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Concorso in peculato: la consapevolezza del dipendente

La Cassazione conferma la misura cautelare per un dipendente accusato di concorso in peculato. Si ritiene provata la sua piena consapevolezza del sistema illecito, gestito da una famiglia mafiosa con la complicità dell’amministratore giudiziario, per sottrarre fondi da un’azienda confiscata.

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Pubblicato il 30 settembre 2025 in Diritto Penale, Giurisprudenza Penale, Procedura Penale

Concorso in Peculato: Quando la Consapevolezza del Dipendente è Decisiva

La recente sentenza della Corte di Cassazione, n. 31916/2025, offre un’importante analisi sul tema del concorso in peculato, con particolare riferimento al ruolo di un dipendente all’interno di un’azienda confiscata e gestita da un amministratore giudiziario. Il caso esplora fino a che punto la consapevolezza del lavoratore riguardo a un sistema illecito possa configurare una sua partecipazione al reato commesso dal pubblico ufficiale.

I Fatti di Causa: Un’Azienda Confiscata e una Gestione Parallela

La vicenda riguarda un’azienda, definitivamente confiscata a una nota famiglia mafiosa, e posta sotto amministrazione giudiziaria. Nonostante la misura di prevenzione, la gestione di fatto dell’impresa era rimasta nelle mani della famiglia originaria, che continuava a incassarne i profitti. Questo avveniva attraverso un “sistema” consolidato che prevedeva vendite in nero o sottofatturate, creando così fondi occulti che confluivano in una cassa parallela a quella ufficiale.

L’amministratore giudiziario, figura chiave della vicenda, anziché vigilare e garantire la legalità, aveva scientemente abdicato alle sue funzioni, consentendo di fatto la prosecuzione dell’attività illecita. In questo contesto, un dipendente dell’azienda veniva indagato e sottoposto a misura cautelare per aver partecipato a tale sistema, contribuendo alle attività di appropriazione.

Il Ricorso in Cassazione: I Motivi del Dipendente

Il dipendente, tramite il suo difensore, ha presentato ricorso in Cassazione basandosi su tre motivi principali:
1. Mancata consapevolezza del dolo dell’amministratore: Si sosteneva che il dipendente non fosse consapevole della dolosa partecipazione dell’amministratore giudiziario (l’intraneus del reato di peculato), e quindi non potesse essere considerato concorrente nel reato.
2. Insussistenza dell’aggravante mafiosa: L’indagato affermava di non aver agito per agevolare la cosca, poiché ignaro della natura mafiosa dell’azienda.
3. Carenza del pericolo di recidiva: Si contestava la motivazione della misura cautelare, ritenuta basata su una mera presunzione e non su un concreto rischio di reiterazione del reato, dato che il soggetto era estraneo a contesti malavitosi.

L’Analisi della Corte sul concorso in peculato

La Corte di Cassazione ha rigettato il ricorso, confermando la solidità del quadro indiziario delineato dai giudici di merito. L’analisi si è concentrata sulla scientia, ovvero la consapevolezza, del dipendente riguardo all’intero sistema fraudolento.

Le motivazioni

I giudici hanno ritenuto che la doglianza del ricorrente fosse smentita dalla ricostruzione dei fatti. Era emerso chiaramente che la consapevolezza del dipendente non era un’ipotesi, ma un dato fondato su elementi concreti. L’amministratore giudiziario non aveva adottato alcun accorgimento per nascondere la propria inerzia o la sua contiguità con la famiglia mafiosa. La gestione parallela era un fatto noto all’interno dell’azienda.

La Corte ha valorizzato una circostanza significativa: il dipendente, per chiedere un permesso lavorativo, si era rivolto direttamente alla famiglia mafiosa anziché all’amministratore giudiziario. Questo comportamento dimostrava chi esercitasse il reale potere gestionale e la piena consapevolezza del dipendente riguardo a tale anomalia.

In merito all’aggravante mafiosa, la Corte ha osservato che il dipendente, essendo da sempre vicino alla famiglia proprietaria e conoscendone il “pedigree criminale”, non poteva ignorare che il sistema di appropriazione fosse finalizzato a finanziare la cosca. La natura mafiosa dell’impresa era, del resto, sancita dalla confisca definitiva.

Infine, sul pericolo di recidiva, la Cassazione ha confermato che questo non va inteso come imminenza di nuovi reati, ma come una prognosi basata su elementi concreti. Nel caso specifico, la reiterazione delle condotte, il ruolo di “gregario” assunto dal dipendente e la sua supina accondiscendenza alle direttive criminali costituivano una prova sufficiente della sua incapacità di allontanarsi da contesti illeciti, giustificando così la misura cautelare degli arresti domiciliari come deterrente adeguato.

Le conclusioni

La sentenza ribadisce un principio fondamentale in materia di concorso in peculato: per la configurabilità della partecipazione dell’extraneus (il privato cittadino, in questo caso il dipendente), non è necessaria una conoscenza minuziosa di tutti i dettagli dell’accordo criminoso, ma è sufficiente la consapevolezza della condotta illecita dell’intraneus (il pubblico ufficiale) e il fornire un contributo causale alla sua realizzazione. La decisione sottolinea come, in contesti di criminalità organizzata e di gestione di beni confiscati, l’atteggiamento di chi opera all’interno dell’azienda non possa essere valutato con superficialità. La consapevolezza di un sistema palesemente illegale e la partecipazione ad esso, anche in un ruolo subordinato, integrano pienamente gli estremi del concorso nel reato.

Per essere accusati di concorso in peculato, è necessario che il dipendente conosca ogni dettaglio del piano dell’amministratore giudiziario?
No. Secondo la sentenza, non è richiesta una conoscenza di ogni dettaglio, ma è sufficiente la consapevolezza della condotta di appropriazione dell’amministratore (in questo caso, la sua volontaria inerzia) e la partecipazione con una condotta che contribuisce al reato.

Come ha fatto la Corte a stabilire che il dipendente era consapevole del sistema illecito?
La Corte ha basato la sua decisione su diversi elementi concreti: il fatto che l’azienda fosse notoriamente confiscata a una famiglia mafiosa, che il dipendente si rivolgesse alla famiglia stessa (e non all’amministratore) per questioni lavorative, e che il sistema di gestione parallela non fosse un segreto all’interno dell’azienda.

La misura degli arresti domiciliari è stata considerata adeguata per il pericolo di recidiva?
Sì. La Corte ha ritenuto che, nonostante l’assenza di un legame diretto del dipendente con ambienti malavitosi, la sua prolungata e supina partecipazione al sistema criminale e la sua incapacità di allontanarsene dimostrassero un concreto pericolo di reiterazione di condotte analoghe. Gli arresti domiciliari sono stati visti come un deterrente idoneo.

La selezione delle sentenze e la raccolta delle massime di giurisprudenza è a cura di Carmine Paul Alexander TEDESCO, Avvocato a Milano, Pesaro e Benevento.

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