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Concorso in peculato: la responsabilità dell’estraneo

La Corte di Cassazione, con la sentenza n. 30195/2025, ha rigettato il ricorso di un soggetto accusato di concorso in peculato e associazione mafiosa. Il caso riguardava l’appropriazione di fondi di un’azienda confiscata, gestita da un amministratore giudiziario. La Corte ha confermato che anche un privato cittadino (extraneus) può essere ritenuto responsabile per il reato di peculato se agisce in concorso con il pubblico ufficiale, sfruttando la relazione di quest’ultimo con il bene per appropriarsene. È stata altresì confermata la gravità indiziaria per il reato associativo, basata sul ruolo attivo del ricorrente nella gestione dell’impresa e nel sostegno ai familiari detenuti.

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Pubblicato il 1 ottobre 2025 in Diritto Penale, Giurisprudenza Penale, Procedura Penale

Concorso in Peculato: l’Estraneo può Rispondere del Reato del Pubblico Ufficiale?

La Corte di Cassazione, con la sentenza in esame, affronta un’importante questione sul concorso in peculato, chiarendo i limiti e le condizioni di responsabilità di un soggetto privato (extraneus) che partecipa all’appropriazione di beni gestiti da un pubblico ufficiale. Il caso riguarda la gestione di un’azienda confiscata alla criminalità organizzata, dove i familiari del precedente proprietario, con la connivenza dell’amministratore giudiziario, continuavano a trarre profitto attraverso vendite ‘in nero’.

I Fatti di Causa

Il ricorrente, figlio di un soggetto condannato per associazione mafiosa, era stato sottoposto a custodia cautelare in carcere per i reati di peculato e partecipazione ad associazione mafiosa. L’accusa si fondava sulla sua ingerenza nella gestione di un’azienda di famiglia, che era stata confiscata e affidata a un amministratore giudiziario.

Secondo la ricostruzione, l’amministratore giudiziario aveva di fatto abdicato ai suoi doveri, consentendo al ricorrente e ai suoi familiari di continuare a gestire l’impresa, appropriandosi del denaro derivante dalla vendita non registrata di pezzi di ricambio. Il ricorrente contestava l’accusa di peculato, sostenendo di non essere un pubblico ufficiale e che, al più, si sarebbe potuto configurare il reato di appropriazione indebita.

Analisi della Cassazione sul Concorso in Peculato

La Suprema Corte ha ritenuto infondato il motivo di ricorso, confermando la configurabilità del concorso in peculato a carico del privato cittadino. I giudici hanno chiarito che, sebbene il peculato sia un reato proprio che può essere commesso solo da un pubblico ufficiale (in questo caso, l’amministratore giudiziario), un extraneus può concorrere alla sua commissione ai sensi dell’art. 110 c.p.

La Condizione per la Responsabilità dell’Estraneo

L’elemento chiave per affermare la responsabilità del privato è che questi, per appropriarsi del bene, sfrutti la relazione qualificata che lega il pubblico ufficiale alla cosa. In altre parole, il privato deve approfittare del ‘possesso per ragioni di ufficio o servizio’ che il pubblico ufficiale ha sul bene. Nel caso di specie, il ricorrente si è impossessato del denaro della cassa aziendale proprio perché l’amministratore giudiziario, venendo meno ai suoi compiti, gliene ha consentito la disponibilità.

La condotta dell’amministratore non è stata meramente omissiva, ma attivamente commissiva, caratterizzata da un ‘totale asservimento’ agli interessi della famiglia, come dimostrato da intercettazioni e riprese video che lo ritraevano in atteggiamenti familiari e collaborativi.

La Conferma dell’Aggravante Mafiosa

La Corte ha inoltre rigettato le censure relative alla configurabilità dei reati di associazione mafiosa e dell’aggravante di agevolazione mafiosa. La gestione dell’impresa, anche dopo la confisca, era espressione del potere e del controllo del sodalizio sul territorio. I proventi dell’attività illecita venivano in parte destinati al mantenimento dei membri della famiglia detenuti, un elemento considerato sintomatico della persistente partecipazione al sodalizio mafioso.

Il Tribunale aveva correttamente valorizzato una serie di elementi, tra cui:

Il controllo costante dell’impresa da parte del ricorrente e dei suoi familiari, considerati la longa manus* del boss detenuto.
* L’atteggiamento autoritario e violento del ricorrente nei confronti di terzi.
* Il sistematico sostegno economico ai sodali detenuti, finanziato con i proventi illeciti dell’azienda.

Le Motivazioni

La Corte ha stabilito che la qualificazione giuridica del fatto come concorso in peculato è corretta. L’appropriazione del denaro ‘in nero’ da parte del ricorrente è stata possibile solo grazie alla condotta dell’amministratore giudiziario, che ha tradito i suoi doveri pubblici e ha messo la gestione dell’azienda a disposizione della famiglia. Il ricorrente, pur essendo un privato, era pienamente consapevole del ruolo pubblico dell’amministratore e della misura ablativa sull’impresa, e ha sfruttato questa situazione per commettere il reato. La condotta dell’amministratore è stata qualificata non come semplice omissione, ma come una piena collaborazione attiva, sintomo di una sua ‘sudditanza’ agli interessi del clan.

Per quanto riguarda l’accusa di associazione mafiosa, le motivazioni si fondano sulla continuità del potere della famiglia sull’impresa nonostante la confisca, interpretata come una manifestazione della forza del sodalizio. Il ruolo del ricorrente nella gestione e nel sostentamento dei detenuti è stato considerato prova della sua piena appartenenza al gruppo criminale.

Le Conclusioni

In conclusione, la sentenza ribadisce un principio fondamentale: la responsabilità penale per reati propri può estendersi anche a chi non possiede la qualifica soggettiva richiesta, a titolo di concorso. Nel caso del peculato, il privato che si appropria di un bene con la connivenza del pubblico ufficiale che lo detiene per ragioni d’ufficio, risponde dello stesso reato. La decisione sottolinea inoltre come la gestione di beni confiscati resti un punto nevralgico nella lotta alla criminalità organizzata, evidenziando i rischi di infiltrazione e la necessità di un controllo rigoroso sull’operato degli amministratori giudiziari.

Un privato cittadino può essere accusato di peculato, un reato che può essere commesso solo da un pubblico ufficiale?
Sì, un privato può essere accusato di concorso in peculato (art. 110 c.p.) se si appropria di un bene sfruttando la relazione di possesso che il pubblico ufficiale ha con quel bene per ragioni del suo ufficio. La sua condotta deve essere legata a quella del pubblico ufficiale connivente.

Perché la gestione di fondi ‘in nero’ di un’azienda confiscata è stata considerata peculato e non appropriazione indebita?
Perché l’azienda era sotto la gestione di un amministratore giudiziario, qualificato come pubblico ufficiale. Di conseguenza, tutti i beni aziendali, inclusi i proventi non registrati, erano nella sua disponibilità per ragioni d’ufficio. L’appropriazione di tali fondi da parte di terzi, con la complicità dell’amministratore, integra il delitto di peculato e non quello comune di appropriazione indebita.

In che modo è stata provata la complicità dell’amministratore giudiziario?
La sua complicità non è stata considerata meramente passiva (omissiva), ma attiva (commissiva). Le prove hanno dimostrato un suo totale asservimento agli interessi della famiglia del ricorrente, una piena collaborazione nella gestione illecita, atteggiamenti familiari e un’abdicazione consapevole ai suoi doveri di custodia e amministrazione dei beni confiscati.

La selezione delle sentenze e la raccolta delle massime di giurisprudenza è a cura di Carmine Paul Alexander TEDESCO, Avvocato a Milano, Pesaro e Benevento.

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