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Concorso in truffa: la carta per ricevere i proventi

La Corte di Cassazione, con l’ordinanza n. 34892/2024, ha dichiarato inammissibile il ricorso di un soggetto condannato per truffa. La Corte ha stabilito che fornire la propria carta di pagamento per ricevere i proventi illeciti di una vendita costituisce un ruolo essenziale nella consumazione del reato, integrando così il concorso in truffa, anche in assenza di partecipazione diretta ad altre fasi dell’azione criminosa.

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Pubblicato il 18 dicembre 2025 in Diritto Penale, Giurisprudenza Penale, Procedura Penale

Concorso in truffa: la Cassazione sulla responsabilità di chi fornisce la carta

Mettere a disposizione la propria carta di pagamento per ricevere una somma di denaro può sembrare un gesto innocuo. Ma cosa succede se quei soldi sono il provento di una truffa? Una recente ordinanza della Corte di Cassazione chiarisce i confini della responsabilità penale, stabilendo che tale condotta può integrare un pieno concorso in truffa. Questa decisione sottolinea come anche un contributo apparentemente passivo possa essere considerato essenziale per la riuscita del reato.

I Fatti del Caso

Il caso esaminato dalla Suprema Corte riguardava un individuo condannato nei primi due gradi di giudizio per il reato di truffa. La sua responsabilità era stata accertata sulla base di un elemento chiave: il profitto derivante dall’attività illecita era confluito su una carta a lui intestata. L’imputato aveva presentato ricorso in Cassazione, sostenendo, tra le altre cose, di non aver avuto un ruolo attivo nella truffa e lamentando una violazione del principio di correlazione tra l’accusa originaria e la sentenza di condanna.

La Decisione della Corte di Cassazione

La Corte di Cassazione ha rigettato il ricorso, dichiarandolo ‘manifestamente infondato’. Gli Ermellini hanno confermato la decisione della Corte d’Appello, ribadendo che l’aver messo a disposizione lo strumento per l’incasso del prezzo della vendita fraudolenta costituisce un ruolo essenziale nella consumazione del reato. Di conseguenza, il titolare della carta è a tutti gli effetti un concorrente nel reato di truffa, anche se non ha materialmente posto in essere gli artifizi e raggiri tipici della condotta.

Le Motivazioni: il ruolo essenziale e il concorso in truffa

La Corte ha fondato la sua decisione su principi consolidati del diritto penale. Il punto centrale è la natura unitaria del reato concorsuale. Quando più persone collaborano per realizzare un illecito, ogni contributo, se causalmente rilevante, rende il suo autore responsabile per l’intero evento. Non è necessario compiere l’azione tipica del reato (ad esempio, l’inganno nella truffa) per essere considerati concorrenti. L’atto di fornire la carta su cui accreditare il profitto è stato ritenuto un anello fondamentale e indispensabile della catena criminale, senza il quale il reato non si sarebbe perfezionato con l’ottenimento del vantaggio economico.

L’onere della prova e il principio di ‘vicinanza’

Un altro aspetto cruciale toccato dalla Corte riguarda l’onere della prova. Una volta che l’accusa ha dimostrato, anche tramite presunzioni (come l’intestazione della carta), il coinvolgimento dell’imputato, spetta a quest’ultimo fornire elementi concreti a propria discolpa. In base al principio di ‘vicinanza della prova’, è l’imputato ad avere la possibilità più immediata di spiegare perché la sua carta sia stata usata in una transazione illecita. Una semplice negazione non è sufficiente a superare il quadro probatorio a suo carico.

La correlazione tra accusa e sentenza

Infine, la Corte ha respinto la doglianza relativa alla violazione del principio di correlazione tra accusa e sentenza. I giudici hanno chiarito che non sussiste alcuna violazione se un soggetto, accusato di aver commesso un reato da solo (uti singulus), viene poi condannato per averlo commesso in concorso con altri. Questa modifica della qualificazione giuridica non pregiudica il diritto di difesa, poiché il fatto storico contestato rimane il medesimo.

Conclusioni: Implicazioni Pratiche

L’ordinanza in esame rappresenta un importante monito sulla responsabilità individuale nell’utilizzo degli strumenti di pagamento. Prestare la propria carta o il proprio conto corrente, anche per fare un favore a un conoscente, può avere conseguenze penali gravissime se la transazione si rivela essere parte di un’attività illecita. La decisione conferma un orientamento giurisprudenziale rigoroso: la consapevolezza di fornire un contributo, anche minimo ma essenziale, alla realizzazione di un reato è sufficiente per essere considerati complici a pieno titolo. È quindi fondamentale esercitare la massima cautela e non consentire mai a terzi l’uso dei propri strumenti finanziari per operazioni di cui non si conosce con certezza la natura e la liceità.

Fornire la propria carta per ricevere un pagamento può rendermi complice di truffa?
Sì. Secondo la Corte di Cassazione, mettere a disposizione lo strumento finanziario per incassare il profitto di un’attività illecita costituisce un ruolo essenziale nella consumazione del reato, integrando pienamente il concorso in truffa.

Se non ho partecipato attivamente alla truffa, posso essere condannato lo stesso?
Sì. Il principio del concorso di persone nel reato stabilisce che chiunque fornisca un contributo causalmente rilevante alla commissione dell’illecito è considerato responsabile, anche se non ha compiuto personalmente l’azione tipica del reato (come l’inganno o l’artificio).

Cosa significa che non c’è violazione del principio di correlazione tra accusa e sentenza in questo caso?
Significa che un imputato accusato di aver commesso un reato da solo (uti singulus) può legittimamente essere condannato per averlo commesso in concorso con altri, poiché il nucleo del fatto storico contestato non cambia e il suo diritto di difesa non viene compromesso.

La selezione delle sentenze e la raccolta delle massime di giurisprudenza è a cura di Carmine Paul Alexander TEDESCO, Avvocato a Milano, Pesaro e Benevento.

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