Sentenza di Cassazione Penale Sez. 3 Num. 24981 Anno 2025
Penale Sent. Sez. 3 Num. 24981 Anno 2025
Presidente: COGNOME NOME
Relatore: NOME
Data Udienza: 16/04/2025
SENTENZA
sui ricorsi proposti da NOME NOMECOGNOME nato a Napoli il 08/07/1977 NOMECOGNOME nata a Caserta il 27/11/1985
avverso la sentenza della Corte d’appello di L’Aquila del 09/05/2024
visti gli atti, il provvedimento impugnato e i ricorsi;
udita la relazione svolta dal consigliere NOME COGNOME;
letta la requisitoria del Pubblico Ministero, in persona del Sostituto Procuratore generale NOME COGNOME che ha concluso chiedendo l’inammissibilità dei ricorsi; letta la memoria di replica dell’avv. COGNOME che ha insistito nell’accoglimento dei ricorsi.
RITENUTO IN FATTO
Con l’impugnata sentenza, la Corte d’appello di L’Aquila, per quanto qui rileva, ha confermato la sentenza di condanna del Giudice delle indagini preliminari del Tribunale di Lanciano, appellata dal Procuratore generale e dagli imputati, con la quale COGNOME COGNOME era stato ritenuto responsabile dei reati di cui ai capi A), sub. 1,2,4,5,6,7,8,9,10,11,12 e 14, qualificato irfatto ai sensi dell’art. 73 comma 5 d.P.R. 9 ottobre 1990, n. 309, e B), art. 73 comma 1 d.P.R. 9 ottobre 1990, n.
309, capo C) art. 385 cod.pen., alla pena di anni cinque e mesi due di reclusione e C 20.000,00 di multa; Giordano Francesca del reato di cui al capo B), art. 73 comma 1 d.P.R. 9 ottobre 1990, n. 309, alla pena di anni due e mesi otto di reclusione e C 11.555 di multa.
Avverso la sentenza gli imputati hanno presentato ricorsi, a mezzo del comune difensore, e ne hanno chiesto l’annullamento per i seguenti motivi enunciati nei limiti strettamente necessari per la motivazione, come disposto dall’art. 173, comma 1, disp. att., cod. proc. pen.
2.1. Nell’interesse di NOMECOGNOME con il primo motivo denuncia la violazione di legge e vizio di motivazione. I giudici del merito avrebbero affermato la responsabilità penale della NOME in relazione al capo B), sulla scorta delle dichiarazioni etero accusatorie di NOME, coindagata nello stesso procedimento penale, senza riscontri, e dunque in violazione dell’art. 192 comma 3 cod.proc.pen., in assenza di un adeguato vaglio della credibilità soggettiva e del racconto intrinsecamente inverosimile. La corte territoriale avrebbe reso una motivazione illogica là dove avrebbe ritenuto sussistenti i riscontri nelle indagini e nel rinvenimento della chiave che apriva la scatola dove era stato rinvenuto lo stupefacente nella disponibilità dei coniugi COGNOME, per cui non sarebbe evincibile una prova certa della partecipazione della Giordano nella detenzione dello stupefacente.
2.2. Con il secondo motivo denuncia il vizio di motivazione in relazione al diniego di riconoscimento del fatto lieve ai sensi dell’art. 73 comma 5 d.P.R. 9 ottobre 1990, n. 309
2.3. Con il terzo motivo denuncia il vizio di motivazione in relazione al diniego di riconoscimento della minima partecipazione ai sensi dell’art 114 cod.pen.
Nell’interesse di COGNOME Pasquale, denuncia il vizio di motivazione in relazione alla richiesta di riconoscimento del vincolo della continuazione tra tutti reati contestati, avanzata nei motivi di appello, e di rideterminazione in melius del trattamento sanzionatorio, omessa risposta della corte territoriale.
CONSIDERATO IN DIRITTO
I ricorsi sono entrambi inammissibili per manifesta infondatezza e genericità di tutti i motivi di ricorso.
In relazione al primo profilo di doglianza di NOME COGNOME ed in particolare in ordine alla ritenuta partecipazione nel reato di detenzione a fini d spaccio, in concorso con COGNOME NOME, di sostanza stupefacente tipo cocaina del peso di grammi 158,50, contenuta in una cassetta di sicurezza metallica chiusa a chiave e occultata nel controsoffitto del locale adibito a parrucchiere di NOMECOGNOME osserva, la Corte, che può essere esaminato prendendo in considerazione sia la motivazione della sentenza impugnata sia quella della sentenza di primo
grado, e ciò in quanto i giudici di merito hanno adottato decisioni e percorsi motivazionali comuni che possono essere valutati congiuntamente ai fini di una efficace ricostruzione della vicenda processuale e di una migliore comprensione delle censure del ricorrente. Allorché infatti le sentenze di primo e secondo grado concordino, come in specie, nell’analisi e nella valutazione degli elementi di prova posti a fondamento delle rispettive decisioni, la struttura motivazionale della sentenza di appello si salda con quella precedente per formare un unico complesso corpo argomentativo (ex plurimis, Sez. 1, n. 8868 del 26/06/2000, COGNOME, Rv. 216906; cfr. da ult. Sez. 5, n. 40005 del 07/03/2014, COGNOME, Rv. 260303), cui occorre far riferimento per giudicare della congruità della motivazione, integrando e completando quella adottata dal primo giudice le eventuali carenze di quella d’appello (Sez. 1, n. 1309 del 22/11/1993, COGNOME, Rv. 197250)”.
Secondo le conformi sentenze di merito, a seguito di perquisizione del locale adibito a parrucchiere di COGNOME NOME, la predetta riferiva di custodire nel controsoffitto del suo locale, una scatola di scarpe che le era stata consegnata verso la fine del mese di maggio del 2020, da una sua cliente di nome NOME abitante insieme al marito NOME in un appartamento lì vicino, e che all’interno della scatola di scarpe era presente una cassetta di sicurezza metallica chiusa a a chiave. La predetta dichiarava di non conoscere il contenuto di quest’ultima, le cui chiavi erano in possesso alla citata NOME. All’esito del reperimento delle chiavi presso l’abitazione dei coniugi COGNOME e NOME, la polizia giudiziaria procedeva all’apertura della cassetta metallica che risultava contenere sei involucri di sostanza stupefacente cocaina del peso di grammi 158,50. La COGNOME, nel corso dell’interrogatorio di convalida dell’arresto, dichiarava che la scatola le era stat consegnata da NOME il 29 maggio alle 21:35, che il giorno dopo aveva preso la scatola e l’aveva riposta nel negozio, che non conosceva il contenuto, che non aveva ricevuto denaro dal Pasquale per la custodia e che il 29 maggio 2020, la medesima NOME l’aveva contattata telefonicamente con tono adirato e si era presentata presso la sua abitazione portando al seguito un bustone di plastica con all’interno la scatola di cartone per le scarpe, che le consegnava in custodia dicendole che all’interno della scatola di scarpe vi era una cassetta contenente i loro risparmi. Le dichiarazioni rese dalla COGNOME, coindagata nel medesimo reato, hanno trovato riscontro esterno, si dà confermare l’attendibilità intrinseca e soggettiva della dichiarante, nelle operazioni di intercettazione ambientale con GPS, il cui monitoraggio del 29 maggio 2020, confermava in toto il narrato della COGNOME circa gli spostamenti della COGNOME. Ma non solo, le dichiarazioni della COGNOME hanno trovato riscontro nel rinvenimento, su indicazione della COGNOME, della chiave di apertura della cassetta metallica contenente lo stupefacente. Corte di Cassazione – copia non ufficiale
Ciò detto, è noto al riguardo che, compito del giudice di legittimità nel
sindacato sui vizi della motivazione non è, infatti, quello di sovrapporre la propria valutazione a quella compiuta dai giudici di merito, ma quello di stabilire se questi ultimi abbiano esaminato tutti gli elementi a loro disposizione, se abbiano fornito una corretta interpretazione di essi, dando completa e convincente risposta alle deduzioni delle parti, e se abbiano esattamente applicato le regole della logica nello sviluppo delle argomentazioni che hanno giustificato la scelta di determinate conclusioni a preferenza di altre.
Una tale manifesta illogicità non è predicabile nella specie con riferimento alla valutazione operata dai giudici di merito.
La sentenza, invero, poggia su un ragionamento logico che, lungi dalla denunciata assertività e apoditticità è ampiamente e diffusamente motivata con riguardo alla partecipazione della Giordano nella detenzione a fini di spaccio contestata nel capo B).
Alla medesima conclusione deve pervenirsi con riguardo al secondo e terzo motivo di ricorso. La ricorrente ripropone, con il terzo motivo, la medesima censura incentrata sul mancato riconoscimento dell’ipotesi di cui al D.P.R. n. 309 del 1990, art. 73, comma 5, già prospettata nel giudizio di appello e ampiamente vagliata e disattesa dalla Corte d’appello con motivazione congrua che ha fatto buon governo dei principii, più volte stabiliti da questa Suprema Corte, secondo cui la fattispecie del fatto di lieve entità di cui al d.D.P.R. n. 309 del 1990, art. comma 5, può essere riconosciuta solo nella ipotesi di minima offensività penale della condotta, desumibile sia dal dato qualitativo e quantitativo, sia dagli altr parametri richiamati espressamente dalla disposizione (mezzi, modalità e circostanze dell’azione). In applicazione di tale regula iuris, la Corte d’appello ha correttamente ritenuto, confermando la decisione del giudice di primo grado, di escludere che la lesione del bene giuridico protetto fosse di lieve entità, facendo riferimento, con motivazione immune da vizi logico-giuridici in questa sede rilevabili, ai dati inerenti al dato ponderale significativo pari a grammi 158,50 d cocaina e le modalità della condotta (occultamente presso terzi).
Quanto, poi, alla invocata circostanza attenuante del contributo di minima importanza, deve rammentarsi che la stessa è configurabile quando l’apporto del concorrente non solo abbia avuto una minore rilevanza causale rispetto alla partecipazione degli altri concorrenti, ma abbia anche assunto un’importanza obiettivamente minima e marginale ossia di efficacia causale così lieve rispetto all’evento da risultare trascurabile nell’economia generale dell’ite criminoso (cfr. Sez. 3, n. 9844 del 17/11/2015, COGNOME, Rv. 266461, Sez. 3, n. 34985 del 16/07/2015, COGNOME e altro, Rv.264455; Sez. 1, n. 29168 del 31/05/2011, Atowi e altri, Rv. 250751; Sez. 1, n. 26031 del 09/05/2013, COGNOME, Rv. 256035; Sez. 4, n. 12811 del 08/02/2007, COGNOME e altro, Rv. 236198; Sez. 6, n. 45248 del 30/11/2005, COGNOME, Rv. 232619).
Ciò posto, la sentenza impugnata ha escluso che l’opera prestata dalla COGNOME (che ha materialmente consegnato la scatola alla COGNOME per la custodia della droga e il fatto che più volte si era recata a controllare il contenuto e prelevarne una parte, cfr. pag. 28 sentenza del Tribunale), ha avuto una non minima efficacia causale, avendo assunto una certa rilevanza, sia materiale che psicologica, nella fase esecutiva del delitto.
La Corte distrettuale, infatti, nel negare la configurabilità dell’attenuante d cui all’art. 114 cod. pen., ha – correttamente – affermato che nel caso in esame il coinvolgimento della ricorrente non poteva definirsi minimo essendo piuttosto il vero dominus delle fasi esecutive.
8. Il ricorso di COGNOME Pasquale è inammissibile.
Sotto un primo profilo deve rammentarsi che i motivi generici restano viziati da inammissibilità originaria anche quando la decisione del giudice dell’impugnazione non pronuncia in concreto tale sanzione (Sez. 3, n. 10709 del 25/11/2014, COGNOME, Rv. 262700), sicchè in presenza di motivo di appello generico, non ricorre il vizio di omessa motivazione.
Tale era il motivo di appello con cui si chiedeva il riconoscimento del vincolo della continuazione, così declinato “i fatti di causa secondo la stessa impostazione accusatoria si sono svolti in esecuzione di un medesimo disegno criminoso ragione per la quale tutti i reati comprese le contestate evasioni andavano ricondotte nell’alveo del reato continuato”, senza alcuna specificazione delle ragioni per poter configurare il medesimo disegno criminoso (tempo commesso reato, omogeneità dei fatti etc.).
Sotto altro profilo, va rilevato che dalla sentenza di primo grado, risulta chiaramente che l’Aveta è stato condannato per i reati di cui ai capi A) e B), violazione leggi stupefacenti, in continuazione, e, dunque, la censura, quantomeno con riferimento ai capi A) e B) è anche manifestamente infondata.
I ricorsi devono essere dichiarati inammissibili e i ricorrenti devono essere condannati al pagamento delle spese processuali ai sensi dell’art. 616 cod.proc.pen. Tenuto, poi, conto della sentenza della Corte costituzionale in data 13 giugno 2000, n. 186, e considerato che non vi è ragione di ritenere che i ricorsi siano stati presentati senza “versare in colpa nella determinazione della causa di inammissibilità”, si dispone che ciascun ricorrente versi la somma, determinata in via equitativa, di euro 3.000,00 in favore della Cassa delle Ammende.
P.Q.M.
Dichiara inammissibili i ricorsi e condanna i ricorrenti al pagamento delle spese processuali e della somma di C 3.000,00 in favore della Cassa delle Ammende.
Così deciso, il 16/04/2025