Sentenza di Cassazione Penale Sez. 2 Num. 1312 Anno 2024
Penale Sent. Sez. 2 Num. 1312 Anno 2024
Presidente: COGNOME NOME
Relatore: COGNOME
Data Udienza: 07/12/2023
SENTENZA
sul ricorso proposto nell’interesse di:
COGNOME NOMECOGNOME nato a Como il 15.5.1969, contro la sentenza della Corte di appello di Milano del 29.11.2022;
visti gli atti, il provvedimento impugnato ed il ricorso; udita la relazione svolta dal consigliere NOME COGNOME;
letta la requisitoria del Pubblico Ministero, in persona del Sostituto Procuratore Generale NOME COGNOME che ha concluso per l’inammissibilità del ricorso.
RITENUTO IN FATTO
Con sentenza del 24.11.2020 il Tribunale di Como aveva riconosciuto NOME COGNOME responsabile (in concorso con altri) del delitto di rapina
aggravata e lo aveva condannato alla pena di anni 6 di reclusione ed euro 1.600 di multa oltre al pagamento delle spese processuali, applicando inoltre le pene accessorie conseguenti alla entità di quella principale
la Corte di appello di Milano, correggendo l’errore di calcolo in cui era incorso il GIP, ha rideterminato la pena inflitta all’imputato che ha fissato in anni 5 e mesi 8 di reclusione ed euro 1.200 di multa confermando nel resto la sentenza impugnata;
ricorre per cassazione NOME COGNOME a mezzo del difensore che deduce:
3.1 contraddittorietà della motivazione in riferimento agli atti del processo ed alle prove acquisite nel corso del giudizio: segnala la illogicità della motivazione laddove la Corte ha richiamato la deposizione del teste COGNOME il quale avrebbe identificato l’imputato riconoscendone con certezza il timbro vocale; osserva che il teste non aveva alcun termine di paragone per effettuare il riconoscimento non avendo mai visto l’imputato che non gli era noto e che non ha mai partecipato al processo;
3.2 erronea applicazione della legge penale in relazione all’aggravante di cui all’art. 628, comma terzo, n. 1, cod. pen.: osserva che la contestazione dell’aggravante era scaturita dalle dichiarazioni di un teste che aveva riferito di aver visto uno dei rapinatori in possesso di una pistola senza, tuttavia, che fosse stata acquisita alcuna descrizione degli autori materiali della rapina e, in particolare, di colui che deteneva l’arma; evidenzia, inoltre, la inverosimiglianza della affermazione del teste ed osserva che l’esclusione dell’aggravante inciderebbe sull’aumento operato ai sensi dell’art. 63, comma quarto, cod. perì., che andrebbe eliso;
la Procura Generale ha trasmesso la requisitoria scritta ai sensi dell’art. 23, comma 8, del DL 137 del 2020 concludendo per la inammissibilità del ricorso: segnala che entrambi i motivi risultano estremamente generici facendo riferimento ad aspetti che implicano la rivalutazione di elementi fattuali non consentita in questa sede;
la difesa del COGNOME ha trasmesso, a sua volta, le proprie conclusioni insistendo per l’accoglimento del ricorso; sottolinea, ancora, l’erronea valutazione delle prove acquisite nel corso del dibattimento, tra cui l’esame del testimone COGNOME e la sua identificazione dell’imputato; insiste, inoltre, sul secondo motivo concernente l’aggravante di cui al comma terzo dell’art. 628 cod. pen. evidenziando che l’uso di un’arma non è stato adeguatamente provato, non
essendo stata fornita alcuna descrizione degli autori materiali del fatto, neppure di quello che l’avrebbe utilizzata.
CONSIDERATO IN DIRITTO
Il ricorso è inammissibile perché articolato su censure manifestamente infondate ovvero non consentite in questa sede.
NOME COGNOME era stato chiamato a rispondere, ed è stato riconosciuto responsabile, nei due gradi di merito ed all’esito di un conforme apprezzamento delle medesime emergenze istruttorie, del delitto di rapina aggravata perpetrata, in concorso con altri, il giorno 3.2.2014, ai danni della sala giochi Piper slot.
La difesa deduce, con i due motivi di ricorso, il vizio di violazione di legge con riguardo alle fattispecie incriminatrici ed alla aggravante e di cui i giudici di merito hanno ritenuto integrati, in punto di fatto, gli elementi costitutivi; i secondo luogo, vizio di motivazione in punto di responsabilità.
E, tuttavia, a ben guardare, sotto il profilo della violazione di legge sostanziale, il ricorso finisce per contestare il giudizio di responsabilità, ovvero il risultato probatorio cui sono approdati i giudici di primo e secondo grado che, con valutazione conforme delle medesime emergenze istruttorie, sono stati concordi nel ravvisare tali elementi nella ricostruzione della concreta vicenda processuale; il vizio di violazione di legge va dedotto contestando la riconducibilità del fatto come ricostruito dai giudici di merito – nella fattispecie astratta delineata dal legislatore; altra cosa, invece, contestare o mettere in dubbio che le emergenze istruttorie acquisite consentano di ricostruire la condotta di cui si discute in termini idonei a ricondurla al paradigma legale, operazione, questa, che è, invece, propria del giudizio di merito essendo certamente preclusa al giudice di legittimità la rilettura degli elementi di fatto posti a fondamento della decisione impugnata ovvero l’autonoma adozione di nuovi e diversi parametri di ricostruzione e valutazione dei fatti, anche qualora indicati dal ricorrente come maggiormente plausibili o dotati di una migliore capacità esplicativa rispetto a quelli adottati dal giudice del merito (cfr., Sez. 6 – , n. 5465 del 04/11/2020, F., Rv. 280601; Sez. 6, n. 47204 del 07/10/2015, COGNOME, Rv. 265482; Sez. 1, n. 42369 del 16/11/2006, COGNOME, Rv. 235507; cfr., ancora, Sez. 6, n. 22256 del 26/04/2006, Bosco, Rv. 234148).
Con riguardo, poi, al vizio di cui all’art. 606, comma 1, lett. e), cod. proc. pen., non è inutile ribadire che il sindacato di legittimità sulla motivazione del
provvedimento impugnato deve essere mirato a verificare che quest’ultima: a) sia “effettiva”, ovvero realmente idonea a rappresentare le ragioni che il giudicante ha posto a base della decisione adottata; b) non sia “manifestamente illogica”, perché sorretta, nei suoi punti essenziali, da argomentazioni non viziate da evidenti errori nell’applicazione delle regole della logica; c) non sia internamente “contraddittoria”, ovvero esente da insormontabili incongruenze tra le sue diverse parti o da inconciliabilità logiche tra le affermazioni in essa contenute; d) non risulti logicamente “incompatibile” con “altri atti del processo” (indicati in termini specifici ed esaustivi dal ricorrente nei motivi posti a sostegno del ricorso) in misura tale da risultarne vanificata o radicalmente inficiata sotto il profilo logico (cfr., tra altre, Sez. 1, n. 41738 del 19/10/2011, COGNOME, Rv. 251516; Sez. 6, n. 10951 del 15/03/2006, COGNOME, Rv. 233708; Sez. 2, n. 36119 del 04/07/2017, COGNOME, Rv. 270801).
Non sono perciò deducibili, in sede di legittimità, censure relative alla motivazione diverse da quelle che abbiano ad oggetto la sua mancanza, la sua manifesta illogicità, la sua contraddittorietà (intrinseca o con atto probatorio ignorato quando esistente, o affermato quando mancante), su aspetti essenziali per pervenire ad una diversa conclusione del processo; sono dunque inammissibili tutte le doglianze che “attaccano” la persuasività, l’inadeguatezza, la mancanza di rigore o di puntualità, la stessa illogicità quando non manifesta, così come quelle che sollecitano una differente comparazione dei significati probatori da attribuire alle diverse prove o evidenziano ragioni in fatto per giungere a conclusioni differenti sui punti dell’attendibilità, della credibilità, dello spessore della valenz probatoria del singolo elemento (cfr., in tal senso, Sez. 6, n. 13809 del 17/03/2015, 0., Rv. 262965; Sez. 2 – , n. 9106 del 12/02/2021, COGNOME, Rv. 280747).
Va ad ogni modo ribadito che, nel caso di specie, si è in presenza di una “doppia conforme” di merito, ovvero di decisioni che, nei due gradi, sono giunte a conclusioni analoghe sulla scorta di una conforme valutazione delle medesime emergenze istruttorie, cosicché vige il principio per cui la sentenza di appello, nella sua struttura argomentativa, si salda con quella di primo grado sia quando operi attraverso ripetuti richiami a quest’ultima sia quando, per l’appunto, adotti gli stessi criteri utilizzati nella valutazione delle prove, con la conseguenza che le due sentenze possono essere lette in maniera congiunta e complessiva ben potendo integrarsi reciprocamente dando luogo ad un unico complessivo corpo decisionale (cfr., Sez. 2 – , n. 37295 del 12/06/2019, E., Rv. 277218; Sez. 3, n. 13926 del 01/12/2011, NOME, 252615; Sez. 3, n. 44418 del 16/07/2013, COGNOME, Rv. 257595).
Tanto premesso in via generale e tornando al caso di specie, rileva il collegio che l’episodio era stato ricostruito sulla scorta della deposizione del teste NOME COGNOME addetto alla sicurezza del locale e nell’occasione immobilizzato dal gruppo di rapinatori introdottisi, con il volto coperto, all’interno della sala sl mentre il contributo testimoniale del COGNOME, operante di PG, era stato giudicato determinante per la identificazione dei protagonisti dell’atto predatorio avendo il predetto potuto riferire sulle attività di indagine che avevano riguardato sia i giorni precedenti, a partire dall’1.2.2014, con l’intercettazione dell’utenza del COGNOME e delle conversazioni intercorse tra costui e NOME NOME COGNOME che, poi, le conversazioni successive intercorse anche tra gli altri protagonisti e che avevano consentito di seguire la rapina “in diretta”.
2.2 Con l’atto di appello la difesa del COGNOME aveva dedotto la inadeguatezza degli elementi probatori acquisiti per sostenere la sua responsabilità in quanto partecipe alla rapina; in subordine aveva sottolineato la inverosimiglianza delle dichiarazioni rese dal teste NOME il quale aveva riferito della disponibilità, da parte di uno dei rapinatori, di una pistola pur avendo spiegato di essere stato immobilizzato in posizione supina.
Non è peraltro inutile evidenziare che, nell’occasione, la difesa si era limitata a contestare la valenza probatoria delle intercettazioni ma, a ben guardare, non aveva sollevato la questione – sottoposta all’attenzione della Corte soltanto con il ricorso – del riconoscimento vocale operato dal teste di COGNOME che ne aveva riferito nel corso del giudizio di primo grado.
2.3 Rileva in ogni caso il collegio che la Corte territoriale ha preso in esame le doglianze difensive cui ha replicato in termini che, complessivamente, non prestano il fianco a rilievi suscettibili di essere sollevati in questa sede d legittimità.
Ha infatti richiamato il contenuto delle conversazioni telefonate dei giorni precedenti e che, anche alla luce della intestazione dell’utenza utilizzata dal ricorrente e la localizzazione della cella servente il domicilio del medesimo, aveva consentito di identificarne l’utilizzatore nel COGNOME (“NOME“) “… in quanto il tes COGNOME riferisce di averlo identificato con certezza dal timbro vocale considerando che i soggetti italiani erano solo due, di cui l’altra una donna …” (cfr., pag. 14 dell sentenza di appello).
La ricostruzione della vicenda restituita dalla lettura delle due sentenze di merito aveva consentito di appurare che gli investigatori avevano avviato le indagini sin dal mese di febbraio con una attività di intercettazione che aveva portato a seguire la rapina “in diretta” (cfr., pag. 7 della sentenza in verifica) con
il COGNOME che “indicava la necessità di suonare il campanello per entrare” (pag. 14 della sentenza di primo grado) e di cui era perciò attestata la presenza sul posto.
Quanto alla disponibilità dell’arma da parte di uno dei rapinatori, la Corte ha quindi fatto riferimento alla deposizione dell’NOME di cui il ricorso, in termini certamente non deducibili in questa sede, si limita a dubitare della “verosimiglianza”.
Quanto all’aggravante dell’uso dell’arma ed alla sua “comunicazione” a tutti i protagonisti della rapina, è pacifico che, in tema di concorso di persone nel reato, il criterio generale di imputazione delle circostanze aggravanti previsto dall’art. 59, comma secondo, cod. pen. – per il quale è necessario che esse siano conosciute o ignorate per colpa o ritenute inesistenti per errore determinato da colpa – opera anche ai fini del riconoscimento delle circostanze di natura oggettiva, che si estendono ai concorrenti per i quali sia configurabile il coefficiente soggettivo previsto dalla citata disposizione, non essendo detto criterio modificato dalla previsione dell’art. 118 cod. pen., che si riferisce soltanto ad alcune circostanze soggettive GLYPH (cfr., GLYPH in GLYPH tal GLYPH senso, Sez. 2 – , n. 8324 del 04/02/2022, Keita, Rv. 282785 – 02 in cui la Corte ha giudicato sussistente il coefficiente psichico richiesto per il riconoscimento
3. In diritto, peraltro, è appena il caso di ribadire che, ai fin dell’identificazione degli interlocutori coinvolti in conversazioni intercettate, i giudice ben può utilizzare le dichiarazioni degli ufficiali e agenti di polizia giudiziaria che abbiano asserito di aver riconosciuto le voci di taluni imputati, così come qualsiasi altra circostanza o elemento che suffraghi detto riconoscimento, incombendo sulla parte che lo contesti l’onere di allegare oggettivi elementi sintomatici di segno contrario (cfr., Sez. 2, n. 12858 del 27/01/2017, COGNOME, Rv. 269900 – 01; Sez. 6, n. 13085 del 03/10/2013, COGNOME, Rv. 259478 – 01; cfr., anche, Sez. 6 – , n. 27911 del 23/09/2020, Mura, Rv. 279623 – 01; Sez. 5 – , n. 20610 del 09/03/2021, COGNOME, Rv. 281265 – 01, in cui la Corte ha spiegato che, in tema di intercettazioni telefoniche, qualora sia contestata l’identificazione delle persone colloquianti, il giudice non deve necessariamente disporre una perizia fonica, ma può trarre il proprio convincimento da altre circostanze – quali i contenuti delle conversazioni intercettate; il riconoscimento delle voci da parte del personale della polizia giudiziaria; le intestazioni formali delle schede telefoniche – elementi tutti che consentano di risalire con certezza all’identità degli interlocutori, mentre incombe sulla parte che contesti il riconoscimento l’onere di allegare oggettivi elementi sintomatici di segno contrario). Corte di Cassazione – copia non ufficiale
dell’aggravante dell’uso dell’arma in capo al concorrente non armato; conf., Sez. 5 – , n. 50947 del 13/09/2019, Circo, Rv. 278047 – 01).
L’inammissibilità del ricorso comporta la condanna del ricorrente al pagamento delle spese processuali e, ai sensi dell’art. 616 cod. proc. pen., della somma – che si stima equa – di euro 3.000 in favore della Cassa delle Ammende, non ravvisandosi ragione alcuna d’esonero.
P.Q.M.
dichiara inammissibile il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese processuali e della somma di euro tremila in favore della Cassa delle Ammende.
Così deciso in Roma, il 7.12.2023