Concorso in spaccio: quando il convivente diventa complice?
La convivenza con una persona dedita ad attività illecite come lo spaccio di stupefacenti pone spesso delicati interrogativi sui confini tra la semplice conoscenza dei fatti e una partecipazione attiva al reato. Un’ordinanza della Corte di Cassazione chiarisce come determinati comportamenti trasformino il convivente da mero “connivente non punibile” a pieno partecipe del concorso in spaccio, delineando i criteri per valutare il suo coinvolgimento.
I Fatti di Causa
Il caso esaminato dalla Suprema Corte riguarda una donna condannata in appello per detenzione e spaccio di sostanze stupefacenti in concorso con il proprio compagno. La difesa dell’imputata aveva presentato ricorso in Cassazione sostenendo che il suo ruolo fosse stato meramente passivo e che la responsabilità penale dovesse ricadere unicamente sul convivente. Tuttavia, gli elementi emersi durante le indagini raccontavano una storia diversa. Al momento dell’arrivo delle forze dell’ordine presso l’abitazione, la donna si era allontanata rapidamente portando con sé un pacco contenente tre chilogrammi di sostanza stupefacente. Inoltre, all’interno dell’appartamento, erano stati rinvenuti ulteriori dieci chili di marijuana e strumenti per estrarre la resina dall’hashish, tutti collocati “in bella vista” e quindi facilmente accessibili.
La Decisione della Corte di Cassazione
La Corte di Cassazione ha dichiarato il ricorso inammissibile, confermando integralmente la condanna inflitta dalla Corte d’Appello. Secondo gli Ermellini, tutti i motivi di ricorso erano infondati in quanto le censure proposte non erano consentite in sede di legittimità, e le motivazioni della corte territoriale erano state logiche, corrette e prive di vizi.
Le Motivazioni della Decisione: il concorso in spaccio e il ruolo attivo
La Suprema Corte ha smontato punto per punto la linea difensiva, chiarendo le ragioni per cui la condotta dell’imputata non potesse essere derubricata a semplice connivenza.
Dalla Connivenza al Concorso nel Reato
Il punto cruciale della decisione risiede nella distinzione tra la connivenza passiva e la partecipazione attiva. La difesa sosteneva che l’imputata fosse una semplice convivente a conoscenza dei fatti, ma non una complice. La Cassazione ha respinto questa tesi, evidenziando come le azioni della donna dimostrassero un “pieno coinvolgimento”. Il tentativo di fuga con un’ingente quantità di droga non è un atto neutro, ma una chiara azione finalizzata a eludere il controllo e a salvare parte del profitto illecito. Questo, unito alla presenza di strumenti per la lavorazione della droga in piena vista, ha delineato un quadro di consapevole e attiva partecipazione all’attività di spaccio.
L’Esclusione di Cause di Giustificazione e Attenuanti
La Corte ha anche rigettato le richieste di riqualificare il reato in favoreggiamento personale (art. 384 c.p.) o di riconoscere la causa di non punibilità per la particolare tenuità del fatto (art. 131-bis c.p.). Il coinvolgimento è stato ritenuto troppo profondo per essere considerato un mero aiuto a un familiare. La gravità della condotta, caratterizzata dalla detenzione di un quantitativo enorme di stupefacenti (10 kg) e da modalità “professionali”, ha impedito l’applicazione di qualsiasi beneficio, inclusa la fattispecie di lieve entità prevista dalla legge sulla droga (art. 73, comma 5, D.P.R. 309/90).
Il Contributo tutt’altro che Marginale
Infine, è stata respinta anche la richiesta di applicazione dell’attenuante per il contributo di minima importanza. La Corte ha sottolineato che, per ottenere tale attenuante, il contributo deve essere del tutto marginale. Nel caso di specie, il ruolo della donna, sebbene forse secondario rispetto a quello del compagno, è stato ritenuto essenziale e non irrilevante per la gestione dell’attività illecita.
Le Conclusioni
L’ordinanza ribadisce un principio fondamentale: nel contesto del concorso in spaccio, la condotta del convivente viene valutata sulla base di elementi fattuali concreti. Azioni come l’occultamento della sostanza o la gestione degli strumenti del “mestiere” non sono semplici atti di tolleranza, ma contributi causali attivi che integrano la piena partecipazione al reato. La sentenza serve da monito: la condivisione di uno spazio abitativo non crea uno scudo di impunità, e chiunque partecipi attivamente, anche con un ruolo apparentemente minore, all’attività di spaccio del partner ne condivide pienamente la responsabilità penale.
Vivere con una persona che spaccia droga rende automaticamente complici?
No, la mera convivenza e la conoscenza dell’attività illecita del partner non sono sufficienti per essere considerati complici. È necessaria una partecipazione attiva, ovvero un contributo materiale o morale alla realizzazione del reato.
Quando la condotta del convivente si qualifica come concorso in spaccio?
Secondo questa ordinanza, la condotta si qualifica come concorso in spaccio quando il convivente compie azioni concrete che dimostrano un pieno coinvolgimento, come tentare di nascondere la droga durante un controllo di polizia o la consapevolezza e disponibilità di strumenti per il confezionamento lasciati “in bella vista” nell’abitazione comune.
È possibile che un ruolo secondario nello spaccio venga considerato di minima importanza?
No, non necessariamente. La Corte ha chiarito che per l’applicazione dell’attenuante del contributo di minima importanza è necessario che il ruolo sia stato del tutto marginale. Un contributo ritenuto comunque rilevante per la commissione del reato, anche se non primario, non consente il riconoscimento di tale attenuante.
Testo del provvedimento
Ordinanza di Cassazione Penale Sez. 7 Num. 4008 Anno 2025
Penale Ord. Sez. 7 Num. 4008 Anno 2025
Presidente: NOME COGNOME
Relatore: COGNOME NOME COGNOME
Data Udienza: 25/10/2024
ORDINANZA
sul ricorso proposto da:
COGNOME nato a GROTTAGLIE il 12/08/1987
avverso la sentenza del 15/01/2024 della CORTE APPELLO di LECCE
dato avviso alle parti;
udita la relazione svolta dal Consigliere NOME COGNOME;
e
visti gli atti e la sentenza impugnata; e letta la memoria con la quale si insiste per esaminati i motivi di ricorso l’accoglimento degli stessi.
Il ricorso è inammissibile, in quanto tutti i motivi di ricorso non sono consentiti dalla legge in sede di legittimità.
Il primo e il secondo motivo, relativi alla ritenuta responsabilità per il reato contestato, articolano critiche aspecifiche in merito alla sussistenza del concorso nel reato – dovendosi, secondo a difesa, ritenere colpevole solo il convivente e configurare il ruolo dell’imputata come quello di connivente non punibile – su profili di censura già adeguatamente vagliati e disattesi con corretti argomenti giuridici dal giudice di merito (la Corte di appello ha offerto congrua e non viziata motivazione sugli elementi che deponevano per il pieno coinvolgimento della COGNOME, avendo riguardo al fatto che la stessa, al momento dell’arrivo dei poliziotti, si allontanava velocemente con un pacco contenente 3 chili di sostanza stupefacente, nonché alla circostanza che i contenitori e gli strumenti per estrarre dall’hashish la resina erano collocati “in bella vista” all’interno della abitazione. Cfr. pag. 8 e 9).
Il terzo motivo, con il quale si invoca la riqualificazione in favoreggiamento personale e il riconoscimento della causa di non punibilità prevista dall’art. 384, primo comma, cod. pen., ha trovato puntuale risposta a pag. 12 della sentenza impugnata. Analoga considerazione vale per la seconda censura del terzo motivo, afferente al mancato riconoscimento della causa di non punibilità di cui all’art. 131-bis cod. pen. (si vedano le pagine 12 e 13, nella parte in cui la condotta dell’imputata viene valutata di rilevante gravità, in considerazione della professionalità dell’attività nella quale concorreva).
Quanto al quarto motivo, la Corte di appello ha accertato implicitamente la insussistenza dei presupposti della fattispecie di cui all’art. 73, comma 5, d.P.R. 309/90, trattandosi di detenzione ai fini di spaccio di 10 chili di marijuana con modalità, come detto sopra, professionali.
Infine, per quanto concerne il quinto motivo, relativo al mancato riconoscimento della circostanza attenuante del contributo di minima importanza, la Corte di appello, con motivazione congrua e logica, ha evidenziato l’irrilevanza della minore efficacia causale dell’attività prestata dall’imputata, essendo necessario che il contributo si sia concretizzato nell’assunzione di un ruolo del tutto marginale. Circostanza non ravvisabile nel caso di specie (cfr. pag. 14).
Rilevato, pertanto, che il ricorso deve essere dichiarato inammissibile con condanna del ricorrente al pagamento delle spese processuali e della somma di euro tremila in favore della Cassa delle ammende.
P. Q. M.
Dichiara inammissibile il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese processuali e della somma di euro tremila in favore della Cassa delle ammende.
Così deciso il 25/10/2024.