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Concorso in truffa: la responsabilità del titolare della carta

Un soggetto, condannato in primo grado per concorso in truffa per aver ricevuto su una sua carta fondi provenienti da phishing, propone appello sostenendo di essere anch’egli una vittima. La Corte d’Appello conferma la condanna, stabilendo che fornire il proprio strumento di pagamento a terzi senza cautele integra il dolo eventuale, poiché si accetta il rischio che venga usato per fini illeciti, rendendo irrilevante la piena conoscenza del piano criminoso.

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Pubblicato il 4 ottobre 2025 in Diritto Penale, Giurisprudenza Penale, Procedura Penale

Concorso in Truffa e Phishing: Quando Fornire la Propria Carta Diventa Reato

Nell’era digitale, le truffe online come il phishing sono sempre più sofisticate e pericolose. Una recente sentenza della Corte d’Appello mette in luce un aspetto cruciale di questi crimini: la responsabilità di chi mette a disposizione i propri strumenti di pagamento. Anche senza una partecipazione diretta all’inganno, si può essere condannati per concorso in truffa. Analizziamo insieme questo caso per capire i confini della responsabilità penale.

I Fatti di Causa

Il caso ha origine da una classica truffa di tipo “phishing”. Una persona, tratta in inganno da una comunicazione fraudolenta, effettua un bonifico su una carta prepagata. Le indagini portano a identificare il titolare di tale carta, il quale viene processato e condannato in primo grado per concorso in truffa.

L’imputato, tuttavia, decide di appellare la sentenza, sostenendo la propria innocenza. La sua difesa si basa su una tesi precisa: egli stesso sarebbe stato vittima di un raggiro. Afferma di aver risposto a una falsa offerta di lavoro e di aver fornito i dati della propria carta e il relativo PIN a terzi con la promessa di ricevere un primo accredito, senza essere a conoscenza della provenienza illecita del denaro.

La Decisione della Corte d’Appello e il concorso in truffa

La Corte d’Appello ha esaminato attentamente la versione dei fatti fornita dall’imputato, ma ha deciso di respingere l’appello, confermando integralmente la sentenza di condanna di primo grado. La Corte ha ritenuto che la condotta dell’imputato non potesse essere considerata né inconsapevole né esente da colpa, configurando invece un pieno concorso in truffa.

Le Motivazioni

La Corte ha basato la sua decisione su alcuni pilastri argomentativi fondamentali. In primo luogo, la versione dell’imputato è stata definita “inverosimile” e priva di qualsiasi riscontro probatorio. Risulta infatti altamente improbabile che una persona, per una presunta assunzione, fornisca a sconosciuti uno strumento di pagamento personale e segreto come una carta con il suo PIN.

Il punto centrale della motivazione, però, risiede nell’analisi dell’elemento soggettivo del reato, ovvero il dolo. Secondo i giudici, per configurare il concorso in truffa, non è necessaria la piena e dettagliata conoscenza di tutto il piano criminoso. È sufficiente il cosiddetto “dolo eventuale”. Questo significa che chi agisce deve essere consapevole del rischio concreto che la propria azione possa contribuire a un’attività illecita e, nonostante ciò, decidere di agire comunque, accettando tale rischio.

Nel caso specifico, mettere a disposizione la propria carta a soggetti sconosciuti per la ricezione di somme di denaro rappresenta una condotta che va ben oltre la semplice negligenza. È un’azione che, secondo la Corte e la giurisprudenza consolidata, dimostra la volontà di accettare le possibili conseguenze illegali. L’imputato, con il suo comportamento, ha fornito un contributo causale indispensabile per la riuscita della truffa, consentendo ai criminali di incassare e far sparire il denaro sottratto alla vittima.

Le Conclusioni

La sentenza è definitiva: l’imputato è stato condannato per concorso in truffa e al pagamento delle spese processuali. Questa decisione rafforza un principio giuridico di estrema attualità e importanza pratica: la responsabilità penale non si ferma agli autori materiali dell’inganno, ma si estende a tutti coloro che, con le loro azioni, ne agevolano la realizzazione. Fornire i propri strumenti finanziari a terzi, senza le dovute verifiche e in circostanze sospette, non è una leggerezza, ma una condotta che può integrare un reato grave. La lezione è chiara: la massima cautela nella gestione dei propri dati e strumenti di pagamento non è solo una buona pratica per proteggere se stessi, ma anche un dovere per non diventare complici, anche solo per superficialità, di attività criminali.

Fornire la propria carta prepagata a terzi per ricevere un bonifico può integrare il reato di truffa?
Sì. Secondo la sentenza, mettere a disposizione il proprio strumento di pagamento, come una carta prepagata, per la ricezione di somme di provenienza illecita, integra il reato di concorso in truffa. Questo perché tale condotta costituisce un contributo consapevole e determinante all’attività criminale.

Se non sapevo che i soldi provenivano da un reato, posso essere condannato lo stesso?
Sì. La Corte ha stabilito che non è necessaria la piena conoscenza del piano criminale. È sufficiente il cosiddetto “dolo eventuale”, ovvero l’accettazione del rischio concreto che la propria carta potesse essere usata per scopi illeciti. Ignorare segnali di allarme evidenti e agire con grave leggerezza non esclude la responsabilità penale.

L’aver creduto a una finta offerta di lavoro è una giustificazione valida?
No. Nel caso esaminato, la Corte ha ritenuto la versione della finta offerta di lavoro “inverosimile” e non provata. Fornire i dati della propria carta e il relativo PIN a sconosciuti sulla base di una semplice promessa verbale è stata considerata una condotta talmente imprudente da configurare l’accettazione del rischio di un suo uso illegale.

La selezione delle sentenze e la raccolta delle massime di giurisprudenza è a cura di Carmine Paul Alexander TEDESCO, Avvocato a Milano, Pesaro e Benevento.

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