Sentenza di Cassazione Penale Sez. 2 Num. 43113 Anno 2024
Penale Sent. Sez. 2 Num. 43113 Anno 2024
Presidente: COGNOME NOME
Relatore: COGNOME NOME
Data Udienza: 31/10/2024
SENTENZA
sui ricorsi proposti nell’interesse di
COGNOME NOME, nata a Torre Del Greco il DATA_NASCITA
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NOME, nato a Torre Del Greco il DATA_NASCITA
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NOME NOME, nato a Torre Del Greco il DATA_NASCITA
avverso la sentenza del 04/12/2023 della Corte Appello di Napoli visti gli atti, il provvedimento impugnato e il ricorso;
udita la relazione svolta dal AVV_NOTAIO NOME COGNOME;
lette le richieste del AVV_NOTAIO Procuratore generale NOME COGNOME, che ha concluso chiedendo che il ricorso di NOME COGNOME venga dichiarato inammissibile e che gli altri ricorsi siano rigettati.
RITENUTO IN FATTO
Con la sentenza impugnata, la Corte di appello di Napoli, in parziale riforma della pronuncia emessa in data 21 giugno 2022 dal Giudice dell’udienza preliminare del Tribunale di Torre Annunziata, per quanto qui rileva; GLYPH
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ha rideterminato, sull’accordo delle parti, la pena inflitta a NOME COGNOME, in relazione ai delitti di cui ai capi 7-8-9 (artt. 81-110-644 cod. pen.) e 10 (artt 81-110-629 cod. pen.);
ha rideterminato la pena inflitta a NOME COGNOME e NOME COGNOME, in accoglimento di motivi di gravame, in ordine alla sussistenza della circostanza ex artt. 628, terzo comma, n. 3-quater, e 629 cod. pen., confermando la condanna per i delitti di cui ai capi 7-8-9 (artt. 81-110-644 cod. pen.) e 10 (artt. 81-110629 cod. pen.);
ha assolto NOME COGNOME per il delitto di cui al capo 10 (artt. 81-110629 cod. pen.), rideterminando la pena per il delitto di cui al capo 9 (artt. 81-110644 cod. pen.);
ha confermato la condanna di NOME COGNOME, per il delitto di cui al capo 1 (artt. 81-110-629 cod. pen.).
Avverso la sentenza hanno proposto ricorso per cassazione tutti i suddetti imputati, formulando i motivi di censura di seguito sinteticamente esposti, nei termini di cui all’art. 173 disp. att. cod. proc. pen.
3. Ricorso di NOME COGNOME
3.1. Violazione di legge in relazione agli artt. 628, terzo comma, n. 3-quater, e 629 cod. pen. e vizi di motivazione. I giudici di merito avrebbero ravvisato una serie di condotte ex art. 629 cod. pen. unificate dal vincolo della continuazione, protrattesi dall’agosto 2019 al gennaio 2020, senza individuare distintamente i singoli episodi. In tal modo, sarebbero stati irritualmente confusi un delitto, consumatosi con l’ultima dazione, estintiva delle pretese degli agenti, nel dicembre 2019, seguito da una nuova richiesta estorsiva, completamente autonoma dalla precedente, a cui la persona offesa, però, non avrebbe dato risposta. Ci si troverebbe, dunque, in presenza di un primo reato consumato e di un secondo rimasto allo stadio di mero tentativo. Solo a quest’ultimo, peraltro, e non all’intera attività delittuosa, potrebbe applicarsi l’aggravante del fatto commesso nei confronti di chi si trovi nell’atto di fruire dei servizi di uffici postali.
3.2. Mancanza o apparenza della motivazione riguardo alla ribadita sussistenza della circostanza di cui all’art. 628, terzo comma, n. 3-quater, e 629 cod. pen. La Corte di appello ha ritenuto connotata da violenza o minaccia la mera e muta presenza della ricorrente, rimasta all’interno della propria vettura, senza avanzare richieste di denaro, mentre COGNOME era in prossimità dello sportello bancomat. Su tali puntuali deduzioni difensive, la sentenza impugnata non offrirebbe alcuna concreta risposta.
4. Ricorso di NOME COGNOME
4.1. Mancanza, illogicità e manifesta contraddittorietà della motivazione in relazione alla ribadita affermazione di responsabilità.
5. Ricorso di NOME COGNOME
5.1. Mancanza, illogicità e manifesta contraddittorietà della motivazione in relazione alla ribadita affermazione di responsabilità. I giudici di merito avrebbero irritualmente valorizzato la pretesa presenza fisica dell’imputato, quale coniuge di NOME COGNOME, al momento delle presunte pattuizioni usurarie, nell’ambito delle quali non avrebbe assunto alcun ruolo decisionale; non emergerebbe prova definitiva, infatti, che la suocera NOME abbia elargito effettivamente a NOME una somma, a titolo di ricompensa per l’accompagnamento anche nelle fasi di recupero della provvista (ciò che, comunque, non potrebbe dimostrare la consapevolezza del negozio illecito). Peraltro, a suo tempo, il Tribunale del riesame aveva rilevato la totale carenza indiziaria a carico dell’imputato. Illogicamente, d’altronde, sarebbe stata esclusa la sua partecipazione al conseguente delitto di ricettazione, confermando viceversa il concorso nell’usura.
5.2. Violazione di legge in relazione all’art. 597, commi 3-4, cod. proc. pen., eccependo la violazione del divieto di reformatio in peius (poiché, nel nuovo computo, la Corte di Napoli non avevaIf – J2eltrgo ) analogamente al primo Giudice, mantenersi sul minimo edittale). Risulterebbe, inoltre, mancante o contraddittoria la decisione di discostarsi sensibilmente dal suddetto minimo. A detta della difesa, è altresì censurabile la mancata concessione della sospensione condizionale, avuto riguardo all’unico e risalente precedente. d;
6. Ricorso di NOME COGNOME
6.1. Mancanza, illogicità e manifesta contraddittorietà della motivazione in relazione alla ribadita affermazione di responsabilità per il delitto di usura. La Corte di appello, in particolare, avrebbe disatteso le deduzioni difensive in ordine alle dichiarazioni della persona offesa sulla gratuità dei prestiti inizialmente ricevuti da COGNOME, irragionevolmente poi fondando la pronuncia di condanna sui legami familiari e sulla mera presenza al momento dell’accordo illecito. La contestata attività di intermediazione, consistita nel porre COGNOME in contatto con i propri figli, non potrebbe essere connotata da un personale interesse economico o dalla consapevolezza della usurarietà delle pattuizioni.
6.2. Violazione di legge in relazione agli artt. 110 e 629 cod. pen., sempre contestandosi l’illogicità della valutazione probatoria anche per il delitto di cui al capo 10. Il solo concorso nel distinto reato di usura e i rapporti parentali con gli altri còrrei, in assenza di condotte violente o minatorie personalmente poste in
essere, non consentirebbero di ritenere automaticamente provata anche l’estorsione, in assenza di un concreto contributo causalmente orientato.
6.3. Violazione di legge in relazione all’art. 597, commi 3-4, cod. proc. pen., eccependgla violazione del divieto di reformatio in peius. Nonostante l’esclusione dell’aggravante di cui all’art. 628, terzo comma, n. 3-quater, cod. pen., la Corte territoriale non avrebbe ridotto la pena irrogata dal Giudice dell’udienza preliminare. Il ragionamento dei giudici di appello, che hanno ricostruito il computo del primo grado, assumendo la concessione delle circostanze attenuanti generiche prevalenti, con irrogazione di una pena inferiore ai minimi edittali e priva degli aumenti ex art. 81 cod. pen., non potrebbe comunque incidere sul principio che, all’esito di una condanna per fatti complessivamente meno gravi, dovrebbe seguire una corrispondente diminuzione della pena.
7. Ricorso di NOME COGNOME
7.1. Mancanza, illogicità e manifesta contraddittorietà della motivazione in relazione alla ribadita affermazione di responsabilità per il delitto di usura. La pronuncia di condanna sarebbe fondata, oltre che sulla relazione di consanguineità con gli altri coimputati, soltanto sul fatto, probatoriamente neutro, che la pattuizione usuraria sarebbe stata conclusa dai fratelli dell’imputata nell’appartamento da costei messo a disposizione all’uopo e che la ricorrente avrebbe, altresì, partecipato all’attività di esazione dei crediti, accompagnando la madre presso il negozio della persona offesa (tacendo, però, la totale passività della ricorrente in questi frangenti).
7.2. Violazione di legge in relazione agli artt. 110 e 629 cod. pen., sempre contestandosi l’illogicità della valutazione probatoria anche per il delitto di cui al capo 10. Il solo concorso nel distinto reato di usura e i rapporti parentali con gli altri còrrei, in assenza di condotte violente o minatorie personalmente poste in essere, non consentirebbero di ritenere automaticamente provata anche l’estorsione, in assenza di un concreto contributo causalmente orientato.
7.3. Violazione di legge in relazione all’art. 597, commi 3-4, cod. proc. pen., eccependo la violazione del divieto di reformatio in peius. Nonostante l’esclusione dell’aggravante di cui all’art. 628, terzo comma, n. 3-quater, cod. pen., la Corte territoriale non avrebbe ridotto la pena irrogata dal Giudice dell’udienza preliminare. Il ragionamento dei giudici di appello, che hanno ricostruito il computo del primo grado, assumendo la concessione delle circostanze attenuanti generiche prevalenti, con irrogazione di una pena inferiore ai minimi edittali e priva degli aumenti ex art. 81 cod. pen., non potrebbe comunque incidere sul principio che, all’esito di una condanna per fatti complessivamente meno gravi, dovrebbe seguire una corrispondente diminuzione della pena.
Si è proceduto con trattazione scritta, ai sensi dell’art. 23, comma 8, decreto-legge 28 ottobre 2020, n. 137, convertito nella legge 18 dicembre 2020, n. 176 (applicabile in forza di quanto disposto dall’art. 94, comma 2, decreto legislativo 10 ottobre 2022, n. 150, come modificato, da ultimo, dall’art. 11, comma 7, decreto-legge 30 dicembre 2023, n. 215, convertito con modificazioni dalla legge 23 febbraio 2024, n. 18).
CONSIDERATO IN DIRITTO
Ritiene il Collegio che tutti i ricorsi siano inammissibili, perché proposti con motivi manifestamente infondati, generici e non consentiti, nei termini di seguito illustrati.
L’imputazione ascritta a NOME COGNOME ha formalmente per oggetto «più azioni esecutive di un medesimo disegno criminoso» (ed è espressamente richiamato anche l’art. 81 cod. pen.). Nondimeno, non solo la Corte partenopea, conformemente al Tribunale oplontino, ricostruisce la vicenda in termini di un’unica condotta continuativa e ininterrotta, ma – ciò che è assorbente – il computo dosimetrico non tiene conto di aumenti, né a titolo di continuazione, né per la sussistenza di aggravanti (pure argomentatamente ritenute sussistenti, cfr. pp. 14-15). Il Giudice di primo grado, invero, ha semplicemente applicato a COGNOME la pena di sei anni di reclusione e di euro 4.500 di multa, poi ridotti per la diminuente del rito (p. 57); è evidente, essendo state negate le circostanze attenuanti generiche, come notano già i giudici di appello, che è stata erroneamente applicata la forbice edittale prevista dal primo comma dell’art. 629 cod. pen. (e in misura prossima ai minimi di legge, nonostante fossero stati stigmatizzati «le modalità della condotta, l’intensità del dolo e il grado di colpevolezza»), e non dal secondo comma, pur doverosa per i fatti aggravati ex art. 628, terzo comma, n. 3-quater, cod. pen.
Difetta, pertanto, un interesse attuale e concreto della ricorrente a dolersi sia del mancato frazionamento delle singole condotte, con sussunzione dell’ultima delle quali nell’alveo dell’art. 56 cod. pen., sia della mancata illustrazione delle ragioni poste a fondamento del riconoscimento della suaccennata aggravante. Invero, l’interesse richiesto dall’art. 568, comma 4, cod. proc. pen., sussiste solo se il gravame sia idoneo a determinare, attraverso l’eliminazione di un provvedimento pregiudizievole, una situazione pratica più vantaggiosa per l’impugnante rispetto a quella esistente; pertanto, è inammissibile per carenza di interesse l’impugnazione proposta dall’imputato che deduca l’insussistenza di un’aggravante priva di efficacia rispetto alla determinazione finale della pena (Sez.
6, n. 47498 del 22/09/2015, H.V., Rv. 265242-01. È stato ulteriormente specificato da Sez. 2, n. 26011 del 11/04/2019, COGNOME, Rv. 276117-01 che, in ogni caso, è onere del ricorrente, a pena di inammissibilità, dedurre il proprio interesse concreto ed attuale a sostegno della doglianza).
L’unico motivo formulato con il ricorso di NOME COGNOME non è consentito.
All’esito del concordato in appello, è ammissibile il ricorso in cassazione avverso la sentenza emessa ai sensi dell’art. 599-bis cod. proc. pen..solo qualora si deducano motivi relativi alla formazione della volontà della parte di accedere al concordato in appello, al consenso del Procuratore generale sulla richiesta e al contenuto difforme della pronuncia del giudice. In particolare, non superano la soglia dell’ammissibilità le doglianze relative a motivi rinunciati, alla mancata valutazione delle condizioni di proscioglimento ex art. 129 cod. proc. pen. (Sez. 2, n. 30990 del 01/06/2018, COGNOME, Rv. 272969-01), alle questioni rilevabili d’ufficio (Sez. 5, n. 29243 del 04/06/2018, COGNOME, Rv. 273194-01), all’insussistenza di cause di nullità assoluta o di inutilizzabilità delle prove (Sez. 5, n. 15505 del 19/03/2018, COGNOME, Rv. 272853-01), all’insussistenza di circostanze aggravanti (Sez. 3, n. 30190 del 08/03/2018, COGNOME, Rv. 273755-01).
Invero, in conseguenza dell’effetto devolutivo proprio dell’impugnazione, una volta che l’imputato abbia rinunciato ai motivi di appello, la cognizione del giudice è limitata ai motivi non oggetto di rinuncia (Sez. 5, n. 46850 del 11/11/2022, COGNOME, Rv. 283878-01).
Possono essere esaminate congiuntamente, pur senza sacrificio di un esame specifico delle peculiarità di ciascuna, le doglianze relative a lacune motivazionali ed erronea applicazione delle norme in ordine alla ricostruzione della vicenda storica e alla conseguenti conclusioni in iure, avanzate con il primo motivo del ricorso di NOME COGNOME, con il primo e il secondo motivo del ricorso di NOME COGNOME e con il primo e il secondo motivo del ricorso di NOME COGNOME.
Tutte le suddette censure – non senza evocare in larghissima misura doglianze in fatto non proponibili in questa sede, riproducendo analoghe questioni già devolute in appello e ivi puntualmente esaminate e disattese – sono in sostanza connotate dalla richiesta di un nuovo apprezzamento del materiale probatorio, suggerendo alternative ricostruzioni della vicenda, senza confrontarsi compiutamente con il congruo e tutt’altro che illogico apparato argomentativo offerto dalla Corte di appello. Si chiede, in buona sostanza, di sovrapporre la valutazione della Corte di legittimità a quella dei giudici di merito, ciò che è
impossibile, poiché esula dai poteri della Suprema Corte ogni possibilità di “rilettura” degli elementi di fatto posti a fondamento della decisione, la cui valutazione è, in via esclusiva, riservata al giudice di merito, senza che possa integrare il vizio di legittimità la mera prospettazione di una diversa, e per i ricorrenti più adeguata, valutazione delle risultanze processuali (Sez. U, n. 47289 del 24/09/2003, COGNOME, Rv. 226074-01. Più di recente, Sez. 2, n. 9106 del 12/02/2021, COGNOME, Rv. 280747-01, ha precisato che, in tema di motivi di ricorso per cassazione, non sono deducibili censure attinenti a vizi della motivazione diversi dalla sua mancanza, dalla sua manifesta illogicità, dalla sua contraddittorietà – intrinseca o con atto probatorio ignorato quando esistente, o affermato quando mancante – su aspetti essenziali a imporre diversa conclusione del processo, cosicché sono inammissibili tutte le doglianze che “attaccano” la persuasività, l’inadeguatezza, la mancanza di rigore o di puntualità, la stessa illogicità quando non manifesta, così come quelle che sollecitano una differente comparazione dei significati probatori da attribuire alle diverse prove o evidenziano ragioni in fatto per giungere a conclusioni differenti sui punti dell’attendibilità, dell credibilità, dello spessore della valenza probatoria del singolo elemento. Cfr. anche Sez. 6, n. 2972 del 04/12/2020, dep. 2021,v Rv. 280589-02, secondo cui la manifesta illogicità della motivazione, prevista dall’art. 606, comma 1, lett. e), cod. proc. pen., presuppone che la ricostruzione proposta dal ricorrente e contrastante con il procedimento argomentativo recepito nella sentenza impugnata sia – al contrario che nel caso di specie – inconfutabile e non rappresenti soltanto un’ipotesi alternativa a quella ritenuta in sentenza).
Quanto alle censure inerenti i lamentati vizi di motivazione, è, poi, opportuno osservare, preliminarmente e in via generale, come ai fini del controllo di legittimità – in particolare quando i giudici di secondo grado abbiano confermato la condanna pronunciata in tribunale (cosiddetta “doppia conforme”) – la sentenza di appello, nella sua struttura argomentativa, si salda con quella di primo grado, così da formare un unico complessivo corpo decisionale, esaminando le censure proposte dall’appellante con criteri omogenei a quelli del primo giudice, richiamando i passaggi logico-giuridici della prima sentenza e concordando nell’analisi e nella valutazione degli elementi di prova posti a fondamento della decisione (Sez. 2, n. 37295 del 12/06/2019, E., Rv 277218-01; Sez. 3, n. 44418 del 16/07/2013, COGNOME, Rv 257595-01).
D’altro canto, nella motivazione della sentenza, il giudice del gravame non è tenuto a compiere un’analisi approfondita di tutte le deduzioni delle parti e a prendere in esame dettagliatamente tutte le risultanze processuali, essendo invece sufficiente che, anche attraverso una loro valutazione globale, spieghi, in modo logico e adeguato, le ragioni del proprio convincimento, dimostrando di aver
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tenuto presente ogni fatto decisivo; debbono pertanto considerarsi implicitamente disattese le deduzioni difensive che, anche se non espressamente confutate, siano logicamente incompatibili con la decisione adottata (cfr., . Sez. 6, n. 34532 del 22/06/2021, COGNOME, Rv 281935-01).
4.1. Per quanto attiene alla posizione di NOME, il ricorrente trascura di considerare, in primo luogo, la natura concorsuale della fattispecie. Un oggettivo apporto causale di indiscutibile rilevanza, secondo la doppia conforme argomentazione (pp. 4-5 e 16-17 della sentenza di appello; pp. 44-45 della sentenza di primo grado), risulta da lui offerto – sulla base delle dichiarazioni della persona offesa – mediante il preliminare ausilio fornito alla còrrea COGNOME per reperire il denaro da prestare a COGNOME, con ricompensa di cento euro versata direttamente da quest’ultima nelle mani del ricorrente, e dalla successiva presenza all’interno della propria abitazione, ove si svolsero le reiterate negoziazioni usurarie che qui occupano (ed altre, poiché il domicilio familiare fungeva da «base operativa» delle ramificate attività delinquenziali); tale presenza risulta tutt’altro che sporadica e inerte, dal momento che non solo l’imputato aveva poi accolto settimanalmente la persona offesa, onerata del versamento delle rate usurarie a mani dei creditori, ma aveva «altresì ricevuto, in molteplici occasioni, dazioni di denaro» (ciò che rileva anche in punto di piena consapevolezza della totale illiceità dei rapporti contrattuali e dell’utilità del suo contributo).
Peraltro, la volontà di concorrere non presuppone necessariamente un previo accordo, in quanto l’attività costitutiva del concorso può essere rappresentata da qualsiasi comportamento esteriore che fornisca un apprezzabile contributo, in tutte o alcune fasi di ideazione, organizzazione od esecuzione, alla realizzazione dell’altrui proposito criminoso, talché assume carattere decisivo l’unitarietà del “fatto collettivo” realizzato che si verifica quando le condotte dei concorrenti risultino, alla fine, con giudizio di prognosi postumo, integrate in unico obiettivo, perseguito in varia e diversa misura dagli imputati, sicché è sufficiente che ciascun agente abbia conoscenza, anche unilaterale, del contributo recato alla condotta altrui (Sez. 2, n. 18745 del 15/01/2013, COGNOME, Rv. 255260-01; nello stesso senso, anche Sez. 1, n. 28794 del 15/02/2019, COGNOME, Rv. 276820-01 e Sez. 3, n. 44097 del 03/05/2018, I., Rv. 274126-01).
Infine, è opportuno ribadire che le pronunce emesse in sede di giudizio incidentale per il riesame di misure cautelari (personali e reali) non sono vincolanti nel giudizio di merito, nel quale il giudice conserva integro il potere di valutare gli elementi di prova indipendentemente dall’esito del giudizio cautelare. Quest’ultimo, al pari di qualsiasi decisione adottata in quella sede incidentale, non può dunque travalicarne i limiti, tanto da giungere ad una preclusione imposta al giudice del dibattimento rispetto al potere/dovere di un’autonoma e indipendente
valutazione della prova (Sez. 5, n. 28652 del 11/05/2022, Travaglio, Rv. 28356101; Sez. 3, n. 1125 del 25/11/2020, S., Rv. 280271-01; Sez. 3, n. 4976 del 18/10/2018, COGNOME, Rv. 275694-02).
Il motivo è, dunque, non consentito, mirando a una partigiana e parziale lettura degli elementi di prova, generico, in quanto affatto avulso dalla puntuale motivazione della decisione impugnata, e, comunque, manifestamente infondato.
4.2. Del pari, risultano indifferenti all’effettivo apparato motivazionale della sentenza di appello (e, quindi, insuperabilmente generiche), e, comunque, dirette a un’impossibile rivalutazione delle risultanze istruttorie, le doglianze contenute nel primo e nel secondo motivo di NOME COGNOME.
4.2.1. Il percorso giustificativo dei giudici di appello è assai più ampio e tranquillizzante di quanto emerga apparentemente dalle deduzioni dell’imputata. Muovendo, infatti, dalla originaria corresponsione di un piccolo prestito a titolo gratuito, la Corte napoletana evidenzia in maniera del tutto adeguata l’infondatezza in parte qua del gravame, richiamando l’originaria funzione di intermediaria (ancor più rilevante, essendo stata proprio COGNOME a suggerire di rivolgersi ai figli), la sicura conoscenza di tutti i termini dell’accordo (avendo presenziato alle trattative e alla consegna della somma mutuata, presso l’abitazione della figlia NOME COGNOME), l’attività di riscossione giornaliera pres il negozio di COGNOME, unitamente alla figlia suddetta (anche prelevando generi alimentari, senza pagare alcunché) e i plurimi solleciti telefonici, in caso di ritardo nei pagamenti.
Avuto riguardo alla natura dell’usura quale reato a condotta frazionata o a consumazione prolungata, risultano, quindi, penalmente rilevanti sia la preliminare intermediazione (quale imprescindibile consapevole atto di impulso dell’intera vicenda criminale), sia il positivo espletamento del recupero dei crediti (Sez. 1, n. 17029 del 12/12/2022, dep. 2023, C., Rv. 284402-01; Sez. 5, n. 42849 del 24/06/2014, COGNOME, Rv. 262308-01; Sez. 2, n. 7208 del 06/12/2012, dep. 2013, Novelli, Rv. 254947-01).
4.2.2. Analogamente, reiterando tralaticiamente le pregresse doglianze, la ricorrente non si confronta in concreto con l’adeguata motivazione in ordine al concorso in estorsione.
Lungi dal far conseguire automaticamente la partecipazione a tale delitto dal concorso nell’usura che ne costituisce il presupposto storico, la Corte territoriale, valutando complessivamente l’intera piattaforma probatoria, conclude per la sussistenza di condotte consapevoli da parte di ciascun concorrente, in maniera coordinata e di supporto rispetto alla complessiva azione delittuosa. Nello specifico, vengono congruamente sottolineati, nel quadro di stretto coordinamento tra l’azione di tutti i familiari, i solleciti, anche in termini decisi in caso di rit
pagamenti, alternando le proprie telefonate con gli interventi più espliciti dei figli, e la sicura conoscenza della parallela attività dei còrrei, emersa con chiarezza laddove l’imputata giustificava con la persona offesa il loro operato, insistendo nelle richieste usurarie ed estorsive (e ponendo in essere personalmente specifici atti di intimidazione, quantomeno implicita, quali la spoliazione sistematica di prodotti dal negozio di COGNOME).
4.3. Ad analoghe considerazioni, non può che pervenirsi anche in ordine al primo e al secondo motivo di NOME COGNOME, che risultano ugualmente generici e non consentiti.
4.3.1. Richiamando le considerazioni di ordine generale esposte sub 4.2.1. basti sottolineare come il contributo causale del concorrente possa manifestarsi attraverso forme differenziate e atipiche della condotta criminosa, non solo nel caso di concorso morale, ma anche in quello di concorso materiale, fermo restando l’obbligo del giudice di merito di motivare sulla prova dell’esistenza di una reale partecipazione e di precisare sotto quale forma essa si sia manifestata, in rapporto di causalità efficiente con le attività poste in essere dagli altri concorrenti (Sez. 4, n. 1236 del 16/11/2017, dep. 2018, Raduano, Rv. 271755-01).
Appare, in primo luogo, evidente l’effetto facilitatore dell’avere consentito che l’incontro destinato alle trattative con la persona offesa si svolgesse nel proprio appartamento; con ogni evidenza, un simile incontro, intrinsecamente delicato, richiedeva un luogo che offrisse al contempo riservatezza a tutti i dialoganti, autorevolezza agli usurai e, per chi richiedeva il prestito (avendone usufruito in precedenza a titolo gratuito), un misto di ospitalità e soggezione. La sentenza di appello, senza che la difesa prenda posizione sul punto, attesta anche che la presenza di NOME COGNOME non fu affatto silenziosa, partecipando la ricorrente alla discussione (pp. 11-12); resta, pertanto, esclusa alla radice anche ogni deduzione inerente la pretesa inconsapevolezza del contenuto usurario dell’accordo, con quanto ne consegue in merito alla valutazione della successiva, reiterata riscossione dei ratei presso il panificio (con il solito corredo di atti predazione).
4.3.2. Richiamando le considerazioni di ordine generale esposte sub 4.2.1. quanto alla contestata estorsione in concorso, si ribadisce, alla luce della piena conoscenza della illiceità delle pretese economiche e della natura concorsuale della fattispecie, l’apporto consapevolmente offerto, portando avanti, di concerto con i familiari, le stringenti sollecitazioni, l’intimazione di non sospendere i versamenti e perpetrando regolari appropriazioni della merce, quale ulteriore condotta di intimidazione (pp. 12-13).
5. Per quanto attiene alle doglianze sul mancato rispetto del divieto di reformatio in peius avanzate da NOME COGNOME, può osservarsi, in via generale, come non violi il limite previsto dall’art. 597 cod. proc. pen. il giudice dell’impugnazione che, quando muta l’intera struttura del reato continuato per essere la regiudicanda satellite divenuta la più grave, apporta per uno dei fatti in precedenza unificati dall’identità del disegno criminoso una sanzione maggiore rispetto a quella inflitta dal primo giudice, pur non irrogando una pena complessivamente maggiore (Sez. U, n. 16208 del 27/03/2014, C., Rv. 25865301; Sez. 2, n. 48538 del 21/10/2022, Tiscione, Rv. 284214-01; Sez. 3, n. 1957 del 22/06/2017, dep. 2018, Vallozzi, Rv. 272072-01).
La dosimetria totalmente nuova indicata per NOME – all’esito dell’assoluzione per il più grave delitto di estorsione, con individuazione di una nuova pena base per il residuo reato di cui all’art. 644 cod. pen., in regime di equivalenza rispetto alla contestata aggravante e con la riduzione ex art. 442 cod. proc. pen. – rende affatto irrilevante il fatto che i giudici di appello non si siano parametrati esattamente sui minimi edittali (peraltro, non discostandosene in maniera consistente e, comunque, restando significativamente al di sotto del precedente trattamento sanzionatorio).
Neppure emergono incongruità o lacune motivazionali sul punto. La graduazione della pena rientra nella discrezionalità del giudice di merito, che la esercita, in aderenza ai principi enunciati negli artt. 132 e 133 cod. pen.; ne discende che è inammissibile la censura che, nel giudizio di cassazione, miri ad una nuova valutazione della congruità della pena la cui determinazione non sia frutto di mero arbitrio o di ragionamento illogico (Sez. 5, n. 5582 del 30/09/2013, dep. 2014, Ferrario, Rv. 259142-01), ciò che – nel caso di specie (ove si sottolineano congruamente la durata della condotta e la capacità a delinquere) non ricorre. Invero, una specifica e dettagliata motivazione in ordine alla quantità di pena irrogata è necessaria soltanto se la pena sia di gran lunga superiore alla misura media di quella edittale, potendo altrimenti essere sufficienti a dare conto dell’impiego dei criteri di cui all’art. 133 cod. pen. anche solo espressioni del tipo: “pena congrua”, “pena equa” o “congruo aumento”, come pure il richiamo alla gravità del reato o alla capacità a delinquere (Sez. 2, n. 36104 del 27/04/2017, COGNOME, Rv. 271243-01; Sez. 2, n. 36245 del 26/06/2009, COGNOME, Rv. 24559601).
La sentenza impugnata, infine, ha posto a base del rigetto della richiesta di applicazione della sospensione condizionale della pena argomentazioni logiche e ineccepibili (oltre alla gravità dei fatti e all’inserimento in contesti delinquenziali come già sottolineato in tema di trattamento sanzionatorio, anche un precedente penale). È stato così espressa una sfavorevole prognosi di recidivanza, secondo
un giudizio tipicamente di merito che non scade nell’illogicità quando, come nel caso in esame, la valutazione del giudice non si esaurisca nel giudizio di astratta gravità del reato, ma esamini l’incidenza dell’illecito sulla capacità a delinquere dell’imputato e, quindi, evidenzi aspetti soggettivi della personalità dell’imputato che ne hanno orientato la decisione. Il giudice di merito, nel valutare la concedibilità del beneficio, non ha l’obbligo di prendere in esame tutti gli elementi richiamati nell’art. 133 cod. pen., potendo limitarsi ad indicare quelli da lui ritenuti prevalenti in senso ostativo alla sospensione, ivi compresi i precedenti giudiziari (Sez. 5, n. 17953 del 07/02/2020, Filipache, Rv. 279206-02; Sez. 4, n. 48013 del 12/07/2018, M., Rv. 273995-01).
Il ricorrente, peraltro, cadendo così anche nell’aspecificità della doglianza, non si pone il problema della cumulabilità delle due condanne (l’attuale e la precedente), nei termini di cui all’art. 164, ultimo comma, cod. pen.
Il motivo è, dunque, non consentito, generico e manifestamente infondato.
6. Il Tribunale, infine, ha condannato NOME COGNOME e NOME COGNOME alla pena finale di due anni e sei mesi di reclusione e di euro 5.000 di multa, sulla base di un analogo computo che partiva da una pena base, per il più grave delitto di estorsione di cui al capo 10, di tre anni e quattro mesi di reclusione ed euro 7.500 di multa, già tenuto conto delle circostanze ex art. 62-bis cod. pen. (implicitamente ma chiaramente, come rilevato dalla Corte di appello, giudicate prevalenti, in difetto di considerazione per le numerose aggravanti contestate) e senza procedere ad alcun aumento esplicito per la continuazione con gli ulteriori delitti di usura contestati.
I giudici napoletani hanno rilevato una supposta illegalità in difetto della pena, a fronte di un minimo edittale, per l’ipotesi non circostanziata ex art. 629, primo comma, cod. pen., di cinque anni di reclusione ed euro 1.000 di multa.
La conclusione non è del tutto corretta, dal momento che, per quanto attiene alla pena detentiva, dal minimo edittale di cinque anni di reclusione, si perviene previa applicazione dell’art. 62-bis cod. pen. – ai tre anni e quattro mesi indicati dal Giudice dell’udienza preliminare, di modo che l’ulteriore riduzione per la diminuente del rito avrebbe comportato – qualora si fosse tenuto conto solo del reato più grave – a una pena finale di due anni, due mesi e venti giorni di reclusione. Conclusione necessitata è, dunque, che lo iato, pari a tre mesi e dieci giorni di reclusione, rispetto alla pena concretamente inflitta, deve essere imputato ad aumento, globalmente inteso, ex art. 81 cod. pen.
Nondimeno, l’espunzione di una delle molteplici aggravanti è comunque priva di effetti concreti, dato il regime di prevalenza delle attenuanti generiche, e sarebbe impossibile ridurre ulteriormente la sanzione senza sconfinare
nell’illegalità della pena. Nessuna reformabb in peius può, pertanto, rinvenirsi per quanto attiene al trattamento sanzionatorio del delitto contestato sub 10, l’unico per il quale sono state svolte censure difensive.
Per quel che invece concerne la carenza motivazionale relativamente ai – miti – aumenti irrogati a titolo di continuazione (e, comunque, in generale, la correttezza aritmetica e logico-giuridica della complessiva dosimetria), la catena devolutiva risulta manifestamente interrotta, in difetto di puntuale impugnazione.
I profili di censura articolati nel terzo motivo del ricorso di COGNOME e nel terzo motivo del ricorso di NOME COGNOME sono, in conclusione, aspecifici e manifestamente infondati.
7. I ricorsi devono, pertanto, essere dichiarati inammissibili.
Ai sensi dell’art. 616 cod. proc. pen., i ricorrenti devono essere condannati al pagamento delle spese processuali e, a titolo di sanzione pecuniaria, di una somma in favore della Cassa delle ammende, da liquidarsi equitativamente, valutati i profili di colpa emergenti dall’impugnazione (Corte cost., 13 giugno 2000, n. 186), nella misura indicata in dispositivo.
P.Q.M.
Dichiara inammissibili i ricorsi e condanna i ricorrenti al pagamento delle spese processuali e della somma di euro tremila in favore della Cassa delle ammende.
Così deciso il 31 ottobre 2024
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