrebbe «in una valutazione discrezionale arbitraria e priva di un fondamento motivazionale adeguato, in violazione del principio di proporzionalità della pena ed il principio di individualizzazione della responsabilità penale».
La motivazione sarebbe anche contraddittoria e illogica in quanto è la stessa Corte d’appello di Campobasso ad affermare che il ruolo avuto dall’imputata nel reato era «meno allarmante di quello del padre coimputato».
Secondo la ricorrente, alla stregua dei parametri di cui all’art. 133 cod. pen., risulterebbe la mancanza, contraddittorietà e illogicità della motivazione.
In particolare, con riguardo al parametro della gravità del reato: a) quanto alle modalità dell’azione, «non vi può essere una connotazione di pericolosità e riprovevolezza, stante la minima partecipazione della COGNOME»; b) quanto alla gravità del danno, il riferimento fatto dalla Corte d’appello di Campobasso all’«entità significativa del danno arrecato» sarebbe fuorviante, «in quanto afferente al danno di stampo civilistico, che non trova spazio nella valutazione ex art. 133 c.p.»; c) quanto all’intensità del dolo, «stante gli elementi portati alla luce da questa difesa , deve ritenersi sussistente tutt’al più un dolo eventuale, quindi con una intensità minima».
Con riguardo al parametro della capacità a delinquere, sarebbe «lapalissian come, tenendo in considerazione il carattere della COGNOME, la sua incensuratezza le sue condizioni di vita individuale, familiare sociale, la discrezionalità del Decidente non possa giustificare una valutazione in senso negativo».
La motivazione sarebbe contraddittoria e illogica anche perché la Corte d’appello di Campobasso si è discostata dal minimo edittale nonostante avesse
riconosciuto le circostanze attenuanti generiche e il beneficio della sospensione condizionale della pena.
CONSIDERATO IN DIRITTO
1. Il primo motivo è manifestamente infondato.
Secondo la giurisprudenza della Corte di cassazione, integra il delitto di truffa contrattuale, ai sensi dell’art. 640 cod. pen., la condotta di messa in vendita di un bene su un sito internet accompagnata dalla sua mancata consegna all’acquirente dopo il pagamento del prezzo, posta in essere da parte di chi falsamente si presenti come alienante ma abbia il solo proposito di indurre la controparte a versare una somma di denaro e di conseguire, quindi, un profitto ingiusto (Sez. 2, n. 51551 del 04/12/2019, Rv. 278231-01. In senso analogo: Sez. 2, n. 43660 del 19/07/2016, COGNOME, Rv. 268448-01).
Posto che la sussistenza della truffa è, nel caso in esame, pacifica, quanto al concorso della ricorrente in tale reato, ciò che costituisce la questione posta dal motivo di ricorso, il Collegio ritiene insussistenti i denunciati vizi di violazione d legge e motivazionali, atteso che, in assenza di attendibili elementi di segno contrario – nella specie, come subito si dirà, non ravvisabili – non si può ritenere né contraddittorio né manifestamente illogico reputare, come ha fatto la Corte d’appello di Campobasso, che l’intestataria di una carta Postepay (nella specie, la COGNOME) sulla quale venga chiesto di accreditare e venga effettivamente accreditato il prezzo del negozio truffaldino sia anche la beneficiaria di tale pagamento e sia quindi, in quanto tale, responsabile, quanto meno a titolo di concorso, della truffa.
Del resto, risponde a criteri di logica che l’autore materiale della truffa individui una modalità esecutiva del reato che gli consenta di appropriarsi del relativo profitto, ciò che conferma la responsabilità, a titolo di concorso, dell’imputata, che una tale modalità ha, appunto, consentito di individuare.
Quanto alla tesi, sostenuta dalla difesa della ricorrente, secondo cui questa non avrebbe avuto il possesso della carta Postepay a lei intestata, che sarebbe stata in possesso del padre e sarebbe stata da lui utilizzata all’insaputa della figlia, si deve anzitutto osservare che: da un lato, dalla lettura delle sentenze di merito, non risulta che tale ricostruzione dei fatti sia mai stata direttamente riferita dalla COGNOME, la quale non ha ritenuto di partecipare a nessuno dei due gradi di giudizio di merito; dall’altro lato, che la stessa ricostruzione risulta in ogni caso del tutto vaga, atteso che, in essa, difetta qualsiasi indicazione in ordine alle specifiche circostanze in cui sarebbe avvenuta l’asserita cessione della carta (e anche del suo PIN, tenuto conto che, per prelevare da una tale carta, occorre, appunto, il PIN).
La Corte d’appello di Campobasso ha inoltre del tutto logicamente argomentato che il fatto che la COGNOME aveva presentato, dopo qualche settimana dall’accredito sulla carta PostePay a lei intestata dei due bonifici effettuati dalla persona offesa, una mera denuncia di smarrimento di tale carta PostePay, senza alcuna menzione del fatto che la stessa carta era stata da lei consegnata al padre o era, comunque, in possesso del padre (insieme con il relativo PIN) già da epoca antecedente alla truffa, deponeva nel senso di smentire l’assunto difensivo che, solo a posteriori, pretendeva di assegnare interamente al padre la gestione “originaria” della carta.
In effetti, l’indicato assunto difensivo avrebbe potuto apparire eventualmente plausibile solo qualora la COGNOME, nella suddetta denuncia, avesse segnalato di avere consegnato la carta al padre o, comunque, che questi ne aveva il possesso – mentre lei ne aveva perso la disponibilità – in epoca anteriore alla truffa.
Quanto alla deposizione di NOME COGNOME, la Corte d’appello di Campobasso ha logicamente argomentato che tale testimone si era limitata a riferire de relato cose che le erano state dette dall’imputata, segnatamente, che la carta PostePay era utilizzata per fini illeciti dal padre senza che lei ne fosse stata a conoscenza. Cose che, tuttavia, la Corte d’appello riteneva, non illogicamente, inattendibili, sempre alla luce del fatto che la COGNOMECOGNOME nella ricordata denuncia di smarrimento, non aveva fatto alcun cenno a ciò.
La motivazione della Corte d’appello di Campobasso per cui solo il consapevole contributo della ricorrente aveva potuto rendere possibile il conseguimento del profitto della truffa si deve pertanto ritenere non mancante e del tutto priva di contraddizioni e di illogicità, tanto meno manifeste, oltre che di difformità rispetto alle norme di legge penale, con la conseguente manifesta infondatezza del motivo.
Il secondo motivo non è consentito.
La giurisprudenza della Corte di cassazione è costante nell’affermare che la determinazione della pena tra il minimo e il massimo edittale rientra tra i poteri discrezionali del giudice di merito ed è insindacabile nei casi in cui la pena sia applicata in misura media e, ancor più, se prossima al minimo, anche nel caso in cui il giudicante si sia limitato a richiamare criteri di adeguatezza, di equità e simili, nei quali sono impliciti gli elementi di cui all’art. 133 cod. pen. (tra le tante, Sez. 4, n. 46412 del 05/11/2015, COGNOME, Rv. 265283-01).
Anche successivamente, è stato ribadito che la graduazione della pena, anche in relazione agli aumenti e alle diminuzioni previsti per le circostanze aggravanti e attenuanti, rientra nella discrezionalità del giudice di merito, il quale, per assolvere al relativo obbligo di motivazione, è sufficiente che dia conto dell’impiego dei criteri di cui all’art. 133 cod. pen. con espressioni del tipo: “pena congrua”, “pena equa” o “congruo aumento”, come pure con il richiamo alla gravità del reato o alla
capacità a delinquere, essendo, invece, necessaria una specifica e dettagliata spiegazione del ragionamento seguito soltanto quando la pena sia di gran lunga superiore alla misura media di quella edittale (Sez. 2, n. 36104 del 27/04/2017, Mastro, Rv. 271243-01).
Con la precisazione che la media edittale che deve essere calcolata non dimezzando il massimo edittale previsto per il reato, ma dividendo per due il numero di mesi o anni che separano il minimo dal massimo edittale e aggiungendo il risultato così ottenuto al minimo (Sez. 3, n. 29968 del 22/02/2019. COGNOME, Rv. 276288-01).
Nel caso di specie, la pena base irrogata di nove mesi di reclusione ed C 150,00 di multa (poi diminuita di un terzo per le circostanze attenuanti generiche) è di gran lunga al di sotto della media edittale della pena per il delitto di cui all’art 640 cod. pen. (che è pari a un anno e nove mesi di reclusione ed C 541,50 di multa), con la conseguenza che l’obbligo di motivazione ben può ritenersi assolto dalla Corte d’appello di Campobasso mediante il riferimento, da essa operato, ai «criteri direttivi ex art. 133 c.p.».
Diversamente da quanto è sostenuto dal ricorrente, trattandosi di un reato contro il patrimonio, del tutto correttamente la Corte d’appello di Campobasso ha avuto riguardo anche all’entità del danno patrimoniale che era stato arrecato alla persona offesa.
Da ciò il carattere non consentito delle doglianze relative al trattamento sanzionatorio.
Pertanto, il ricorso deve essere dichiarato inammissibile, con la conseguente condanna della ricorrente, ai sensi dell’art. 616, comma 1, cod. proc. pen., al pagamento delle spese del procedimento, nonché, essendo ravvisabili profili di colpa nella determinazione della causa di inammissibilità, al pagamento della somma di C 3.000,00 in favore della cassa delle ammende.
P.Q.M.
Dichiara inammissibile il ricorso e condanna la ricorrente al pagamento delle spese processuali e della somma di euro tremila in favore della cassa delle ammende.
Così deciso il 16/10/2025.