Sentenza di Cassazione Penale Sez. 2 Num. 25778 Anno 2025
Penale Sent. Sez. 2 Num. 25778 Anno 2025
Presidente: IMPERIALI NOME
Relatore: COGNOME
Data Udienza: 13/06/2025
SENTENZA
sul ricorso proposto da:
RAGIONE_SOCIALE NOME nato a ROMA il 01/07/1993
avverso la sentenza del 30/09/2024 della CORTE APPELLO di NAPOLI
visti gli atti, il provvedimento impugnato e il ricorso;
udita la relazione svolta dal Consigliere NOME COGNOME;
udito il Pubblico Ministero, in persona del Sostituto PG, NOME COGNOME il quale ha concluso per l’inammissibilità del ricorso.
udito il difensore
L’avvocato NOME COGNOME del foro di NOLA insiste per l’accoglimento del ricorso.
RITENUTO IN FATTO
COGNOME NOME COGNOME a mezzo del difensore di fiducia, ricorre per cassazione avverso la sentenza della Corte di appello di Napoli del 30/09/2024, con cui è stata confermata la sentenza del Tribunale collegiale di Napoli che ha condannato il ricorrente alla pena di giustizia, in ordine al delitto di concorso in estorsione aggravata dalle più persone riunite (artt. 110, 629, in relazione all’art. 628, commi 1 e 3 n. 1) e dalla circostanza di cui all’art. 416-bis.1 cod. pen.
La difesa affida il ricorso a quattro motivi che, ai sensi dell’art. 173, comma 1, disp. att. cod. proc. pen., saranno enunciati nei limiti strettamente necessari per la motivazione.
Il P.G. presso questa Corte, con requisitoria-memoria del 13/05/2025, ha concluso per l’inammissibilità del ricorso.
CONSIDERATO IN DIRITTO
Con il primo motivo si deduce la violazione di legge ed il vizio di motivazione in ordine all’integrazione, nella condotta tenuta dal ricorrente, degli elementi tipici del reato di estorsione, nonché la mancata valutazione di una prova decisiva.
A fronte di un’estorsione cd. “progressiva” che si nutre di ben sette episodi e ascrivibile al “fratellastro” COGNOME NOME, si evidenzia come la presenza del ricorrente potrebbe tutt’al più farsi risalire a soli due episodi (quello del 18 dicembre 2020 e quello dell’Il gennaio 2021), in cui le interlocuzioni con la persona offesa erano avvenute da parte di altri soggetti (nel primo caso l’imputato è indicato come colui che aveva una voce titubante e addirittura non riusciva a parlare, al punto tale da rendere necessario l’intervento del secondo soggetto, tale COGNOME, che a quel punto si sarebbe presentato per conto degli “amici di Licola”; nel secondo caso, invece, come colui che avrebbe accompagnato COGNOME NOME presso il cantiere della p.o., con la quale avrebbe interloquito solo quest’ultimo) e, peraltro, prive di contenuto intimidatorio, neppure larvato o implicitamente minaccioso. Peraltro, si sottolinea che anche gli stessi giudici di merito avevano dato atto che il ricorrente non avesse avanzato alcuna richiesta estorsiva, né profferito alcuna minaccia.
Né confacente, al fine di superare l’assenza nella condotta del ricorrente degli elementi tipici della condotta estorsiva, era il riferimento al fatto che, unitamente al fratello, avrebbe posto in essere un’estorsione cd. ambientale, stridendo una tale conclusione con i principi declinati dalla Corte di legittimità in materia, occorrendo pur sempre la sussistenza di un nucleo minimo di condotta riconducibile al concetto giuridico di minaccia che, nel caso in esame, si ribadisce
non ricorre neppure nell’ipotesi della minaccia cd. “implicita” o “larvata”.
Peraltro, si soggiunge, all’assenza di comportamenti minacciosi da parte del ricorrente, rilevavano anche l’assenza di alcun timore manifestato dalla p.o. nei confronti dell’imputato, nonché – e sul punto si denuncia anche il vizio di travisamento della prova – le dichiarazioni liberatorie rese dal fratello nel corso dell’interrogatorio di garanzia.
Il motivo è infondato e, in ordine al dedotto travisamento, è inammissibile.
Dalla ricostruzione in fatto cui sono pervenute le sentenze di merito risulta che NOME NOME è stato vittima di un’estorsione, essendo stato costretto a consegnare la somma di euro mille, quale prima tranche della maggiore di euro tremila, nelle mani di COGNOME NOME, separatamente giudicato.
La natura estorsiva della pretesa si ricava dalla matrice camorristica della causale, per come chiaramente intesa anche dalla vittima, in quanto è ricondotta al “pizzo” che gli imprenditori del settore della nautica – a cui l’COGNOME apparteneva – dovevano pagare ai clan egemoni sul territorio, per come ricavato dalle modalità della richiesta che a tale compagine fa riferimento (“il regalo di Natale per gli amici di Licola”), dalle circostanze che caratterizzano la pretesa (plurimi emissari, incontro con il COGNOME NOME anche in “una zona impervia di Licola mare”, riferimenti al termine “hai l’imbasciata”), dal fatto che il pagamento era finalizzato a far stare tranquilla la vittima nella prosecuzione della sua attività (“ti fai un buon anno”) e dal richiamo alla destinazione della somma (far fronte anche alle spese di trasferta dei familiari che dovevano andare a sostenere i colloqui coi detenuti).
Tanto premesso, e venendo alla valenza concorsuale della condotta prestata dal ricorrente, nessun rilievo assume a detti fini la circostanza che l’imputato non abbia rivolto alla p.o. alcuna minaccia ovvero agitato la richiesta estorsiva, in quanto l’attività costitutiva del concorso di persone nel reato può essere rappresentata da qualsiasi comportamento esteriore che fornisca un apprezzabile contributo, in tutte o alcune fasi di ideazione, organizzazione od esecuzione, alla realizzazione dell’altrui proposito criminoso, talché assume carattere decisivo l’unitarietà del “fatto collettivo” realizzato che si verifica quando le condotte dei concorrenti risultino, alla fine, con giudizio di prognosi postumo, integrate in unico obiettivo, perseguito in varia e diversa misura dagli imputati, sicché è sufficiente che ciascun agente abbia conoscenza, anche unilaterale, del contributo recato alla condotta altrui (Sez. 2, n. 18745 del 15/01/2013, Ambrosiano, Rv. 255260 – 01; Sez. 1, n. 28794 del 15/02/2019, COGNOME, Rv. 276820 – 01).
E tanto alla luce non solo della tipizzazione unitaria del concorso di persone nel reato, la quale assegna rilievo, a pari titolo, a chi compie la condotta tipica rispetto a colui o a coloro che hanno apportato un contributo qualsiasi, purché
dotato di rilevanza causale nell’ambito della realizzazione collettiva del fatto, ma anche perché può ricadere nell’alvo del concorso anche l’attività materiale post delictum, laddove costituisca un programmato contributo all’altrui condotta criminosa che ha consentito una più agevole commissione del reato avuto di mira (Sez. 1, n. 17541 del 12/01/2021, Di Bari, Rv. 281219 – 01. Conf. n. 9612 del 1987, Rv. 179311; n. 2732 del 1984, Rv. 168440; n. 5310 del 1983, Rv. 159377).
Nel caso in esame, per come evidenziato dalle sentenze di merito che di tali principi hanno fatto corretta applicazione, l’imputato è presente in due momenti particolarmente significativi della “filiera” estorsiva: al momento di “presentazione del clan alla vittima” e, successivamente, allorché viene sollecitato il pagamento della restante somma oggetto della costrizione estorsiva.
La prospettazione difensiva, al fine di svalutare la pregnanza contenutistica dei contributi da ciascun correo apportati, opera una lettura parcellizzata degli episodi che mal si concilia con l’unitarietà del movente illecito che abbraccia l’intera vicenda e che costituisce – anche in assenza di verosimili ipotesi alternative l’unica e logica causale dei ripetuti incontri che i diversi correi hanno con la p.o.
Quanto, poi, al ruolo di complice e, dunque, alla consapevolezza del ricorrente di prestarsi a dar man forte ad un’estorsione, la sentenza impugnata, con congrua motivazione, ha escluso l’ipotesi della presenza inconsapevole operando una lettura congiunta di due episodi che lo vedono protagonista. La difficoltà comunicativa registratasi nel primo episodio è stata motivatamente disattesa facendo riferimento alle modalità di ingresso furtivo di entrambi i correi nel cantiere della p.o., modo di agire che è stato logicamente ritenuto offrire la misura della correità dei due complici, nonché dal fatto che fu comunque l’imputato per primo a parlare. Il tentativo mal riuscito di formulare la prima richiesta estorsiva non ne elide il rilievo ai fini del dolo di concorso, in quanto implica, per come sottolineato dalla Corte d’appello, la volontà di rappresentare i termini della futura esazione che poi verranno esplicitati sempre in quel medesimo contesto dal correo COGNOME. Del resto, il ruolo di complice svolto a pieno titolo dal ricorrente è avvalorato anche dal secondo episodio della vicenda estorsiva a cui partecipa insieme a COGNOME (volto a sollecitare alla p.o. il pagamento del restante importo dovuto), la cui natura meramente “passiva” è smentita non solo dalle dichiarazioni della p.o. che riferisce di avere sollecitato entrambi a non recarsi più presso il suo cantere (“frequentato da brave persone, perché la loro presenza recava un danno all’immagine del locale”), ma dagli stessi esiti ricavati dal file audio registrato nell’occasione dalla vittima e dal file video estrapolato dal sistema di video sorveglianza dell’impresa, ben riepilogati dalla sentenza impugnata alle pagine 6 e 7.
Inammissibile, poi, oltre che privo di decisività in ragione degli elementi di
accusa valorizzati dalla sentenza impugnata, è il dedotto travisamento (per omissione) relativo alle dichiarazioni liberatorie che avrebbe reso il fratello dell’imputato, considerato che di tale profilo di censura non vi è traccia nell’atto di appello. Il vizio di travisamento della prova per omissione – che ricorre quando manchi la motivazione in ordine alla valutazione di un elemento probatorio acquisito nel processo e potenzialmente decisivo ai fini della decisione – dà luogo pur sempre ad un vizio di motivazione della sentenza impugnata che, per essere deducibile ai sensi dell’art. 606, comma 1, lett. e) cod. proc. pen., esige non solo che quel dato abbia formato ingresso nel patrimonio probatorio a disposizione del giudice di merito ma che, se disatteso, sia stato confutato coi motivi di appello.
Con il secondo motivo si lamenta la violazione dell’art. 114 cod. pen. ed il vizio di motivazione.
La censura attiene al mancato riconoscimento dell’attenuante del contributo di minima importanza, a fronte della stessa sentenza di primo grado che aveva rilevato come l’imputato risultasse “coinvolto solo occasionalmente in questa attività illecita”, tanto che in sede cautelare se ne era fatta discendere l’applicazione di una misura non custodiale, ribadendosi che si era al cospetto di condotte “più defilate” rispetto a quelle degli altri correi (si cita anche il Tribunale del riesame laddove si fa riferimento al ruolo di “collaboratore dei suoi accompagnatori” nello svolgimento di un “tirocinio criminale”).
Il motivo è manifestamente infondato.
E’ sfuggito sia al ricorrente che ad entrambi i giudici di merito che, in tema di concorso di persone nel reato, la disposizione del secondo comma dell’art. 114 cod. pen., secondo cui l’attenuante della minima partecipazione al fatto pluripersonale non si applica quando ricorra una delle circostanze aggravanti delineate all’art. 112 stesso codice, e, dunque, quando il numero dei concorrenti sia pari o superiore a cinque, si riferisce anche ai casi nei quali il numero delle persone concorrenti nel reato sia posto a base di un aggravamento della pena in forza di disposizioni specificamente riguardanti il reato stesso.
In applicazione di tale principio, la Corte di legittimità, con orientamento consolidato, ha escluso che l’attenuante possa essere riconosciuta nel caso di estorsione aggravata ai sensi del secondo comma dell’art. 629 cod. pen., che richiama, tra l’altro, l’ultima parte della previsione posta al n. 1) del comma terzo dell’art. 628, secondo cui la pena è aumentata quando il fatto sia commesso da più persone riunite (Sez. 2, n. 6832 dell’8/5/1996, Rv. 205409 – 01; Sez. 2, n. 18540 del 19/4/2016, COGNOME, Rv. 266852 – 01. Da ultimo, Sez. 2, n. 12422 del 18/02/2025, Corso, non mass.; Sez. 2, n. 21089 del 29/09/2023, Natale, non mass.).
Si è, infatti, precisato (Sez. 1, n. 37277 del 23/04/2015, COGNOME, Rv. 26456501, in motivazione) che la clausola di riserva «salvo che la legge disponga altrimenti», contenuta nell’art. 112 cod. pen., non solo sta a indicare la prevalenza delle norme speciali sulla regola generale, ma consente anche di escludere l’applicabilità dell’attenuante in presenza di siffatte norme speciali. Nello stesso senso: Sez. 3, n. 17180 del 05/03/2020, COGNOME, Rv. 279014-01; Sez. 2, n. 3130 del 26701/2024, COGNOME, non mass.).
Di conseguenza, il motivo di ricorso finisce per essere manifestamente infondato poiché pone a fondamento della denuncia di violazione di legge una disposizione che, invece, nei suoi esiti di esclusione, risulta essere stata correttamente applicata dal giudice del merito, seppur con la correzione della motivazione cui può provvedere direttamente il Collegio, trattandosi di errore di diritto.
Con il terzo motivo si denuncia l’erronea applicazione della legge penale ed il vizio di motivazione riguardo alla ricorrenza dell’aggravante di cui all’art. 416bis.1 cod. pen.
Si censura anzitutto la sentenza impugnata nella parte in cui aveva affermato la ricorrenza dell’aggravante anche nella forma dell’agevolazione, ipotesi che, invece, era stata esclusa dal primo giudice; sul punto, peraltro, si adduce come la Corte d’appello, contrariamente ai principi affermati dalla giurisprudenza di legittimità, avesse ritenuto sufficiente ad integrare la circostanza il fatto che il soggetto nei confronti del quale si orienta il contributo causale fosse un affiliato, omettendo di considerare che occorre che il correo sia consapevole che la condotta vada ad agevolare non il singolo soggetto ma l’associazione di stampo mafioso.
Si aggiunge, poi, che anche sul versante oggettivo la sentenza impugnata si prestava a rilievi, non essendo sufficiente che l’estorsione si collochi in contesti ad alta densità mafiosa, necessitando l’esteriorizzazione del metodo mafioso al fine di comprimere ulteriormente la resistenza della vittima, ovvero al fine di garantirsi con maggiore successo di impunità il conseguimento dello scopo illecito.
Peraltro, l’estensione dell’aggravante nei confronti del ricorrente mal si conciliava con il “contributo” reso, non avendo pronunciato alcuna frase, richiesta estorsiva, né interloquito con la persona offesa.
Il motivo è infondato.
Anche laddove la prima richiesta – obiettivamente evocativa della provenienza da consessi criminali (“ricordarsi degli amici di . i , gtela”) – non fosse stata esitata dall’imputato ma solo dal complice (COGNOME NOME), l’attiva presente del ricorrente in quel frangente e il successivo ripresentarsi ad esigere il pagamento di quanto ancora dovuto, sono elementi fattuali che danno ragionevolmente conto
dell’attribuibilità della circostanza, assumendo rilievo, a detti fini, non solo che l’imputato, per come argomentato dalla Corte di merito, l’abbia conosciuta, ma che, quantomeno, in forza del comma 2 dell’art. 59 cod. pen., l’abbia ignorata per colpa, aspetto, quest’ultimo, non inficiato dal motivo di ricorso.
Quanto al metodo si è, poi, evidenziato come il tenore delle richieste, formulate con terminologia fortemente evocativa (“il regalo di Natale per gli amici di Licola”), l’assegnazione di un termine per il pagamento che si intende essere perentorio e l’imposizione di ulteriori a scadenza periodica, coincidenti con le festività di rito, sono elementi da cui è stata ricavata la provenienza delle richieste da un gruppo criminale ben radicato sul territorio che vanta solidità e capacità di intimidazione notevoli. Chiaro è il riferimento alle dichiarazioni della persona offesa dove ben evidenziato è la consapevolezza che i soggetti da cui promanavano le richieste erano contigui a determinati ambienti malavitosi e facevano leva sulla consapevolezza che la stessa vittima aveva della loro stretta continuità con certi ambienti affinché si rappresentasse il rischio, altamente probabile, di esporre la propria persona a gravi torsioni.
La vis intimidatrice è stata, dunque, ricondotta alla mera evocazione di una struttura delinquenziale che aveva egemonia sul territorio e sulla forza impositiva delle proprie pretese; si è quindi fatto riferimento a una struttura oppressiva ed ineludibile, capace di molteplici efferati delitti che, pur non venendo mai espressamente menzionata era tuttavia associata, per logica o comune, all’indicata destinazione finale che avrebbero dovuto avere le somme.
Gli elementi fattuali evidenziati dal giudice del merito sono dunque logicamente sintomatici della diffusione del sistema estorsivo di cui era espressione la richiesta, allora imperante nella zona, al quale la vittima non poteva sottrarsi, dal momento in cui l’impresa cominciava ad operare nell’area di influenza del gruppo.
Del resto, questa Corte di legittimità ha più volte precisato che l’aggravante nella sua declinazione del metodo consiste nell’aver commesso il fatto avvalendosi delle condizioni previste dall’art. 416-bisl. cod. pen. ed è configurabile a carico dei soggetti i quali, partecipi o meno di reati associativi, utilizzino metodi mafiosi e cioè ostentino nel loro comportamento, in maniera evidente e provocatoria, una condotta intimidatrice idonea a esercitare sui soggetti passivi quella particolare quartazione e quella conseguente intimidazione e timore che sono propri delle organizzazioni di tipo mafioso, per come chiaramente rappresentato anche dalle dichiarazioni della vittima (Sez. 2, n. 34786 del 31/05/2023, Gabriele, Rv. 284950 – 01; Sez. 2, n. 39424 del 09/09/2019, COGNOME, Rv. 277222 – 01).
Tanto basta a fondare il giudizio di maggior disvalore circostanziale, con conseguente assenza di decisività del profilo inerente all’agevolazione
dell’associazione di stampo camorristico, ulteriore declinazione che, pur facendo parte della contestazione, non è stata valorizzata, per come segnalato dalla difesa, dalla pronuncia di primo grado.
Con il quarto motivo si lamenta la violazione dell’art. 62-bis cod. pen. e il vizio di motivazione.
La censura attiene al diniego della prevalenza delle circostanze attenuanti generiche: si lamenta che la Corte d’appello abbia svalutato o non considerato i plurimi indici positivi pure declinati dalla difesa con l’atto di appello che fanno riferimento ai profili di minor disvalore della condotta già evidenziati dai giudici della cautela e di primo grado, nonché al buon comportamento processuale dell’imputato, avendo la difesa fornito il consenso all’acquisizione di quasi tutti gli atti di indagine, così assicurando economia processuale al dibattimento.
Si adduce, infine, a motivo di contraddittorietà della motivazione, anche il trattamento sanzionatorio che era stato riservato agli altri correi, i quali avevano scelto riti differenti, caratterizzato da una forbice non particolarmente elevata rispetto a quello riservato al ricorrente.
Il motivo è manifestamente infondato.
L’esplicitazione degli indici positivi su cui la difesa incentra il motivo di ricorso e che sarebbero stati anche disattesi dalla Corte di merito non trova analogo specifico riferimento nell’atto di appello che sul punto si limita a richiamare, in punto di mero dissenso, le ragioni addotte dal primo giudice a fondamento del giudizio di equivalenza. E tanto basterebbe ai fini dell’inammissibilità della doglianza, non potendosi colmare col ricorso per cassazione profili non esplorati con l’atto di appello e specificamente sottoposti all’esame del giudice dell’impugnazione di merito.
Peraltro, a fondamento del diniego della prevalenza, la sentenza impugnata, oltre a validare le ragioni del primo giudice – il quale ha comunque favorevolmente apprezzato, ai fini del riconoscimento circostanziale, seppur in termini di equivalenza, diversi indici di minor disvalore per come indicato nella motivazione – ha richiamato anche la condotta processuale dell’imputato nella parte in cui ha serbato un atteggiamento “non collaborativo”, non manifestando il benché moto di resipiscenza per quanto commesso a fronte di una versione implausibile e sconfessata dalle emergenze istruttorie. Si tratta di un profilo in relazione al quale il ricorso omette specificamente di confrontarsi e che il giudice del merito può, in tutto o in parte, apprezzare ai fini del giudizio che è chiamato a svolgere ai fini circostanziali (Sez. 2, n. 28388 del 21/04/2017, Leo, Rv. 270339 – 01. In motivazione, la S.C. ha osservato che, se l’esercizio del diritto di difesa rende, per scelta del legislatore, non penalmente perseguibili dichiarazione false rese a
propria difesa dall’imputato, ciò non equivale affatto a rendere quel tipo di dichiarazioni irrilevanti per la valutazione giudiziale del comportamento tenuto
durante lo svolgimento del processo, agli effetti e nei limiti di cui all’art. 133 cod.
pen. Vedi anche: Sez. 4, n. 20115 del 04/04/2018, Prendi, Rv. 272747 – 01; Sez.
5, n. 32422 del 24/09/2020, COGNOME, Rv. 279778 – 01).
Da ciò consegue l’ulteriore esclusione di paventati vizi di legittimità con riferimento alla determinazione della pena per contraddittorietà con gli esiti dei
coimputati, in quanto si adduce il vizio di motivazione sulla scorta di un giudizio esterno al processo e svolto da altro giudice in differente rito e, soprattutto, alla
luce del minimo su cui è stata determinata la pena per l’estorsione che dell’aumento (pari ad 1/3) per l’aggravante speciale (anni cinque di reclusione, v.
pag. 15 sentenza di primo grado).
5. In conclusione, il ricorso va rigettato, con condanna del ricorrente, ai sensi dell’art. 616 cod. proc. pen., al pagamento delle spese processuali.
P.Q.M.
Rigetta il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese processuali.
Così deciso, il 13 giugno 2025.