Sentenza di Cassazione Penale Sez. 5 Num. 19403 Anno 2025
Penale Sent. Sez. 5 Num. 19403 Anno 2025
Presidente: COGNOME NOME
Relatore: COGNOME NOME
Data Udienza: 04/04/2025
SENTENZA
sui ricorsi proposti da: NOME nata a PRATO il 03/09/1981 NOME nata ad ASSISI il 17/09/1999
avverso la sentenza del 18/06/2024 della CORTE APPELLO di PERUGIA
lette le conclusioni del PG NOME COGNOME la quale ha chiesto dichiararsi i ricorsi udita la relazione svolta dal Consigliere NOME COGNOME; inammissibili.
Ritenuto in fatto
In parziale riforma della sentenza di primo grado, con cui NOME COGNOME NOME COGNOME e NOME COGNOME sono state ritenute responsabili per il concorso nel reato di furto, aggravato ai sensi dell’art. 625, primo comma, nn. 4 e 5, cod. pen., oltre che dell’art. 61, primo comma, n. 5, cod. pen., la Corte d’appello di Perugia, con sentenza indicata in epigrafe, previo riconoscimento delle circostanze attenuanti generiche in regime d’equivalenza a favore della sola NOME COGNOME ha rideterminato il trattamento sanzionatorio nei confronti di quest’ultima, confermando, per il resto, il giudizio di responsabilità reso dal Tribunale di Perugia.
Secondo i giudici del merito, le tre imputate, agendo in concorso tra loro, dopo essersi introdotte all’interno dell’abitazione di NOME COGNOME, di anni 84, adducendo la richiesta di poter utilizzare il bagno, dato lo stato interessante della COGNOME, si impossessavano di denaro e monili, sottraendoli alla persona offesa. In particolare, mentre la COGNOME intratteneva la persona offesa, le altre due coimputate, approfittando della distrazione della COGNOME, si allontanavano nelle altre stanze, rovistando e trafugando i detti beni.
Avverso la sentenza, hanno proposto ricorso per cassazione NOME COGNOME e NOME COGNOME con atto unico a firma dell’Avv. NOME COGNOME affidando le proprie censure ai motivi di seguito enunciati nei limiti richiesti dall’art. 173 disp. att. cod. proc. pen.
2.1. Con il primo motivo, si eccepisce violazione di legge e vizio di motivazione in relazione agli artt. 516, 521 e 522 cod. proc. pen., per avere la Corte d’appello posto a base del giudizio di condanna un fatto storico diverso da quello descritto in imputazione, con conseguente violazione del diritto di difesa delle imputate. In rubrica, il fatto è descritto come furto pluriaggravato, avvenuto quando già le tre imputate si trovavano all’interno dell’appartamento.
In parte motiva, invece, è ritenuta la diversa fattispecie di cui all’art. 624 bis cod. pen., corredata dall’espediente/inganno al fine di poter accedere nell’appartamento della persona offesa. Tale diversa fattispecie implica – osserva la difesa – un collegamento finalistico -non già un mero nesso occasionale- tra l’ingresso nell’abitazione e l’impossessamento della cosa mobile, che manca nel fatto così come descritto in imputazione e ritenuto nella sentenza di primo grado.
Ne è conseguita 1) l’indebita introduzione di elementi probatori esclusi, ab origine, dal capo d’imputazione e l’illegittimo ampliamento della causa petendi 2) l’inesatto riferimento alla decisione impugnata nei termini di sentenza di conferma di quella di primo grado. 4d1IMINaimii.
2.2 Col secondo motivo, si deduce violazione di legge, nonché vizio di motivazione in relazione al ritenuto concorso, attesa l’assenza della prova del pactum sceleris che avrebbe connotato l’agire delle imputate. Inidonei a provare il concorso sono gli elementi sintomatici a tal fine valorizzati dalla Corte d’appello e, segnatamente, 1) il fatto che le tre donne viaggiassero insieme a bordo dell’auto 2) l’asserito isolamento dell’abitazione 3) l’asserita decisione delle tre imputate di scendere dall’auto 4) il consolidato schema d’azione, ravvisato dalla Corte d’appello. In relazione alla ricorrente COGNOME si osserva che alcuna sua condotta atta a distrarre la vittima è obiettivamente evincibile dagli atti di causa. In relazione alla ricorrente COGNOME indicata come concorrente sol perché si recava in bagno (ciò che mai è stato negato dalla p.o.), la Corte ha mancato di considerare che la stessa non avrebbe avuto il tempo materiale di operare l’ascritto furto. Pertanto, la Corte avrebbe dovuto inquadrare la condotta delle ricorrenti, a tutto voler concedere, a titolo di connivenza non punibile.
2.3 Col terzo motivo, si deduce violazione di legge e vizio di motivazione, anche sub specie di travisamento di prova, in riferimento alla ritenuta circostanza aggravante della destrezza. A tal proposito, la Corte distrettuale avrebbe fornito ragioni del tutto contraddittorie, posto che, dalla motivazione, si evincerebbe che le condizioni per la commissione del furto siano state create non già dalle imputate, ma dalla vittima stessa. Né dagli atti istruttori risulta che la persona offesa sia stata distratta o impedita nel sorvegliare le ricorrenti. Per affermare la sussistenza della circostanza in parola, la Corte d’appello avrebbe adoperato argomenti a sostegno delle altre circostanze aggravanti contestate.
2.4 Col quarto motivo, si contesta la circostanza aggravante della minorata difesa, presuntivamente ritenuta dalla Corte, sulla sola base dell’età anagrafica della vittima, senza ulteriori argomentazioni di sorta.
2.5 Col quinto motivo, si deduce violazione di legge e vizio di motivazione in relazione agli art. 99, quarto comma, cod. pen. per avere la Corte ritenuto la recidiva reiterata e specifica a carico della COGNOME senza considerare che dal casellario giudiziale emerge, quale ultimo precedente a carico della stessa, il reato giudicato con sentenza del 14 dic 2012, irr. il 23 nov 2013. Inoltre, la motivazione è meramente di stile, dato che la Corte si è limitata a riferirsi a precedenti condanne. Altresì illegittimo e immotivato è il riferimento ad attuali pendenze di procedimenti penali.
2.6 Col sesto motivo, si contesta la mancata concessione delle circostanze attenuanti generiche alla COGNOME, avendo la Corte affermato il diniego sulla base del solo riferimento a fatti risalenti nel tempo (2012). Si contesta altresì, con riferimento alla COGNOME, la valutazione imperniata sull’equivalenza tra le circostanze di segno opposto, operata sulla base di un puro raffronto numerico tra le stesse, con violazione dei principi individuati sul punto dalla giurisprudenza di questa Corte.
Sono pervenute le conclusioni del Sostituto Procuratore generale, NOME COGNOME la quale ha chiesto dichiararsi i ricorsi inammissibili.
Considerato in diritto
1. Il primo motivo è inammissibile, in quanto generico e astratto.
In alcun punto della censura in esame è dato scorgere, infatti, un aspetto di decisività idoneo a disarticolare almeno uno degli essenziali nuclei di fatto che sorreggono l’impianto logico della decisione impugnata (cfr. Sez. 1, n. 46566 del 21/02/2017, M., Rv. 271227 – 01); quest’ultima, nel confermare l’affermazione di responsabilità delle ricorrenti per il concorso in furto pluriaggravato – non già furto in abitazione, come asserito dalla difesa -appare del tutto coerente sia con il capo d’imputazione sia con la sentenza di primo grado, come si procedere a chiarire.
Va premesso che, secondo la consolidata giurisprudenza di legittimità, il principio di correlazione tra imputazione e sentenza risulta violato quando nei fatti, rispettivamente descritti e ritenuti, non sia possibile individuare un nucleo comune, con la conseguenza che essi si pongono, tra loro, in rapporto di eterogeneità ed incompatibilità, rendendo impossibile per l’imputato difendersi (ex multis, Sez. 3, n. 7146 del 04/02/2021, Ogbeifun, Rv. 281477 – 01).
Ora, in parte motiva, la descrizione del nucleo essenziale della condotta ricalca esattamente quello descritto in rubrica e nella sentenza di primo grado: si legge infatti nella gravata sentenza che 1) le imputate “erano state accolte” nell’abitazione della persona offesa; 2) gli agenti – che avevano osservato le tre donne indugiare in auto, v. infra, prima di scegliere dove dirigersi – le vedevano “entrare” nell’abitazione della stessa; 3) l’anziana vittima riferiva agli agenti della “visita” appena ricevuta” (p. 5 dell’impugnata sentenza); 4) “il furto fu commesso dalle donne entrate in casa dell’anziana con la più banale delle scuse” (p. 7 della parte motiva). Peraltro, diversamente da quanto lamentato dalla difesa, anche la sentenza di primo grado valorizzava le condotte antecedenti all’ingresso delle imputate nella casa della vittima, avendo il giudice del Tribunale di Perugia a sua volta evidenziato come gli agenti, nel corso di un ordinario controllo della zona,
osservavano l’auto, con a bordo le tre donne, percorrere più volte la strada principale per poi immettersi nella via secondaria in cui risiedeva l’anziana vittima ed entrare, infine, nell’abitazione di quest’ultima.
Del tutto infondata, pertanto, è la prospettazione difensiva volta a individuare, nella ricostruzione fatta propria dai giudici dell’appello, la dedotta immutazione di fattispecie incriminatrice. Se poi il riferimento della difesa è all’inciso (di cui a p. 9 della sentenza impugnata) in cui si legge che la “coordinata condotta era finalizzata al furto in abitazione”, non può che osservarsi che, con tale locuzione, la Corte distrettuale nient’altro descrive se non il luogo (l’abitazione della persona offesa) in cui il contestato e ritenuto furto pluriaggravato è stato consumato.
Quanto alla doglianza secondo cui alcun pregio giuridico avrebbe rivestito, nell’imputazione o nella sentenza di primo grado, il profilo “dell’eventuale ricorso a stratagemmi o scuse per accedere alla casa della persona offesa” (p. 5 del ricorso), essa deriva, evidentemente, da un mancato approfondimento degli atti di causa, da parte difensiva, posto che 1) il giudice di primo grado, riferendosi alle dichiarazioni della vittima, rimarcava come la richiesta di entrare in casa fosse stata avanzata “perché una di loro aveva necessità di andare al bagno, perché incinta” e 2) in rubrica, è espresso il riferimento alla “scusa che NOME fosse in stato interessante e necessitava di andare in bagno”. Dunque, l’espediente/inganno, utilizzato dalle imputate al fine di poter accedere nell’appartamento della persona offesa, ricorre tanto in rubrica quanto nelle conformi sentenze di primo e di secondo grado, risultando, anche nella motivazione di quest’ultima, correttamente valorizzato.
Neppure può ritenersi che, nella ricostruzione del fatto accolta nella gravata decisione, la struttura dell’imputazione sia stata modificata con riguardo all’elemento soggettivo del reato o ad altri elementi costitutivi dello stesso, come lamentato dalla difesa (sui presupposti in base a cui valutare l’eventuale violazione del principio di correlazione tra accusa e sentenza, cfr., ex plurimis, Sez. 6, n. 34879 del 10/01/2007, COGNOME, Rv. 237415). Infatti, la Corte d’appello, valutando gli atti istruttori in modo conforme all’analisi del giudice di primo grado, ha valorizzato quanto osservato dagli agenti di polizia (che, come già accennato, vedano le donne ripercorrere a bordo dell’auto, più volte e assai lentamente, la strada principale, invertire ripetutamente il senso di marcia, prima di risolversi a svoltare in una stradina laterale e a puntare l’abitazione, più isolata, dell’anziana vittima), razionalmente traendovi conferma che le stesse fossero “intente, consapevolmente, a decidere dove recarsi” (enfasi aggiunta). In tale ricostruzione, alcun riferimento è operato all’elemento psicologico del reato di furto in abitazione (come sarebbe stato, ad esempio, se i giudici d’appello avessero ritenuto che i soggetti agenti si fossero rappresentato il luogo in cui si introducevano quale
“privata dimora”: sull’elemento soggettivo del reato di cui all’ad. 624 bis, v., tra le altre, Sez. 2, n. 24763 del 26/05/2015, Mori, Rv. 264284 – 01), sul quale indugia, in maniera inconferente, la difesa.
Alla luce di quanto fin qui osservato, va senz’altro disattesa la doglianza in esame (ivi compresa quella -del tutto aspecífica- vedente sull’asserita introduzione di elementi probatori esclusi, ab origine, dal capo d’imputazione), essendo stato consentito alle imputate di difendersi sull’oggetto dell’addebito così come contestato e ritenuto.
Si osserva, infine, che neppure sussiste un concreto interesse, in capo alle imputate, al motivo di ricorso in esame (Sez. 6, n. 47498 del 22/09/2015, H v, Rv. 265242 – 01: «in tema di impugnazioni, l’interesse richiesto dall’ad. 568 comma quarto, cod. proc. pen., sussiste solo se il gravame sia idoneo a determinare, attraverso l’eliminazione di un provvedimento pregiudizievole, una situazione pratica più vantaggiosa per l’impugnante rispetto a quella esistente»), posto che il reato per cui è intervenuta condanna, vale a dire il furto aggravato da due delle circostanze previste dall’ad. 625, primo comma, cod. pen. (n. 4: destrezza; n. 5: tre o più persone riunite), oltre che dalla minorata difesa di cui all’ad. 61, primo comma, n.5 cod. pen., prevede una pena inferiore a quello (asseritamente ritenuto, secondo la difesa) previsto e punito dall’art. 624 bis cod. pen. La pena base, di anni tre, individuata dai giudici di merito è chiaramente, infatti, riferita al disposto dell’ad. 625, ult. c., cod. pen.
Il secondo motivo è, del pari, inammissibile, in quanto integralmente reiterativo di doglianze già disattese dalla Corte d’appello con motivazione esente dai dedotti vizi.
Lungi dall’aver valorizzato condotte neutre, prive cioè di valenza probatoria, come sostenuto dalla difesa, i giudici di merito hanno dimostrato la sussistenza, nel caso in scrutinio, del perfetto coordinamento che ha caratterizzato le condotte delle tre coimputate – e, in particolare, delle due ricorrenti, per quel che qui rileva -, sia precedentemente all’entrata in casa della vittima (allorché viaggiavano in auto, come chiarito in motivazione, perlustrando la zona (v. suora, sub 1) sia in casa dell’anziana vittima, dove il coordinamento agiva efficacemente secondo il “diffuso stratagemma” -ricordato dalla Corte d’appello, v. p. 8 della gravata sentenza- per cui l’una ricorrente (COGNOME distraeva, con la conversazione, la vittima, l’altra (COGNOME insieme alla coimputata non ricorrente in questa sede) saccheggiava gli interni, una volta allontanatasi dalla persona offesa, col pretesto di raggiungere la camera da bagno.
Con ciò, e per il tramite dell’attenta disamina della distinzione dei ruoli svolti dalle due ricorrenti, la motivazione dell’impugnata sentenza ha fornito adeguata
illustrazione del concorso nell’ascritto reato, non contraddetta in alcun modo dalle frammentarie indicazioni difensive, che, aspirando a una ricostruzione alternativa della vicenda, attraverso un’analisi parcellizzata e atomistica delle condotte delle due imputate (Sez. 6, n. 14624 del 20 marzo 2006, Vecchio, Rv. 233621; Sez. 2, n. 18163 del 22 aprile 2008, Ferdico, Rv. 239789), ignorano la preclusione per la Corte di cassazione di sovrapporre la propria valutazione delle risultanze processuali a quella compiuta nei precedenti gradi di merito (cfr., tra le altre, Sez. 6, n. 25255 del 14/2/2012, COGNOME, Rv. 253099; Sez. 5, n. 39048 del 25/9/2007, COGNOME, Rv. 238215).
In altre parole, le ricorrenti, senza confrontarsi effettivamente con la logica ricostruzione prospettata dalla Corte d’appello, sottopongono a questo Collegio elementi versati in fatti, non idonei a contraddire la tesi del concorso nell’ascritto furto, quale emergente dalla razionale ricostruzione dei giudici di merito. Ne deriva la fallacia della tesi della connivenza non punibile, avendo la Corte distrettuale reso adeguate ragioni circa l’apprezzabile contributo, da parte di ciascuna delle ricorrenti, alla commissione del reato, idoneo a facilitarne l’esecuzione (cfr., ex plurímis, v. Sez. 2, n. 44859 del 17/10/2019, COGNOME, Rv. 277773; Sez. 5, n. 43569 del 21/06/2019, P., Rv. 276990 – 01: «per la configurabilità del concorso di persone nel reato è necessario che il concorrente abbia posto in essere un comportamento esteriore idoneo ad arrecare un contributo apprezzabile alla commissione del reato, mediante il rafforzamento del proposito criminoso o l’agevolazione dell’opera degli altri concorrenti e che il partecipe, per effetto della sua condotta, idonea a facilitarne l’esecuzione, abbia aumentato la possibilità della produzione del reato»). D’altra parte, la disciplina del concorso di persone del reato, per effetto dell’innesto dell’art. 110 cod. pen. rispetto alle singole previsioni incriminatrici, non richiede affatto che ciascun compartecipe ponga in essere tutti gli elementi della fattispecie monosoggettiva, essendo sufficiente, come ribadito dalla consolidata giurisprudenza di questa Corte, che fornisca un consapevole contributo alla realizzazione del reato (ex plurimis, v. Sez. 2, n. 44859 del 17/10/2019, COGNOME, Rv. 277773). Corte di Cassazione – copia non ufficiale
3. Il terzo motivo è manifestamente infondato, non confrontandosi la difesa con la motivazione, in cui è stato adeguatamente chiarito come le ricorrenti non si siano limitate ad approfittare di situazioni, non provocate (o addirittura, in tesi difensiva, provocate dalla vittima stessa), di disattenzione o di momentaneo allontanamento del detentore medesimo (Sez. U, n. 34090 del 27/04/2017, COGNOME, Rv. 270088 – 01), ponendo bensì in essere una condotta caratterizzata da abilità, astuzia o avvedutezza e idonea a sorprendere, attenuare o eludere la sorveglianza del detentore sulla “res”. Dacché la difesa deduce travisamento di
prova, gioverà inoltre ricordare che, per pacifica giurisprudenza di legittimità, l’elemento travisato, la cui inequivoca individuazione e specifica rappresentazione spetta al ricorrente, deve assumere, nella prospettazione difensiva, portata decisiva, nel senso che l’errore accertato deve essere idoneo a disarticolare l’intero ragionamento probatorio, rendendo illogica la motivazione per la essenziale forza dimostrativa dell’elemento frainteso o ignorato, fermi restando il limite del “devolutum” in caso di cosiddetta “doppia conforme” e l’intangibilità della valutazione nel merito del risultato probatorio (Sez. 5, n. 48050 del 02/07/2019, S., Rv. 277758 – 01). Anche il presupposto della decisività dell’atto asseritamente travisato deve essere compiutamente allegato e specificamente dimostrato dal ricorrente, il quale non può esimersi dall’indicare le ragioni per cui l’atto inficia e compromette, in modo decisivo, la tenuta logica e l’intera coerenza della motivazione, introducendo profili di radicale incompatibilità all’interno dell’impianto argomentativo del provvedimento.
Ora, secondo il Collegio, gli argomenti sviluppati dalla difesa non apportano alcun contributo in questo senso: essi sono, infatti, meramente contestativi di circostanze di fatto, sufficientemente vagliate (l’essere stata la persona offesa, dapprima, rassicurata, circa il senso dell’arrivo delle ricorrenti presso la sua abitazione, di poi, distratta dall’azione coordinata di queste ultime, una volta in casa, con precipua distinzione di ruoli -su cui retro, sub 2) dalla Corte distrettuale , oltre che logicamente composte in una trama argomentativa che non mostra cedimenti.
Infine, anche il fatto della contestuale presenza delle tre coimputate nell’abitazione della vittima, lungi dal costituire un argomento eccentrico (in quanto riferito, secondo la difesa, ad altre aggravanti contestate, segnatamente alla circostanza di cui all’art. 625, primo comma, n. 5, cod. pen) ai fini della dimostrazione dell’aggravante in parola è, invece, uno dei profili logicamente valorizzati dalla Corte distrettuale a supporto del ragionamento. È invero ragionevole l’osservazione della Corte territoriale, là dove sottolinea il fatto che non una o due coimputate, bensì tutte e tre le donne avessero deciso di scendere dall’auto ed entrare nell’appartamento dell’anziana vittima, proprio al fine di compiere più efficacemente, in tre, la concertata azione furtiva, con la distinzione di ruoli già ricordata.
Il quarto motivo è infondato, mancando la difesa di confrontarsi, in maniera critica ed effettiva, con la motivazione della gravata sentenza, in cui la Corte d’appello, oltre a valorizzare l’indiscusso e oggettivo dato dell’avanzata età anagrafica della vittima (di anni 84; sul punto, v. Sez. 5, n. 38347 del 13/07/2011, Cavo’, Rv. 250948 – 01, secondo cui «ai fini della configurabilità della circostanza
aggravante della minorata difesa, l’età avanzata della vittima del reato, a seguito delle modificazioni legislative introdotte dalla legge n. 94 del 2009, rileva in misura maggiore attribuendo al giudice di verificare, allorché il reato sia commesso in danno di persona anziana, se la condotta criminosa posta in essere sia stata agevolata dalla scarsa lucidità o incapacità di orientarsi da parte della vittima nella comprensione degli eventi secondo criteri di normalità»), ha anche indicato elementi di contesto, quali la posizione isolata dell’abitazione, in cui la persona offesa si trovava da sola, nonché l’attitudine emotiva della vittima, descritta dalla Corte nei termini di “comportamento ingenuo”, che è espressione indicativa di un indifeso affidarsi – spesso tipico dei molto anziani – al prossimo.
Un indifeso e acritico affidarsi che, secondo il condivisibile apprezzamento della Corte d’appello, si è tradotto, in concreto, in una particolare situazione di vulnerabilità del soggetto passivo del reato; al punto che la vittima, come ricordato in motivazione, neppure aveva realizzato l’accaduto, essendo stata resa edotta circa l’avvenuto furto soltanto all’arrivo dell’agente in servizio. Per tali ragioni, il Collegio ritiene che la motivazione abbia adeguatamente esposto le ragioni della peculiare vulnerabilità della vittima, al di là dell’età della stessa, coerentemente con l’insegnamento delle Sezioni unite di questa Corte (cfr. Sez. U, n. 40275 del 15/07/2021, COGNOME, Rv. 282095 – 02: «le circostanze di tempo, di luogo o di persona, di cui l’agente abbia profittato, devono tradursi, in concreto, in una particolare situazione di vulnerabilità del soggetto passivo del reato, non essendo sufficiente l’idoneità astratta delle predette condizioni a favorire la commissione dello stesso») circa la configurabilità, in concreto, della minorata difesa.
5. Il quinto motivo è inammissibile, in quanto reiterativo e generico. In disparte l’erronea affermazione della difesa circa l’ultimo precedente a carico della ricorrente COGNOME (che risale alla condanna per furto aggravato, decisa con sentenza del Tribunale di Perugia, irr. 30.03.2019, e non al 2012, come asserito in ricorso), non può dirsi che la Corte distrettuale abbia ragionato sulla base di un astratto canone di pericolosità sociale, né guardato alla recidiva in guisa di un mero «status soggettivo desumibile dal certificato penale ovvero dal contenuto dei provvedimenti di condanna emessi nei confronti di una persona» (Sez. 5, n. 46804, del 4/10/2021, COGNOME, Rv. 282383-01).
Il giudizio espresso in motivazione – dove si evidenzia adeguatamente la relazione tra il caso in esame, i diversi reati, contro il patrimonio, commessi dalla ricorrente nel tempo, e il giudizio di pericolosità sociale derivante dalla ragionevole valutazione che la ricorrente possa trarre fonte di sostentamento da reati contro il patrimonio – è stato formulato in aderenza ai principi posti dalla Suprema Corte, in quanto basato sulla concretezza del caso di specie (S.U., n. 20798 del
24/2/2011, Indelicato, Rv. 249664-01: «la recidiva è, piuttosto, una circostanza pertinente al reato che richiede un accertamento, nel caso concreto, della relazione qualificata tra lo status e il fatto che deve risultare sintomatico, in relazione alla tipologia dei reati pregressi e all’epoca della loro consumazione, sia sul piano della colpevolezza che su quello della pericolosità sociale»).
6. Il sesto motivo è inammissibile, in quanto aspecifico, omettendo la difesa di confrontarsi effettivamente con la motivazione dell’impugnata sentenza. Deve ribadirsi, a tal proposito, che la mancanza di specificità del motivo va valutata e ritenuta non solo per la sua genericità, intesa come indeterminatezza, ma anche per la mancanza di correlazione tra le ragioni argomentate dalla decisione impugnata e quelle poste a fondamento dell’impugnazione, dal momento che quest’ultima non può ignorare le esplicitazioni del giudice censurato senza cadere nel vizio di aspecificità per violazione dell’art. 591 comma 1, lett. c), cod. proc. pen. (Sez. 3, n. 44882 del 18/7/2014, COGNOME, Rv. 260608 – 01; Sez. 5, n. 28011 del 15/2/2013, COGNOME, Rv. 255568 – 01; Sez. 4, n. 18826 del 9/2/2012, COGNOME, Rv. 253849 – 01; Sez. 2, n. 29108 del 15/7/2011, COGNOME, n. m.).
Ebbene, in motivazione è stato esplicitamente chiarito come il diniego delle invocate circostanze attenuanti generiche alla COGNOME sia stato basato anche sulla mancanza di qualsivoglia segno di resipiscenza da parte dell’imputata.
Pertanto, la mancata concessione delle circostanze attenuanti generiche deve ritenersi adeguatamente giustificata, nella sentenza impugnata, con motivazione esente da manifesta illogicità, che si sottrae, pertanto, al sindacato di questa Corte (Sez. 6, n. 42688 del 24/09/2008, Rv. 242419), anche considerato il principio, espressione della consolidata giurisprudenza di legittimità, secondo cui non è necessario che il giudice di merito, nel motivare il diniego della concessione delle attenuanti generiche, prenda in considerazione tutti gli elementi favorevoli o sfavorevoli dedotti dalle parti o rilevabili dagli atti, ma è sufficiente che egli faccia riferimento a quelli ritenuti decisivi o comunque rilevanti, rimanendo disattesi o superati tutti gli altri da tale valutazione (Sez. 2, n. 3609 del 18/01/2011, COGNOME, Rv. 249163; Sez. 6, n. 34364 del 16/06/2010, Giovane, Rv. 248244).
Con riguardo, infine, alla doglianza relativa al giudizio d’equivalenza con cui le attenuanti generiche sono state concesse alla COGNOME, essa va decisamente disattesa, in quanto palesemente infondato è l’assunto difensivo secondo cui la Corte d’appello avrebbe operato un confronto puramente “numerico” tra le circostanze di segno opposto. Deve invece considerarsi che il giudizio di equivalenza è stato attentamente ponderato, in vista, da un lato, della giovane età della ricorrente e della sua incensuratezza e, dall’altro, del “particolare rilievo e portata” delle diverse circostanze che hanno aggravato il fatto di reato
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contestato. Va ribadito, a tal proposito, che le statuizioni relative al giudizio di comparazione tra opposte circostanze, implicando una valutazione discrezionale
tipica del giudizio di merito, sfuggono al sindacato di legittimità quando, come nella specie, non siano frutto di mero arbitrio o di ragionamento illogico e siano
sorrette da sufficiente motivazione, tale dovendo ritenersi quella che per giustificare la soluzione dell’equivalenza si sia limitata a ritenerla la più idonea a
realizzare l’adeguatezza della pena irrogata in concreto (Sez. U, n. 10713 del
25/02/2010, COGNOME Rv. 245931).
3. Per le ragioni illustrate, il Collegio ritiene che i ricorsi vadano rigettati. Alla pronuncia di rigetto consegue,
ex art. 616 cod. proc. pen., la condanna delle
ricorrenti al pagamento delle spese processuali.
P.Q.M.
Rigetta i ricorsi e condanna le ricorrenti al pagamento delle spese processuali.
Così deciso in Roma, il 04/04/2025 Il consigliere estensore
Il presidénte