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Concorso in truffa: la responsabilità del prestanome

La Corte di Cassazione ha analizzato un caso di concorso in truffa, confermando la condanna di un uomo che aveva fornito la propria carta prepagata per ricevere i proventi di una frode ideata da altri. La sentenza chiarisce che tale condotta costituisce un contributo consapevole al reato. Tuttavia, la Corte ha annullato la decisione sul diniego delle attenuanti generiche, specificando che il legittimo esercizio del diritto di difesa, come la negazione degli addebiti, non può essere valutato negativamente ai fini della determinazione della pena.

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Pubblicato il 8 dicembre 2025 in Diritto Penale, Giurisprudenza Penale, Procedura Penale

Concorso in truffa: la responsabilità di chi presta la propria carta prepagata

Fornire la propria carta prepagata o il proprio conto corrente a terzi per l’accredito di somme illecite può configurare un concorso in truffa. La Corte di Cassazione, con la sentenza n. 30679/2024, ha ribadito questo importante principio, chiarendo che anche un contributo apparentemente passivo, come quello del cosiddetto ‘prestanome’, è sufficiente per essere ritenuti penalmente responsabili. Vediamo nel dettaglio il caso e le conclusioni della Suprema Corte.

I fatti del processo

Il caso riguarda un uomo condannato in primo e secondo grado per truffa continuata e aggravata. L’imputato era titolare di una carta prepagata e di un conto corrente sui quali venivano accreditate somme di denaro provenienti da truffe perpetrate ai danni di diverse vittime. Queste ultime venivano contattate telefonicamente da soggetti mai identificati che, con l’inganno, le inducevano a effettuare i versamenti.

La difesa dell’imputato ha sempre sostenuto la sua estraneità ai fatti, descrivendolo come una vittima a sua volta. Secondo la tesi difensiva, l’uomo, in condizioni di fragilità economica e di salute, sarebbe stato raggirato da un sedicente ‘imprenditore’ che lo avrebbe convinto ad aprire il conto e la carta in cambio di una piccola somma, una sorta di ‘mancia’, per ogni operazione.

L’analisi della Corte sul concorso in truffa

La Corte di Cassazione ha rigettato i motivi di ricorso relativi alla responsabilità penale. I giudici hanno sottolineato che, per la configurazione del concorso in truffa, non è necessario un accordo preventivo tra tutti i correi né la conoscenza reciproca. È sufficiente che ciascun agente fornisca un contributo consapevole e causalmente rilevante alla realizzazione del disegno criminoso.

Nel caso specifico, mettere a disposizione degli ideatori della truffa gli strumenti per incassare il profitto del reato (la carta e il conto) costituisce un apporto materiale fondamentale. Senza questi canali, la truffa non avrebbe potuto essere portata a compimento. La tesi difensiva dell’incolpevole coinvolgimento è stata ritenuta implausibile e priva di riscontri, configurando la condotta dell’imputato come un consapevole contributo alla realizzazione degli illeciti.

Il diniego delle attenuanti generiche e il diritto di difesa

Un punto cruciale della sentenza riguarda il trattamento sanzionatorio. La Corte d’Appello aveva negato all’imputato le circostanze attenuanti generiche, motivando la decisione anche sulla base della ‘pervicace negazione degli addebiti’.

Su questo aspetto, la Cassazione ha accolto il ricorso della difesa. I giudici supremi hanno affermato che la scelta processuale dell’imputato, che rientra nel pieno esercizio del suo diritto di difesa, non può essere usata come un elemento a suo sfavore per negare un beneficio di legge. Protestare la propria innocenza, rimanere in silenzio o non collaborare con l’autorità giudiziaria sono diritti costituzionalmente garantiti e non possono essere interpretati come un indice di maggiore colpevolezza o un motivo per inasprire la pena.

Le motivazioni

Le motivazioni della Corte si fondano su due pilastri. Il primo è la consolidata giurisprudenza sul concorso di persone nel reato, secondo cui è sufficiente la coscienza e volontà di contribuire, anche in minima parte, alla realizzazione di un fatto criminoso. L’imputato, fornendo i propri conti, ha agevolato la fase esecutiva e conclusiva della truffa, quella dell’incasso del profitto. Il secondo pilastro riguarda la tutela del diritto di difesa: la negazione delle accuse da parte dell’imputato non può essere un parametro per il diniego delle attenuanti generiche. Tale valutazione contrasta con i principi del giusto processo, che non possono penalizzare chi si difende proclamandosi innocente, anche di fronte a prove apparentemente schiaccianti.

Le conclusioni

La sentenza viene annullata limitatamente al punto del diniego delle circostanze attenuanti generiche, con rinvio ad un’altra sezione della Corte d’Appello per un nuovo giudizio su questo specifico aspetto. Viene invece resa irrevocabile la dichiarazione di responsabilità per il reato di concorso in truffa. Questa decisione riafferma un principio fondamentale: chiunque, consapevolmente, metta a disposizione i propri strumenti finanziari per la commissione di illeciti, si rende complice del reato, a prescindere dal suo coinvolgimento diretto nelle fasi ideative o esecutive della frode. Al contempo, la Corte tutela il diritto di difesa, stabilendo che le scelte processuali dell’imputato non devono influenzare negativamente la determinazione della pena.

Fornire la propria carta prepagata a terzi per ricevere denaro è reato?
Sì, secondo la sentenza, mettere consapevolmente a disposizione la propria carta o conto corrente per ricevere somme provenienti da un’attività illecita costituisce un contributo causale alla realizzazione del crimine e integra il concorso di persone nel reato, in questo caso la truffa.

Negare le accuse può comportare una pena più severa?
No. La Corte di Cassazione ha stabilito che la scelta dell’imputato di negare gli addebiti rientra nel suo diritto di difesa e non può essere utilizzata come motivo per negargli le circostanze attenuanti generiche o per inasprire la pena.

Per essere considerati complici in una truffa è necessario conoscere gli altri autori del reato?
No, la giurisprudenza ritiene che per il concorso di persone non sia necessario un previo accordo o la conoscenza reciproca tra tutti i concorrenti. È sufficiente che l’agente abbia la consapevolezza di contribuire, con la propria azione, alla realizzazione di un fatto criminoso altrui.

La selezione delle sentenze e la raccolta delle massime di giurisprudenza è a cura di Carmine Paul Alexander TEDESCO, Avvocato a Milano, Pesaro e Benevento.

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