Sentenza di Cassazione Penale Sez. 6 Num. 31607 Anno 2024
Penale Sent. Sez. 6 Num. 31607 Anno 2024
Presidente: COGNOME NOME
Relatore: COGNOME NOME
Data Udienza: 11/06/2024
SENTENZA
sul ricorso proposto da
NOME, n. Melfi INDIRIZZOPz) DATA_NASCITA avverso la sentenza n. 364/23 della Corte di appello di Potenza del 15/09/2023
letti gli atti, il ricorso e la sentenza impugnata;
udita la relazione del consigliere NOME COGNOME;
letta la requisitoria scritta del pubblico ministero in persona del AVV_NOTAIO, che ha concluso per l’inammissibilità del ricorso;
lette le conclusioni scritte delle parti civili costituite RAGIONE_SOCIALE e RAGIONE_SOCIALE, che chiedono di dichiarare inammissibile o di rigettare il ricorso, con condanna del ricorrente alla rifusione delle spese di rappresentanza e difesa nel grado di giudizio
RITENUTO IN FATTO
Con la sentenza impugnata la Corte di appello di Potenza ha ribadito la condanna, pronunciata in primo grado, di NOME COGNOME in ordine al reato di concorso, in qualità di estraneo, al peculato continuato (artt. 81, 110, 117, 314 cod. pen.) ascritto a NOME (separatamente giudicato), a sua volta responsabile di condotte appropriative di consistenti somme di denaro, attuate in qualità di incaricato di pubblico servizio in quanto preposto al servizio di tesoreria gestito dalla RAGIONE_SOCIALE di RAGIONE_SOCIALE per conto di alcuni comuni della provincia di Potenza.
Avverso la sentenza ha proposto ricorso per cassazione l’imputato, che deduce due motivi di doglianza, ciascuno riguardante più punti della pronuncia impugnata.
2.1. Violazione dell’art. 597, comma 1, cod. proc. pen.
Il ricorrente – che non ha mai contestato di avere ricevuto consistenti somme di denaro dal NOME e di averle, tuttavia, dilapidate – lamenta la mancanza assoluta di motivazione circa l’inquadramento giuridico della condotta in addebito, sostenendo che la sentenza né descrive quella di concorso nel peculato né ha risposto alla tesi difensiva di volerla ricondurre all’ipotesi di reato d ricettazione (art. 648 cod. pen.).
Inoltre la sentenza non spiega perché egli debba rispondere del reato ai sensi dell’art. 117 cod. pen., dal momento che, pur essendo consapevole che il complice fosse dipendente di una banca, non era, tuttavia, a conoscenza che ivi svolgesse una funzione che gli attribuiva la qualifica di incaricato di pubblico servizio.
Inoltre la sentenza non si è pronunciata
sulla invocata applicabilità dell’art. 116 cod. pen.;
sulla richiesta di applicazione della pena accessoria di cui all’art. 32 cod. pen. in misura pari alla condanna patita;
sulla invocata esclusione della pena accessoria di cui all’art. 32-quater cod. pen., perché il reato commesso non in danno di un’attività imprenditoriale ma di alcune pubbliche amministrazioni;
sulla mancata applicazione dell’interdizione temporanea anziché perpetua ai sensi dell’art. 317-bis cod. pen.
Il ricorrente è stato anche condannato alla restituzione in favore dei Comuni interessati delle somme ricevute, senza alcun risarcimento per i danni morali, ma detti Comuni non hanno subito danni materiali, considerato che la compagnia assicurativa dell’istituto di credito per la responsabilità civile ha risarcito lor danno patito.
2.2. Erronea applicazione dell’art. 117 cod. pen. anche sotto il profilo che, sebbene il ricorrente fosse ben consapevole dell’azione illecita del NOME, non era a conoscenza della sua qualifica; inoltre la sua condotta di vita non dimostra la consapevolezza del concorso in peculato ma solo di quello in un reato meno grave (truffa, furto o altro)
CONSIDERATO IN DIRITTO
Il ricorso è parzialmente fondato con riferimento ad alcuni aspetti del trattamento sanzionatorio, mentre deve essere rigettato nel resto.
Tra le doglianze formulate dal ricorrente vi sono quelle secondo cui la pena accessoria di cui all’art. 32 cod. pen. avrebbe dovuto essere irrogata in misura pari alla condanna patita, mentre quella di cui all’art. 32-quater cod. pen. avrebbe dovuto essere revocata in quanto il reato commesso non in danno di un’attività imprenditoriale ma di alcune pubbliche amministrazioni.
Sia pure in maniera impropria, dunque, esse pongono la questione della corretta applicazione delle suddette pene.
Con riferimento alla pena accessoria dell’interdizione legale di cui all’art. 32 cod. pen. e diversamente dalla prospettazione difensiva, in realtà le sentenze di merito l’hanno applicata in misura pari all’entità della pena principale di quattro anni e otto mesi di reclusione.
Il problema consiste semmai nel fatto che al di sotto del limite di pena di cinque anni di reclusione detta pena non può trovare applicazione.
Il testo dell’art. 32, terzo comma, cod. pen. non dà adito ad equivoci, stabilendo che “il condannato alla reclusione per un tempo non inferiore a cinque anni, è, durante la pena, in stato d’interdizione legale” dove per tempo non inferiore a cinque anni deve intendersi pari o superiore a detto limite.
Ne consegue che la pena accessoria in questione applicata all’imputato in relazione alla condanna alla pena principale di quattro anni e otto mesi di
reclusione, va eliminata, previo annullamento senza rinvio della sentenza sul punto.
Quanto alla pena accessoria di cui all’art. 32-quater cod. pen., erra il ricorrente quando postula l’impossibilità di applicarla poiché il reato sarebbe stato commesso in danno di una Pubblica Amministrazione ma non di un’attività imprenditoriale.
Omette, infatti, il ricorrente di considerare che detta pena trova applicazione anche quando uno dei reati ivi indicati (tra cui quello di cui all’art. 314 cod. pen. per cui è stato condannato) è stato commesso a vantaggio di un’attività imprenditoriale e che la sentenza di primo grado, confermata sul punto da quella impugnata, ha espressamente affermato che il peculato è stato commesso a vantaggio di un’impresa (pag. 23 sent. G.i.p. Trib. Pz del 04/02/2022), segnatamente una delle società del RAGIONE_SOCIALE, la RAGIONE_SOCIALE (pag. 14 sent. cit.).
L’aspetto non considerato dal ricorso riguarda, piuttosto, il fatto che il giudice di primo grado ha applicato la pena accessoria nella misura di sei anni di reclusione, che deve ritenersi, però, illegale, dal momento che l’art. 37 cod. pen. stabilisce che in caso di mancata previsione della durata (come nel caso di specie) la pena accessoria si applica in misura pari alla durata della pena principale e quindi nel caso in esame di quattro anni e otto mesi di reclusione.
Anche sul punto la sentenza impugnata deve essere annullata senza rinvio e la misura della pena accessoria rettificata ai sensi dell’art. 620, lett. I), cod. proc. pen.
Debbono, invece, ritenersi infondati e conseguentemente essere rigettati tutti i restanti motivi di ricorso.
3.1. Qualificazione giuridica del fatto in addebito.
Il ricorrente propugna la tesi della configurabilità del delitto di ricettazione i relazione al segmento di condotta ascrittagli (ricezione di consistenti importi di denaro da parte del coimputato NOME), di cui non contesta la materialità, limitandosi a sostenere di averne dilapidato i proventi e lamentando omessa motivazione sul punto.
In merito vale preliminarmente osservare che dalla motivazione dalla sentenza di primo grado si evince che il ricorrente ha aperto appositamente almeno un conto corrente bancario intestato alla sua società RAGIONE_SOCIALE al fine di ricevere i bonifici emessi in suo favore dal suocero (in realtà genitore della convivente) NOME NOME che formalmente provenivano dai vari Comuni in
danno dei quali le somme venivano sottratte (pag. 14 sent. G.i.p. di Potenza del 04/02/2022).
Viene, dunque, meno la giustificazione da lui addotta di non essere consapevole del fatto che il correo operasse come incaricato di pubblico servizio e cioè di responsabile del servizio esterno di tesoreria della RAGIONE_SOCIALE di appartenenza per conto dei Comuni mandanti.
La sentenza di primo grado riporta, altresì, le ammissioni rese dall’imputato in sede di interrogatorio di garanza (pag. 10), allorquando, incalzato dal giudice della cautela, dichiarava: COGNOME: Mi diceva che erano i suoi (riferito al NOME); COGNOME: Erano i suoi, ma non erano i suoi, perché i mandati di pagamento erano dei Comuni; COGNOME: Eh Io so; COGNOME: Ma lei aveva a che lavorare con questi Comuni, no? COGNOME: No, no.
La ricordata circostanza dell’apertura di un conto corrente bancario ad hoc per la ricezione delle somme di illecita appropriazione integra, del resto, un concorso non solo morale bensì anche materiale rispetto alla condotta tipica di peculato.
Infine e sempre nella sentenza di primo grado (pag. 15) viene riportato il brano di una conversazione intercettata con la compagna (figlia del NOME) in cui il ricorrente ammetteva “di essere stato un deficiente ad accettare quelle somme”, a riprova, dunque, della piena consapevolezza della loro provenienza ma dell’irrilevanza della loro destinazione.
È vero che, investita della questione, la Corte di appello ha preferito affidarsi ad argomenti di carattere più AVV_NOTAIO sulla qualifica di incaricato di pubblico servizio rivestita dal concorrente qualificato (NOME – punto non costituente oggetto di contestazione da parte dell’odierno ricorrente – non prendendo posizione in maniera espressa sulla figura di reato di ricettazione.
Tuttavia a pag. 4 della decisione si legge che “Riguardo poi alla consapevolezza della posizione giuridica qualificata rivestita dal proprio suocero in seno all’ente di appartenenza ai fini della corretta qualificazione giuridica del fatto di reato loro contestato, è indubbio che la circostanza rientrasse nel patrimonio conoscitivo della Rotonda (sic) proprio in ragione degli stretti rapporti di affinità tra loro intercorrenti”, sicché integrandosi tra loro le motivazioni, deve escludersi che il tema della qualificazione giuridica della condotta non abbia trovato considerazione ed esame nella sentenza impugnata.
La giurisprudenza di questa Corte di legittimità, del resto, da tempo ha elaborato il principio secondo cui in tema di integrazione delle motivazioni tra le sentenze conformi di primo e di secondo grado, il giudice dell’appello può motivare per relazione se l’impugnazione si limita a riproporre questioni di fatto o di diritto già esaminate e correttamente risolte dal primo giudice, oppure prospetta critiche generiche, superflue o palesemente infondate, mentre, qualora
siano formulate censure specifiche o introduttive di rilievi non sviluppati nel giudizio anteriore, è affetta da vizio di motivazione la sentenza di appello che si limiti a respingere le deduzioni proposte con formule di stile o in base ad assunti meramente assertivi o distonici rispetto alle risultanze istruttorie (tra molte v. Sez. 6, n. 5224 del 02/10/2019, dep. 2020, Acampa, Rv. 278611).
Il ricorrente insiste, infine, sulla mancanza assoluta di motivazione anche in relazione al tema dell’applicabilità degli artt. 116 e 117 cod. pen. ed all’asserita mancata esplicazione della condotta concorrente nel delitto di peculato, ma su tali aspetti è dato compiutamente rinviare alle superiori considerazioni per ritenere infondata la censura.
3.2. Il ricorrente lamenta anche l’applicazione della pena accessoria della interdizione perpetua di cui all’art. 317-bis cod. pen. in luogo di quella temporanea in caso di diminuzione della misura della pena principale.
Va subito rilevato che la richiesta di revoca della suddetta pena si lega inscindibilmente alla prospettazione difensiva, per quanto anzidetto disattesa, di voler ravvisare nella condotta il delitto di ricettazione.
La richiesta subordinata di sostituzione con la pena accessoria temporanea è, invece, collegata alla richiesta di rideterminazione del trattamento sanzionatorio principale ai sensi dell’art. 323-bis cod. pen., che, però, la Corte di merito ha respinto sulla base di una motivazione né illogica né manifestamente contraddittoria, fondata oltre tutto su una considerazione di gravità del fatto che poggia sulla circostanza che l’imputato ha tratto dalla condotta illecita proventi del delitto pari a circa 800.000,00 euro (v. pag. 6 sent. imp.).
Restano, pertanto, sullo sfondo, anche perché non espressamente invocati dal ricorrente, i profili di sospetta incostituzionalità dell’art. 317-bis cod. pen., peraltro già prospettati da questa stessa Sezione Sesta con ord. n. 37796 del 08/04/2020, Romano, Rv. 28096 ed evocati dal AVV_NOTAIO Generale nella sua requisitoria scritta, al solo fine, peraltro, di affermarne la non condivisibilità.
Hanno depositato conclusioni scritte e chiesto la rifusione delle spese sostenute nel grado le parti civili RAGIONE_SOCIALE di RAGIONE_SOCIALE e la RAGIONE_SOCIALE di RAGIONE_SOCIALE RAGIONE_SOCIALEo RAGIONE_SOCIALE RAGIONE_SOCIALE (BCCAL)
Con riferimento a quest’ultima, va rilevato che già il COGNOME di primo grado aveva disposto la compensazione delle spese nei confronti della parte civile RAGIONE_SOCIALE, a sua volta confluita, per fusione con altro istituto di credito, nella BCCAL.
Il G.i.p. di Potenza motivava la compensazione “atteso che í fatti per cui si procede sono stati posti in essere per iniziativa di un dipendente dell’istituto, e si
sono protratti nel tempo anche per colpa del mancato controllo da parte dell’istituto”, sulla base di un argomento che appare congruo in relazione al concreto dispiegarsi della fattispecie (appropriazione degli ingenti fondi emersi solo in seguito a migrazione dei dati degli archivi di tesoreria da un sistema informatico ad un altro) e che il Collegio reputa di dover condividere, compensando anche in questo grado le spese.
P. Q. M.
Annulla senza rinvio la sentenza impugnata limitatamente alle pene accessorie dell’interdizione legale, che elimina e dell’incapacità di contrattare con la pubblica amministrazione, che riduce ad anni quattro e mesi otto; rigetta nel resto il ricorso. Condanna, inoltre, l’imputato alla rifusione delle spese di rappresentanza e difesa sostenute nel presente giudizio dalla parte civile, RAGIONE_SOCIALE di RAGIONE_SOCIALE, in persona del Sindaco pro tempore, che liquida in complessivi euro 4.000,00 oltre accessori di legge e compensa le spese nei confronti della RAGIONE_SOCIALE di RAGIONE_SOCIALE RAGIONE_SOCIALEa RAGIONE_SOCIALE–RAGIONE_SOCIALE.
Così deciso, 1’11 giugno 2024
Il consigliere es ensore
Il Preidente