Sentenza di Cassazione Penale Sez. 6 Num. 3659 Anno 2024
Penale Sent. Sez. 6 Num. 3659 Anno 2024
Presidente: COGNOME
Relatore: COGNOME NOME
Data Udienza: 23/11/2023
SENTENZA
sui ricorsi proposti da COGNOME NOME, nato a Napoli il DATA_NASCITA COGNOME NOME, nata a Napoli il DATA_NASCITA
avverso la sentenza emessa il 14/02/2023 dalia Corte di appello di Roma;
visti gli atti, il provvedimento impugnato e il ricorso; udita la relazione svolta dal AVV_NOTAIO; letta la requisitoria del Pubblico ministero, in persona del AVV_NOTAIO, che ha chiesto di dichiarare inammissibile il ricorso; lette la memoria del difensore dei ricorrenti, AVV_NOTAIO, che ha chiesto l’accoglimento dei ricorsi.
RITENUTO IN FATTO
La sentenza impugnata ha confermato la condanna di NOME COGNOME e di NOME COGNOME per il delitto di cui all’art. 73, comma 5, d.P.R. n. 309 del 1990, in relazione alla detenzione di un quantitativo di hashish sufficiente a ricavarne
304 dosi medie singole, nonché di cocaina, con un principio attivo tale da potersi ottenere 83 dosi medie singole.
Con unico atto del loro comune difensore, gli imputati ricorrono avverso tale decisione, denunciando vizi di motivazione sui seguenti capi e punti della decisione:
utilizzabilità della consulenza tecnica effettuata per conto del Pubblico ministero: indiscussa l’erronea indicazione del principio attivo della cocaina e, di conseguenza, dell’indicazione del numero delle dosi ricavabili, appare illogico ritenere – come invece fanno entrambi i giudici di merito – che si sia trattato di un semplice errore di calcolo, emendabile, nel dubbio, con il riconoscimento dell’ipotesi lieve di cui al comma 5 del citato art. 73; tale errore, piuttosto, ridonda sull’attendibilità dell’intera indagine tecnica e,, peraltro, il più ridotto quantitat ritenuto in sentenza si coniuga con le dichiarazioni del COGNOME, là dove ha affermato di consumare 4-5 grammi al giorno di tale sostanza, così da poter ritenere che la stessa rappresentasse nient’altro che la “scorta” settimanale per il proprio uso esclusivo; infine – adduce la difesa – la sentenza si presenta intrinsecamente contraddittoria nel momento in cui giudica detta consulenza tec:nica inattendibile, ma poi la reputa credibile ed utilizzabile per confutare le allegazioni del COGNOME; 1)
valutazione probatoria del c.d. “test del capello”, cui COGNOME si è volontariamente sottoposto: da tale indagine, ad ulteriore conferma della destinazione di detta sostanza al suo uso esclusivo, è risultata la presenza di principio attivo della cocaina nel bulbo pilifero in misura superiore di tre volte alla soglia minima, nonostante egli fosse allora già da tempo detenuto; la sentenza impugnata praticamente ignora questo dato e, pur non escludendo che parte della sostanza rinvenuta fosse destinata all’uso personale dell’imputato, omette di accertarne la quantità invece riservata allo “spaccio” ed il principio attivo di quest’ultima, con i consequenziali riflessi sulla rilevanza penale del fatto;
/H) valutazione probatoria del rinvenimento di circa novemila euro in contanti all’interno dell’abitazione degli imputati: la difesa ha dimostrato con documenti che detta somma corrispondeva esattamente a quella percepita a titolo di sussidio di disoccupazione dalla COGNOME e che veniva da lei sistematicamente prelevata nell’immediatezza dell’accredito; a questo aggìungasi che ella prestava attività di pulizia presso committenti privati; a fronte di tali allegazioni, in sentenza manca qualsiasi spunto giustificativo del collegamento di quella somma all’attività illecita addebitata;
/V) concorso della COGNOME nel reato: costei viene ritenuta colpevole per il sol fatto che le sostanze fossero detenute in casa, insieme alle anzidette somme di sua spettanza ma di provenienza lecita, con un ragionamento perciò ellittico,
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fondato su un criterio di possibilità e non di certezza logica; in sentenza, infatti, non viene descritto alcun suo contributo all’ipotizzata attività di “spaccio” del COGNOME e, dunque, alla detenzione a quello scopo delle sostanze rinvenute, essendo invece necessaria la precisa individuazione della condotta concorrente anche nel caso di concorso semplicemente morale;
commisurazione della pena e diniego delle attenuanti generiche: la motivazione sarebbe generica e puramente di stile, sebbene la pena irrogata sia lontana dal minimo edittale, avendo la Corte d’appello trascurato di considerare la coerenza delle dichiarazioni degli imputati con i risultati delle indagini e l’osservanza delle prescrizioni cautelari loro imposte nel corso del procedimento.
Ha depositato requisitoria scritta il AVV_NOTAIO AVV_NOTAIO, concludendo per l’inammissibilità del ricorso.
Ha depositato motivate conclusioni scritte il difensore dei ricorrenti, insistendo per l’accoglimento dell’impugnazione.
CONSIDERATO IN DIRITTO
Il primo motivo di ricorso è inammissibile, per manifesta infondatezza.
La sentenza impugnata spiega con chiarezza perché quello compiuto dal consulente tecnico del Pubblico ministero nell’indicazione finale delle dosi ricavabili dalla cocaina sia stato un semplice errore di calcolo, prontamente emendato già dal primo giudice e comunque valutato in favore degli imputati.
In ogni caso, detto errore non determina alcuna inutilizzabilità, non trattandosi di prova illegale (art. 191, cod. proc. pen.) ed influendo, semmai, soltanto sulla capacità dimostrativa di tale indagine tecnica. Tuttavia, l’assunto difensivo della totale inattendibilità della stessa è puramente assertivo.
Anche il secondo motivo è privo di qualsiasi fondamento.
La sentenza impugnata non omette affatto di considerare il test del capello eseguito dal COGNOME, ma correttamente rileva come esso a nulla rilevi per l’hashish e come, comunque, la cocaina da lui detenuta fosse destinata alla cessione a terzi, ciò desumendo da vari indici: parziale confezionamento in dosi singole per il consumo; rinvenimento nel cestino dei rifiuti in cucina di ritagli di cellophane; presenza di una consistente somma di denaro; contenuto dei messaggi estrapolati dai telefoni degli imputati; distribuzione delle sostanze stupefacenti in vari luoghi della casa; disponibilità di strumenti per taglio, pesatura e confezionamento di tali sostanze (pag. 4).
Tale deduzione si presenta indiscutibilmente ragionevole, e comunque non manifestamente illogica, sottraendosi perciò a censura in questa sede.
Analoghe considerazioni valgono per il terzo motivo, in ordine alla valenza dimostrativa del denaro rinvenuto in casa.
La sentenza si limita ad osservare che non sono compatibili quelle disponibilità con i risparmi ricavabili da un modesto sussidio di disoccupazione. Il ricorso cerca di confutare tale deduzione, affermando di aver prodotto gli estratti conto bancari, i quali dimostrerebbero il prelievo delle intere somme subito dopo l’accredito.
In questo modo, però, la difesa non solo non svilisce la deduzione della Corte distrettuale, indubbiamente ragionevole perché conforme all’esperienza comune, ma addirittura le dà ulteriore sostegno logico: l’integrale ed immediato prelievo delle disponibilità liquide, infatti, si giustifica razionalmente soltanto con cogenti necessità di spesa, non certamente per tenere il denaro in un cassetto. Inoltre, se – come sostiene la difesa – le somme rinvenute fossero esattamente quelle prelevate, la logica imporrebbe di offrire la dimostrazione della disponibilità di altri introiti leciti, mediante i quali gli imputati abbiano provveduto, quanto meno, alle loro esigenze di vita quotidiane per tutto il lungo periodo occorso loro per accumulare quella somma: il ricorso, però, in proposito nulla dice.
Merita un esame ulteriore, invece, secondo il Collegio, la posizione della COGNOME.
La sentenza impugnata, in effetti, non si sofferma specificamente su di essa, sostanzialmente richiamando, per lei, la decisione di primo grado: la quale ne ha dedotto il concorso nel reato con il proprio convivente COGNOME dal posizionamento delle droghe in vari punti della casa, dall’attività di confezionamento da poco terminata (desunta dai ritagli di cellophane presenti nel cestino dei rifiuti) e dalla presenza, anche sul suo telefono, di conversazioni relative alle cessioni (pag. 6, sentenza G.u.p.).
Ma i primi due dati di fatto non sono decisivi, ben potendo coniugarsi anche con una semplice connivenza, in quanto non dimostrativi di un contributo da lei offerto alla disponibilità ed alla cessione di quelle sostanze. Decisivo, dunque, potrebbe risultare il contenuto dei messaggi presenti anche sul suo telefono, che tuttavia nessuna delle due sentenze riporta, non permettendo così di verificarne la concludenza.
S’impone, perciò, un supplemento di motivazione, dovendo perciò la sentenza essere annullata con rinvio su questo capo, affinché il giudice di merito vi provveda.
L’ultimo motivo, in tema di trattamento sanzionatorio, è ovviamente superato per quanto riguarda la COGNOME.
Non lo è per COGNOME, per il quale è comunque inammissibile, attenendo al merito delle valutazioni compiute dalla sentenza impugnata e non essendo perciò consentito in questa sede.
La determinazione della pena, infatti, rientra nella discrezionalità del giudice di merito, che la esercita in aderenza ai principi enunciati negli artt. 132 e 133, cod. pen.. È inammissibile, perciò, la censura che, nel giudizio di cassazione, miri ad una nuova valutazione della congruità della pena, la cui determinazione non sia frutto di mero arbitrio o di ragionamento illogico e sia sorretta da sufficiente motivazione, essendo necessaria una specifica e dettagliata spiegazione del ragionamento seguito soltanto quando la pena sia di gran lunga superiore alla misura media di quella edittale (tra le tantissime: Sez. 3, n. 29968 del 22/02/2019, COGNOME, Rv. 276288; Sez. 2, n. 36104 del 27/04/2017, COGNOME, Rv. 271243; Sez. 5, n. 5582 del 30/09/2013, COGNOME, Rv. 259142,.
Nello specifico, la sentenza ha richiamato quella di primo grado, che ha ragionevolmente valorizzato, in particolare, le modalità dell’azione, denotanti una peculiare accortezza, e la diversa tipologia delle sostanze, con un conseguente maggior danno potenziale per i consumatori, fissando comunque la pena al di sotto medio edittale.
L’inammissibilità del ricorso di COGNOME comporta obbligatoriamente – ai sensi dell’art. 616, cod. proc. pen. – la sua condanna a pagare le spese del procedimento ed a versare una somma in favore della Cassa delle ammende, non ravvisandosi una sua assenza di colpa nella determinazione della causa d’inammissibilità (vds. Corte Cost., sent. n. 186 del 13 giugno 2000). Detta somma, considerando la manifesta inconsistenza delle sue doglianze, va fissata in tremila euro.
P.Q.M.
Annulla nei confronti di COGNOME NOME la sentenza impugnata, con rinvio per nuovo giudizio ad altra sezione della Corte di appello di Roma.
Dichiara inammissibile il ricorso di COGNOME NOME, che condanna al pagamento delle spese processuali e della somma di euro tremila in favore della Cassa delle ammende.
Così deciso in Roma, il 23 novembre 2023.