Concorso in Rapina: La Cassazione chiarisce la responsabilità dei complici
L’analisi di un recente provvedimento della Corte di Cassazione offre spunti fondamentali sulla disciplina del concorso in rapina. La questione centrale riguarda la distinzione tra un ruolo paritario e una partecipazione di minima importanza all’interno del piano criminoso, un tema cruciale per determinare l’entità della pena. La Corte, con una decisione netta, ha ribadito principi consolidati, sottolineando come la collaborazione consapevole alla realizzazione del reato renda tutti i partecipanti pienamente responsabili.
I fatti del caso: una tentata rapina e l’azione coordinata
Il caso trae origine da una condanna per tentata rapina emessa dalla Corte d’Appello. La vicenda vedeva protagonisti due giovani che, dopo essersi impossessati dello zaino di una persona, al fine di garantirsi la fuga e l’impunità, avevano minacciato la vittima con una bottiglia di vetro rotta. Uno dei due condannati ha presentato ricorso in Cassazione, contestando la propria responsabilità e il ruolo attribuitogli.
I motivi del ricorso e il concetto di concorso in rapina
Il ricorrente basava la sua difesa su due argomenti principali:
1. Violazione di legge: Sosteneva di aver avuto un ruolo marginale, non riconducibile a quello del correo, chiedendo l’applicazione della circostanza attenuante della partecipazione di minima importanza, prevista dall’articolo 114 del codice penale.
2. Vizi di motivazione: Contestava la ricostruzione dei fatti e la logicità della motivazione della sentenza d’appello riguardo alla configurabilità stessa del reato di tentata rapina.
In sostanza, la difesa mirava a sminuire il contributo dell’imputato, tentando di qualificarlo come secondario e non essenziale alla realizzazione del crimine.
La decisione della Corte di Cassazione
La Suprema Corte ha respinto completamente le argomentazioni della difesa, dichiarando il ricorso inammissibile. I giudici hanno chiarito che, nel concorso in rapina, non è possibile distinguere i ruoli in modo così netto quando l’azione è palesemente coordinata e funzionale a un obiettivo comune.
L’irrilevanza della detenzione materiale della refurtiva
Un punto chiave della decisione riguarda la detenzione del bene sottratto. La Corte ha specificato che è del tutto irrilevante chi dei due complici avesse materialmente con sé lo zaino rubato. L’elemento decisivo è l’aver agito insieme, “mossi da un comune intento criminoso e con le medesime modalità”. È impensabile, secondo i giudici, che per essere considerati concorrenti, i due dovessero necessariamente tenere insieme la refurtiva. L’azione congiunta e la minaccia successiva per assicurarsi l’impunità dimostrano una piena condivisione del piano criminoso.
I limiti del giudizio di legittimità
La Cassazione ha inoltre ribadito un principio fondamentale del processo penale: la Corte di legittimità non può effettuare una nuova valutazione dei fatti. Il suo compito non è quello di sovrapporre il proprio giudizio a quello dei tribunali di merito (primo e secondo grado), ma di verificare la correttezza giuridica e la logicità della motivazione della sentenza impugnata. In questo caso, la Corte d’Appello aveva esplicitato in modo logico e coerente le ragioni della condanna, senza incorrere in vizi sindacabili in sede di legittimità.
Le motivazioni
La motivazione della Cassazione si fonda sulla manifesta infondatezza e inammissibilità dei motivi di ricorso. I giudici hanno evidenziato come la sentenza d’appello fosse esente da illogicità. La ricostruzione dei fatti, basata sulla testimonianza costante della persona offesa, descriveva un’azione unitaria di due individui. Entrambi si erano impossessati dello zaino e, per mantenere il possesso, avevano minacciato la vittima. Questo schema fattuale integra pienamente l’ipotesi del concorso di persone nel reato, rendendo inapplicabile l’attenuante della partecipazione minima. Il secondo motivo di ricorso è stato ritenuto assorbito dal primo, poiché una corretta ricostruzione dei fatti porta inevitabilmente a qualificare il reato come tentata rapina in concorso.
Le conclusioni
La decisione in esame consolida un importante principio in materia di concorso in rapina: la responsabilità penale è piena per tutti coloro che partecipano attivamente e consapevolmente al piano criminoso. Non è possibile invocare un ruolo marginale quando le azioni sono coordinate e funzionali al raggiungimento dell’obiettivo comune. Per gli operatori del diritto e per i cittadini, questa ordinanza ribadisce che il contributo causale alla realizzazione di un reato, anche se non consiste nell’atto materiale di sottrazione del bene, comporta una piena corresponsabilità penale.
Quando si può parlare di concorso di persone in un reato come la rapina?
Si parla di concorso quando più persone agiscono insieme, mosse da un comune intento criminoso e con modalità condivise. La partecipazione consapevole all’azione complessiva è sufficiente a integrare il concorso.
Per essere considerati concorrenti in una rapina è necessario avere materialmente in mano la refurtiva?
No. La Corte di Cassazione ha stabilito che è irrilevante chi dei complici detenga materialmente i beni rubati. L’elemento determinante è la partecipazione congiunta all’azione criminosa.
La Corte di Cassazione può riesaminare i fatti di un processo?
No, la Corte di Cassazione non può riesaminare i fatti o sovrapporre la propria valutazione delle prove a quella dei giudici di merito. Il suo compito è verificare la corretta applicazione della legge e la logicità della motivazione della sentenza impugnata.
Testo del provvedimento
Ordinanza di Cassazione Penale Sez. 7 Num. 8206 Anno 2025
Penale Ord. Sez. 7 Num. 8206 Anno 2025
Presidente: COGNOME
Relatore: NOME COGNOME
Data Udienza: 04/02/2025
ORDINANZA
sul ricorso proposto da:
NOME nato il 24/09/1992
avverso la sentenza del 28/02/2024 della CORTE APPELLO di LECCE
dato avviso alle parti; udita la relazione svolta dal Consigliere NOME COGNOME
RITENUTO IN FATTO E CONSIDERATO IN DIRITTO
Letto il ricorso presentato nell’interesse di NOME COGNOME
considerato che la difesa dell’imputato deduce:
a) violazione di legge in relazione al mancato riconoscimento all’imputato della circostanza attenuante di cui all’art. 114, comma 1, cod. pen. non essendo il ruolo del COGNOME riconducibile a quello di “palo” in occasione della consumazione del reato di tentata rapina da parte di altro soggetto rimasto ignoto;
b) vizi di motivazione della sentenza impugnata in relazione alla configurabilità del reato di tentata rapina per il quale è intervenuta condanna;
rilevato che il primo motivo di ricorso, con il quale si contesta la mancata applicazione dell’art. 114 cod. pen., non è consentito in sede di legittimità ed è manifestamente infondato in presenza di una motivazione esente da evidenti illogicità, nella quale si evidenzia che: a) la persona offesa, nel ricostruire i fatti, costantemente riferita a due giovani stranieri che si erano impossessati del suo zaino e, nel tentativo di procurarsi l’impunità, la avevano minacciata di morte, brandendo al suo indirizzo una bottiglia di vetro rotta; b) dal racconto è risultato evidente che due giovani hanno agito insieme, mossi da un comune intento criminoso e con le medesime modalità; c) è irrilevante chi dei due avesse materialmente indosso lo zaino, giacché è impensabile che per essere considerati concorrenti nel reato dovessero necessariamente tenerlo insieme;
che la valutazione del secondo motivo di ricorso deve ritenersi assorbita da quanto appena evidenziato con riguardo alla ricostruzione dei fatti atteso che nessun travisamento dei fatti è ravvisabile nel caso in esame che possa portare ad una diversa ricostruzione storica dei fatti e rilevanza e attendibilità delle prove;
che non è consentito alla Corte di cassazione di sovrapporre la propria valutazione delle risultanze processuali a quella compiuta nei precedenti gradi di merito;
che, con motivazione esente da vizi logici e giuridici, la Corte di appello ha esplicitato le ragioni del proprio convincimento (si vedano, in particolare, pagg. 2 e 3 della sentenza impugnata) facendo applicazione di corretti argomenti giuridici ai fini della dichiarazione della responsabilità e della sussistenza del reato;
rilevato, pertanto, che il ricorso deve essere dichiarato inammissibile con condanna del ricorrente al pagamento delle spese processuali e della somma di euro tremila in favore della Cassa delle ammende.
P.Q.M.
Dichiara inammissibile il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese processuali e della somma di euro tremila in favore della Cassa delle ammende.
Così deciso il 4 febbraio 2025.