Sentenza di Cassazione Penale Sez. 2 Num. 14096 Anno 2024
Penale Sent. Sez. 2 Num. 14096 Anno 2024
Presidente: COGNOME NOME
Relatore: COGNOME NOME
Data Udienza: 28/02/2024
SENTENZA
sui ricorsi proposti da
COGNOME NOME, nato a RAGIONE_SOCIALE il DATA_NASCITA
rappresentato ed assistito dall’AVV_NOTAIO e dall’AVV_NOTAIO, di fiducia e da
COGNOME NOME, nato a RAGIONE_SOCIALE il DATA_NASCITA rappresentato ed assistito dall’AVV_NOTAIO, di fiducia
avverso la sentenza in data 15/06/2023 della Corte di appello di RAGIONE_SOCIALE, quarta sezione penale;
visti gli atti, il provvedimento impugnato e i ricorsi;
preso atto che è stata avanzata rituale richiesta dalle parti di trattazione orale ai sensi degli artt. 611, comma 1-bis cod. proc. pen., 23, comma 8, d.l. 28 ottobre 2020, n. 137, convertito con modificazioni dalla legge 18 dicembre 2020, n. 176, prorogato in forza dell’art. 5-duodecies del d.l. 31 ottobre 2022, n. 162, convertito, con modificazioni, dalla legge 30 dicembre 2022, n. 199 e, da ultimo, dall’art. 17 del d.l. 22 giugno 2023, n. 75, convertito con modificazioni dalla legge 10 agosto 2023, n. 112;
udita la relazione svolta dal consigliere NOME COGNOME;
udita la requisitoria con la quale il Sostituto procuratore generale, NOME COGNOME, ha concluso per la declaratoria di inammissibilità dei ricorsi; udita la discussione delle difese delle parti civili:
RAGIONE_SOCIALE RAGIONE_SOCIALE, con l’AVV_NOTAIO comparso in sostituzione dell’AVV_NOTAIO,
RAGIONE_SOCIALE, con l’AVV_NOTAIO comparso in sostituzione dell’AVV_NOTAIO,
RAGIONE_SOCIALE, con l’AVV_NOTAIO, comparsa in sostituzione dell’AVV_NOTAIO,
RAGIONE_SOCIALE, con l’AVV_NOTAIO comparso in sostituzione dell’AVV_NOTAIO,
RAGIONE_SOCIALE, con l’AVV_NOTAIO comparso in sostituzione dell’AVV_NOTAIO,
RAGIONE_SOCIALE, con l’AVV_NOTAIO comparso in sostituzione dell’NOME COGNOME,
RAGIONE_SOCIALE, con l’AVV_NOTAIO, che hanno depositato conclusioni scritte chiedendo l’inammissibilità o il rigetto dei ricorsi e la liquidazione delle spese sostenute nel grado come da prodotte note spese;
udita la discussione delle difese dei ricorrenti, AVV_NOTAIO e NOME COGNOME per COGNOME NOME e AVV_NOTAIO per COGNOME NOME, che si sono riportati ai motivi di ricorso chiedendone l’accoglimento.
RITENUTO IN FATTO
1. Con sentenza in data 15/06/2023, la Corte d’appello di RAGIONE_SOCIALE confermava la pronuncia di primo grado resa dal Giudice per l’udienza preliminare del Tribunale di RAGIONE_SOCIALE che, in data 14/12/2021, all’esito di giudizio abbreviato aveva condannato NOME COGNOME e NOME COGNOME, rispettivamente alla pena di anni sei di reclusione ed euro 5.000 di multa e di anni cinque, mesi quattro di reclusione ed euro 4.445 di multa, oltre pene accessorie di legge e risarcimento danni a favore delle costituite parti civili per il delitto di cui agii artt. 81, sec comma, 110, 629, 416-bis.1 cod. pen., previa esclusione della circostanza aggravante di cui all’art. 628, terzo comma, n. 1 cod. pen.
In particolare, secondo l’Accusa, il COGNOME e il COGNOME, in concorso tra loro e su direttiva del primo, con più azioni esecutive di un medesimo disegno criminoso, mediante violenza o minaccia, avvalendosi della forza d’intimidazione dell’organizzazione mafiosa denominata “RAGIONE_SOCIALE“, procuravano a sé o ad altri un ingiusto profitto con altrui danno; in particolare, imponevano a NOME COGNOME,
gestore del locale notturno “RAGIONE_SOCIALE” e ad NOME COGNOME, responsabile del servizio di sicurezza, la presenza di NOME COGNOME come operatore della sicurezza durante lo svolgimento delle serate ivi organizzate; con la minaccia consistita nel prospettare gravi ripercussioni laddove non avessero ottemperato alle loro richieste. E segnatamente, il COGNOME interessandosi personalmente dell’impiego del COGNOME contattando NOME COGNOME e chiedendogli di occuparsene; quest’ultimo, inizialmente chiedendo a NOME COGNOME l’impiego del COGNOME per poi imporre perentoriamente la sua assunzione alla COGNOME; il COGNOME godendo del profitto dell’estorsione, ottenendo l’assunzione pressò il locale (fatto commesso in RAGIONE_SOCIALE il 03/12/2016).
Avverso la predetta sentenza, nell’interesse di NOME COGNOME e di NOME COGNOME, sono stati proposti ricorsi per cassazione, i cui motivi vengono di seguito enunciati nei limiti strettamente necessari per la motivazione ex art. 173 disp. att. cod. proc. pen.
3. Ricorso di NOME COGNOME.
3.1. Primo motivo: vizio di motivazione con riferimento agli artt. 192, comma 2, 234 e 546 cod. proc. pen., in quanto la Corte territoriale, pur dando atto all’udienza di discussione delle parti del 16/05/2023 dell’acquisizione, su richiesta della difesa, del dispositivo della sentenza pronunciata nel procedimento ordinario parallelo dal Tribunale di RAGIONE_SOCIALE in data 08/05/2023 nei confronti del coimputato NOME COGNOME (ivi assolto dal medesimo delittò ascritto al COGNOME), omette di darne atto e tenerne conto in sentenza. Non va sottacluto il dato secondo cui NOME COGNOME, nella relativa contestazione estorsiva, avrebbe imposto l’assunzione fissa del COGNOME alla persona offesa NOME COGNOME, deducendosi ciò dal contenuto della intercettazione telefonica n. 635 del 06/01/2017 ore 10.01 intrattenuta da NOME COGNOME con NOME COGNOME (fratello di NOME COGNOME). L’assoluzione di quest’ultimo, nel parallelo procedimento, suggerisce obbligatoriamente di valutare la detta intercettazione in un’ottica escludente qualsivoglia responsabilità del ricorrente.
3.2. Secondo motivo: vizio di motivazione per travisamento della prova in relazione alla mancata analisi dell’intercettazione n. 1775 del 16/01/2017, ore 12.47 intercorsa tra NOME COGNOME e NOME COGNOME; omessa motivazione in ordine alle deduzioni difensive rassegnate nella memoria 16/05/2023 circa l’asserito coinvolgimento come concorrente di NOME COGNOME; omessa motivazione in ordine al contributo causale di quest’ultimo nella commissione del reato; travisamento della prova costituita dall’intercettazione del 18/01/2016.
3.3. Terzo motivo: vizio di motivazione in relazione al mancato esame del terzo motivo di appello, e segnatamente delle ragioni difensive riferite dal COGNOME nel corso dell’interrogatorio di garanzia del 19/09/2019; interpretazione illogica del contenuto dell’intercettazione del 21/12/2016.
3.4. Quarto motivo: illogicità della motivazione nella parte in cui si afferma che i due fratelli COGNOME agirebbero per conto e nell’interesse del COGNOME, con rilevata contraddittorietà delle due sentenze sul punto; violazione di legge in relazione all’art. 546 cod. proc. pen. in ordine ai rapporti di parentela intercorrent tra NOME COGNOME e i fratelli COGNOME.
3.5. Quinto motivo: violazione di legge in relazione alla ritenuta sussistenza della circostanza aggravante di cui all’art. 416-bis. 1 cod. pen. con la concorrenza dell’aggravante di cui all’art. 628, terzo comma, n. 3 cod. pen., e cioè della violenza o minaccia posta in essere da persona appartenente all’associazione di cui all’art. 416-bis cod. pen.
4. Ricorso di NOME COGNOME.
4.1. Primo motivo: violazione di legge e vizio di motivazione in relazione agli artt. 110 cod. pen., 125, 192, 530, comma 2, 533 e 546, comma 1, lett. e), cod. proc. pen. La sentenza di appello ha erroneamente ritenuto configurabile, in capo al COGNOME, il “concorso” nell’estorsione contestata, sebbene l’imputazione non indichi il doveroso “contributo” (materiale e/o morale) che il ricorrente avrebbe fornito ai coimputati, non potendosi considerare tale l’avere “beneficiato” della condotta altrui. Non provato è sia il contributo materiale che quello morale. Al più è stato dimostrato che il COGNOME era a conoscenza che altri si sarebbero adoperati per procurargli un lavoro come “operatore alla sicurezza”; viceversa, ciò che non è stato provato è il coinvolgimento del ricorrente, a qualunque titolo, nella vicenda in esame, a prescindere dalla semplice conoscenza dei fatti ovvero anche della sua mera “adesione morale” ai propositi altrui, condotta, comunque, non punibile.
4.2. Secondo motivo: violazione di legge e vizio di motivazione in relazione agli artt. 610, 629 cod. pen., 125, 192, 530, comma 2, 533, 546, comma 1, lett. e), cod. proc. pen. La stessa sentenza impugnata riconosce che la proprietaria del locale non ha assunto un ulteriore operatore della sicurezza rispetto ai cinque già impiegati nel locale, ma ha utilizzato il metodo della c.d. “turnazione”, mantenendo di fatto inalterato il numero dei dipendenti e le spese da sostenere per il servizio. Di tal che, la fattispecie è al più sussumibile sotto la diversa figura della violenza privata, già riconosciuta in giurisprudenza (Sez. 2, n. 27556 del 17/05/2019, Amico, Rv. 276118) allorchè la minaccia posta in essere dall’agente abbia ad oggetto la richiesta di riassunzione presso un cantiere di lavoro dal quale era stato
precedentemente licenziato atteso che tale minaccia, pur essendo diretta al conseguimento di un ingiusto profitto, non arreca alcun danno ingiusto alla vittima, che dovrebbe retribuire l’attività lavorativa che si intende effetl:ivamente prestata, ma si limita a comprimerne l’autonomia contrattuale con l’imposizione di una posizione lavorativa regolare.
4.3. Terzo motivo: violazione di legge e vizio di motivazione in relazione agli artt. 110, 416-bis. 1, 629 cod. pen., 125, 192, 530, comma 2, 533, 546, comma 1, lett. e), cod. proc. pen. La sentenza impugnata appare manifestamente illogica avendo fondato la propria ricostruzione degli accadimenti sulla base non già di prove e neppure di indizi, bensì di mere congetture e di supposizioni, peraltro smentite da atti probatori acquisiti al fascicolo e, come tali, utilizzabili ai fini decisione.
4.4. Quarto motivo: violazione di legge e vizio di motivazione in relazione agli artt. 62 – bis, 132, 133, 416-bis. 1 e 629 cod. pen., 125 e 546, comma 1, lett. e), cod. proc. pen. Si eccepisce violazione dell’art. 416-bis. 1 cod. pen. nonché dell’art. 62 -bis cod. pen. e si segnala inoltre come la determinazione della pena detentiva-base da cui era partito il calcolo per la determinazione della pena finale non fosse pari al minimo edittale: statuizione, questa, non ,assistita da alcuna motivazione sul punto; al riguardo, si evidenzia come il primo giudice avesse applicato una pena base pari ad anni sei di reclusione, precisando che era stata fatta applicazione della disciplina anteriore alla riforma del 2017, ancorchè la pena detentiva base per il reato di estorsione semplice ante riforma Orlando (art. 629, primo comma, cod. pen.) prevedesse – e prevede tuttora – una forbice edittale che va da cinque a dieci anni di reclusione.
CONSIDERATO IN DIRITTO
1. I ricorsi sono infondati – in relazione a talune censure in modo manifesto – e, come tali, immeritevoli di accoglimento.
2. Va evidenziato in premessa come il giudice di appello, in presenza di una “doppia conforme”, nella motivazione della sentenza, non è tenuto a compiere un’analisi approfondita di tutte le deduzioni delle parti e a prendere in esame dettagliatamente ogni risultanza processuale, essendo invece sufficiente che, anche attraverso una valutazione globale, egli spieghi, in modo logico e adeguato, le ragioni del proprio convincimento, dimostrando di aver tenuto presente i fatti decisivi. Ne consegue che in tal caso debbono considerarsi implicitamente disattese le argomentazioni difensive che, anche se non espressamente confutate, siano logicamente incompatibili con la decisione adottata (cfr., Sez. 1, n. 37588
del 18/06/2014, COGNOME, Rv. 260841; Sez. 3, n. 8065 del 21/09/2018, dep. 2019, C., Rv. 275853; Sez. 2, n. 46261 del 18/09/2019, COGNOME, Rv. 277593; Sez. 2, n. 31920 del 04/06/2021, Alampi, Rv. 281811, non mass. sul punto).
Inoltre, la presenza di una criticità su una delle molteplici valutazioni contenute nel provvedimento impugnato, laddove le restanti offrano ampia rassicurazione sulla tenuta del ragionamento ricostruttivo, non può comportare l’annullamento della decisione per vizio di motivazione, potendo lo stesso essere rilevante solo quando, per effetto di tale critica, all’esito di una verifica s completezza e globalità del giudizio operato in sede di merito, risulti disarticolato uno degli essenziali nuclei di fatto che sorreggono l’impianto della decisione (cfr., Sez. 2, n. 37709 del 26/09/2012, COGNOME, Rv. 253445; Sez. 6, n. 3724 del 25/11/2015, dep. 2016, COGNOME, Rv. 267723; Sez. 1, n. 46566 del 21/02/2017, M., Rv. 271227). Neppure la mancata enunciazione delle ragioni pier le quali il giudice ritiene non attendibili le prove contrarie, con riguardo all’accertamento dei fatti e delle circostanze che si riferiscono all’imputazione, determina la nullità della sentenza d’appello per mancanza di motivazione, se tali prove non risultano decisive e se il vaglio sulla loro attendibilità possa comunque essere ricavato per relationem dalla lettura della motivazione (cfr., Sez. 3, n. 8065 del 21/09/2018, dep. 2019, C., Rv. 275853; Sez. 2, n. 26870 del 12/05/2022, NOME, non mass.).
3. Ricorso di NOME COGNOME.
3.1. Il primo motivo è infondato.
Lamenta il ricorrente che la Corte territoriale avrebbe omesso di considerare la portata del dispositivo della sentenza assolutoria emessa nei confronti di NOME COGNOME, concorrente nello stesso fatto addebitato al COGNOME: la pronunzia assolutoria non considerata non avrebbe non potuto riverberarsi nei confronti del ricorrente che, secondo la ricostruzione operata dalle due sentenze oggetto d’impugnazione, insieme al COGNOME avrebbe realivato il medesimo delitto, quest’ultimo in qualità di esecutore materiale, su mandato del RAGIONE_SOCIALE.
3.1.1. Lo stesso ricorrente riconosce che, vertendosi in tema di prova documentale ex art. 234 cod. proc. pen., dalla predetta sentenza non poteva trarsi la prova dei fatti in essa descritti, essendo la piena valenza probatoria riservata dalla legge alle sole sentenze divenute irrevocabili ex art. 238-bis cod. proc. pen.; purtuttavia, il giudice – assume il ricorrente – avrebbe potuto, sulla base del proprio convincimento, trarre dall’atto elementi di giudizio anche favorevoli all’imputato finalizzati al perseguimento del fine primario del processo penale, costituito dall’accertamento della verità.
3.1.2. Non ignora il Collegio la presenza di precedenti giurisprudenziali di legittimità secondo cui l’assoluzione nei confronti di alcuni dei concorrenti nel reato
per insussistenza del fatto, pur non essendo vincolante alla luce del principio del libero convincimento, tuttavia obbliga il giudice che emette o conferma sentenza di condanna nei confronti di ulteriore e diverso concorrente ad analizzare gli elementi motivazionali valorizzati nell’altro processo per pervenire alla decisione liberatoria e ad evidenziare le ragioni e gli indizi, diversi ed ulteriori, in base quali giunge ad opposta soluzione (cfr., Sez. 2, n. 29517 del 17/06/2015, COGNOME, Rv. 264432, nella cui parte motiva si precisa che l’esigenza di specifici riferimenti motivazionali sussiste anche quando la condanna sia emessa all’esito di rito abbreviato e l’assoluzione sia stata pronunciata a conclusione di giudizio ordinario; nello stesso senso, Sez. 2, n. 17021 del 29/03/2022, Dori, Rv. 283117).
3.1.3. Ritiene tuttavia il Collegio che detti precedenti non siano validamente evocabili nella fattispecie, per almeno due decisive ragioni: la prima, perché il documento acquisito e non considerato dalla Corte territoriale era il solo dispositivo di decisione e non il testo integrale della sentenza, circostanza non di poco momento in quanto non consente di ostendere le ragioni alla base di quel decisum; poi, perché l’assoluzione è stata pronunciata non per l’insussistenza del fatto ma per la ritenuta estraneità allo stesso da parte del concorrente già giudicato.
Il “silenzio” sul punto da parte della Corte territoriale, pertanto, deve ritenersi pienamente giustificato ed assolutamente improduttivo delle conseguenze indicate dal ricorrente.
Da qui l’affermazione del seguente principio di diritto: “L’assoluzione del concorrente nel reato, giudicato separatamente, per riconosciuta estraneità al fatto, decisione documentata dal solo dispositivo di decisione di primo grado e non dal testo della sentenza non ancora depositata, non vincola in alcun modo il giudice chiamato a pronunciarsi nei confronti di altro concorrente a considerare l’effetto di tale decisione sulla propria sentenza di condanna”.
3.2. Manifestamente infondati sono sia il secondo che il terzo che il quarto motivo di ricorso, trattabili congiuntamente per la sostanziale sovrapponibilità delle censure proposte.
3.2.1. Dopo aver nuovamente ricordato che, nella fattispecie, si è in presenza di c.d. “doppia conforme”, con la conseguenza che le due sentenze di merito possono essere lette congiuntamente costituendo un unico corpo decisionale, essendo stati rispettati i parametri del richiamo della pronuncia di appello a quella di primo grado e dell’adozione – da parte di entrambe le sentenze – dei medesimi criteri nella valutazione delle prove (cfr., Sez. 3, n. 44418 del 16/07/2013, COGNOME, Rv. 257595; Sez. 2, n. 37295 del 12/06/2019, E., Rv. 277218), si evidenzia come la censura proposta tenda a sottoporre al giudizio di legittimità aspetti attinenti alla ricostruzione del fatto e all’apprezzamento de materiale probatorio rimessi alla esclusiva competenza del giudice di merito.
Invero, non rientra nei poteri del giudice di legittimità quello di effettuar una rilettura degli elementi storico-fattuali posti a fondamento del motivato apprezzamento al riguardo svolto nell’impugnata decisione di merito, essendo il relativo sindacato circoscritto alla verifica dell’esistenza di un logico apparato argomentativo sui vari aspetti o segmenti del percorso motivazionale ivi tracciato: verifica il cui esito non può che dirsi positivamente raggiunto nel caso in esame.
3.2.2. Le doglianze difensive contenute nel secondo, nel terzo e nel quarto motivo di ricorso non sono idonee ad infirmare la ragionevolezza del complessivo risultato probatorio tratto dalla ricostruzione della vicenda operata nell’ultima decisione di merito, per la semplice ragione che esse tendono a (nuovamente) prospettare un’alternativa, e come tale non consentita nella presente sede, rivisitazione del fatto oggetto del correlativo tema d’accusa, ovvero ad invalidarne elementi di dettaglio o di contorno, lasciando inalterata la consistenza delle ragioni giustificative a sostegno della pronuncia di responsabilità.
La Corte territoriale, con motivazione del tutto congrua ed esente da vizi logico-giuridici, ha riconosciuto come non possano sussistere dubbi in ordine alla sussistenza della penale responsabilità del COGNOME, il quale, attraverso l’intermediazione dei fratelli COGNOME e la sua influenza, dovuta alla propria caratura criminale, per il mezzo di minacce velate e non, imponeva l’assunzione del cognato (COGNOME) sia alla proprietaria che all’addetto alla sicurezza del locale “RAGIONE_SOCIALE“.
3.3. Manifestamente infondato oltre che in totale carenza di interesse per il proponente è il quinto motivo.
Invero, l’aggravante di cui all’art. 628, comma terzo, n. 3 cod. pen. risulta essere stata espressamente esclusa dal giudice di primo grado, con conseguente inesistenza del denunciato concorso di aggravanti.
Ricorso di NOME COGNOME.
4.1. Infondato è il primo motivo.
4.1.1. La sentenza impugnata riconosce il concorso del COGNOME nella condotta estorsiva in contestazione.
In particolare, la Corte territoriale, dopo aver evidenziato che in tema di concorso di persone nel reato, la circostanza che il contributo causale del concorrente morale possa manifestarsi attraverso forme differenziate ed atipiche della condotta criminosa non esime il giudice di merito dall’obbligo di motivare sulla prova dell’esistenza di una reale partecipazione nella fase ideativa o preparatoria del reato e di precisare sotto quale forma essa si sia manifestata, in rapporto di causalità efficiente con le attività poste in essere dagli altri concorrent non potendosi confondere l’atipicità della condotta criminosa concorsuale, pur
prevista dall’art. 110 cod. pen., con l’indifferenza probatoria circa le forme concrete del suo manifestarsi nella realtà (cfr., Sez. U, n. 45276 del 30/10/2003, COGNOME, Rv. 226094; Sez. 2, n. 43067 del 13/10/2021, COGNOME, Rv. 282295), ha precisato come il processo avesse consentito di accertare che:
-dopo le lamentele manifestate dal COGNOME ad NOME COGNOME ed al conseguente incontro organizzato alla presenza del cognato (COGNOME), il COGNOME “calcava la mano” nei confronti della COGNOME e del COGNOME, dettando alla prima la linea organizzativa da seguire nella gestione dei buttafuori ed imponendo al secondo di omettere qualsiasi altra forma di opposizione all’impiego stabile del COGNOME;
-una volta invitato dal COGNOME a comportarsi come “padrone” del locale di proprietà della COGNOME, il COGNOME, lungi dal manifestare dissenso o ritrosie, accettava senza remore il suo ruolo e, di fatto, iniziava ad esercitarlo;
-il COGNOME, per tutta la durata dei fatti di causa, ha sempre goduto di un trattamento di favore imposto dall’alto, non omettendo di rappresentare ai suoi “tutori” eventuali criticità, così dimostrando piena consapevolezza, coscienza e volontà di concorrere nella realizzazione del reato, partecipando, altresì alla fase di esecuzione e di ideazione dell’illecito ed innescandosi appieno all’interno del decorso causale.
4.1.2. Ritiene il Collegio come, indipendentemente dal ruolo effettivamente assunto dal Di COGNOME, lo stesso fosse pienamente consapevole ed avesse previamente accettato che la condotta dei concorrenti si dispiegasse al fine – unico ed ultimo – di garantire la sua assunzione lavorativa, con le modalità contestate e pienamente accertate, presso il locale “RAGIONE_SOCIALE“.
In tal senso si è affermato che, ai fini della configurabilità della condotta concorsuale, carattere decisivo riveste l’unitarietà del “fatto collettivo” realizzato che si verifica quando le condotte dei concorrenti risultino, con Igiudizio di prognosi postumo, integrate in unico obiettivo, perseguito in varia e diversa misura dagli agenti, sicché è sufficiente che ciascuno di essi abbia conoscenza, anche unilaterale, del contributo recato alla condotta altrui (cfr., Sez. U, n. 31 de 22/11/2000, dep. 2001, COGNOME, Rv. 218525; Sez. 6, n. 46309 del 09/10/2012, COGNOME, Rv. 253984; Sez. 2, n. 18745 del 15/01/2013, COGNOME, Rv. 255260; Sez. 1, n. 15860 del 09/12/2014, COGNOME, Rv. 263089; Sez. 3, n. 44097 del 03/05/2018, I., Rv. 274126; Sez. 2, n. 44859 del 17/10/2019, COGNOME, Rv. 277773).
4.1.3. Fermo quanto precede, la circostanza che nella contestazione al COGNOME sia formalmente attribuito il “solo” godimento finale del profitto dell’estorsione, non elide affatto l’esistenza cli un suo concorso materiale nella realizzazione del fatto di reato. E ciò in quanto il contributo del correo nel reato di
estorsione può – come nella fattispecie – presupporre l’adesione iniziale alla condotta di violenza o minaccia altrui ed inserirsi anche solo nella parte finale dell’attività delittuosa (assunzione come lavoratore dipendente e conseguente riscossione degli emolumenti), in presenza dir una deliberata consapevolezza del comune intento delittuoso nonchè del portato delle condotte altrui in relazione alle quali il ruolo del “riscossore finale”, solo apparentemente unico beneficiario dell’azione concorsuale, si configura come decisiva, e non solo agevolativa, per la configurabilità del delitto (cfr., Sez. 1, n. 41177 del 24/11/2006, COGNOME Vecchio, Rv. 235997, secondo cui il concorso nel reato di estorsione sussiste anche quando il contributo causale del correo sia limitato alla fase finale della riscossione dei proventi, in quanto nella fattispecie plurisoggettiva l’attività antigiuridica ciascuno, ponendosi inscindibilmente con quella di altri correi, confluisce in un’azione delittuosa che va considerata unica e produce l’effetto di far ritenere giuridicamente attribuibile a ciascuno dei concorrenti il risultato finale dell’evento cagionato).
4.2. Manifestamente infondato è il secondo motivo.
4.2.1. Le sentenze di merito hanno accertato che se la COGNOME decise di impiegare stabilmente all’interno del suo locale il COGNOME (in un compito peraltro particolarmente delicato in relazione al quale l’intuitus personae assume particolare importanza), ciò è avvenuto solo a seguito delle pressioni esercitate sulla stessa dagli imputati COGNOME e COGNOME. In particolare, è stato accertato come NOME COGNOME avesse imposto alla proprietaria del “Relor di convocare ben sette buttafuori (in luogo dei cinque preesistenti, decisi dalla proprietà), al fine far uscire il posto del COGNOME.
Assume il ricorrente come non vi possa essere stato danno della pretesa vittima in quanto la stessa avrebbe fatto uso del metodo della “turnazione”, mantenendo di fatto inalterato il numero dei dipendenti e le spese da sostenere per il servizio.
Il rilievo non è decisivo per escludere la configurabilità del danno nel reato contestato.
4.2.2. Invero, da tempo la giurisprudenza riconosce che nell’estorsione contrattuale o negoziale, che – come nella fattispecie – si realizza allorquando al soggetto passivo sia imposto di porsi in rapporto negoziale di natura patrimoniale con l’agente o con altri soggetti, l’elemento dell’ingiusto profitto con altrui danno è implicito nel fatto stesso che il contraente-vittima sia costretto al rapporto i violazione della propria autonomia negoziale, impedendogli di perseguire i propri interessi economici nel modo e nelle forme ritenute più confacenti ed opportune, rimanendo irrilevante il profilo di danno economico eventualmente subìto (cfr., Sez. 6, n. 10453 del 05/02/2001, Brancaccio, Rv. 218433; Sez. 6, n. 46058 del
14/11/2008, COGNOME, Rv. 241924; Sez. 6, n. 9185 del 25/01/2012, COGNOME, Rv. 252283; Sez. 6, n. 48461 del 28/11/2013, COGNOME, Rv. 258168; Sez. 5, n. 9429 del 13/10/2016, dep. 2017, COGNOME, Rv. 269364; Sez. 2, n. 39722 del 12/07/2018, COGNOME, Rv. 273810): cosa avvenuta nella fattispecie, avendo la COGNOME perso, in conseguenza dell’azione dei correi, il potere di amministrare autonomamente la propria impresa finendo “per rimanere supinamente condizionata dalle richieste del COGNOME (il quale addirittura arrivava a dettare le parole che avrebbe dovuto usare la donna con il COGNOME), tanto da essere costretta a bypassare le decisioni assunte dall’addetto alla sicurezza di sua fiducia. Senza contare che, l’impiego in pianta stabile del COGNOME, comportava un danno anche al COGNOME, costretto a rinunciare alla provvigione derivante dall’utilizzo di uno dei buttafuori di sua fiducia, costretti a turnare, per poter far post all’imputato”.
4.3. Generico e comunque manifestamente infondato è il terzo motivo.
Si è anche qui in presenza di censure in fatto che tendono ad una rilettura di merito non consentita nella presente sede di legittimità.
4.3.1. In sostanza, il ricorrente contesta le conclusioni a cui sono pervenuti i giudici di merito e denuncia al contempo violazione di legge e vizio di motivazione ritenendo violati i disposti degli artt. 192 e 546, comma 1, lett. e), cod. proc. pen.
4.3.2. In realtà, ritiene il Collegio che, lungi dal delineare un effettivo viz di legittimità, le doglianze articolate nel presente motivo di ricorso finiscono per contestare il giudizio di responsabilità, ovvero il risultato probatorio cui son approdati i giudici di merito che, con valutazione conforme delle medesime emergenze istruttorie, sono stati concordi nel ritenere al contrario tali elementi pienamente e integralmente riscontrati all’esito della ricostruzione della concreta vicenda processuale. Ed in effetti, è utile ribadire che, ai fini della corret deduzione del vizio di violazione di legge di cui all’art. 606, comma 1, lett. b) cod. proc. pen., il motivo di ricorso deve strutturarsi sulla contestazione della riconducibilità del fatto – come ricostruito dai giudici di merito – nella fattispe astratta delineata dal legislatore; altra cosa, invece, è, come accade sovente ed anche nel caso di specie, sostenere che le emergenze istruttorie acquisite siano idonee o meno a consentire la ricostruzione della condotta di cui si discute in termini tali da ricondurla al paradigma legale. Nel primo caso, infatti, viene effettivamente in rilievo un profilo di violazione di legge laddove si deduce l’erroneità dell’opera di “sussunzione” del fatto (non suscettibile di essere rimessa in discussione in sede di legittimità) rispetto alla fattispecie astratta; nel secondo caso, invece, la censura si risolve nella contestazione della possibilità di enucleare, dalle prove acquisite, una condotta corrispondente alla fattispecie tipica che è, invece, operazione prettamente riservata al giudice di merito.
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4.3.3. Con le censure ivi svolte, il ricorrente contesta, in sostanza, l’approdo decisionale cui sono pervenuti i giudici di merito nell’affermare la penale responsabilità dello stesso, sottoponendo alla Corte una serie di argomentazioni che si risolvono – come detto – nella formulazione di una diversa ed alternativa ricostruzione dei fatti posti a fondamento della decisione.
Al giudice di legittimità resta, infatti, preclusa, in sede di controllo sul motivazione, la pura e semplice rilettura degli elementi di fatto posti a fondamento della decisione o l’autonoma adozione di nuovi e diversi parametri di ricostruzione e valutazione dei fatti, preferiti a quelli adottati dal giudice di merito, perc ritenuti maggiormente plausibili o dotati di una migliore capacità esplicativa. Queste operazioni trasformerebbero, infatti, la Suprema Corte nell’ennesimo giudice del fatto e le impedirebbero di svolgere la peculiare funzione assegnatale dal legislatore di organo deputato a controllare che la motivazione dei provvedimenti adottati dai giudici di merito (a cui le parti non prestino autonomamente acquiescenza) rispettino sempre uno standard di intrinseca razionalità e di capacità di rappresentare e spiegare l’iter logico seguito dal giudice per giungere alla decisione. Può quindi affermarsi che, anche a seguito delle modifiche dell’art. 606, comma 1, lett. e), cod. proc. pen., ad opera dell’art. 8 della I. n. 46 del 2006, “mentre non è consentito dedurre il travisamento del fatto, stante la preclusione per il giudice di legittimità di sovrapporre la propri valutazione delle risultanze processuali a quella compiuta nei precedenti gradi di merito, è invece, consentito dedurre il vizio di travisamento della prova, che ricorre nel caso in cui il giudice di merito abbia fondato il proprio convincimento su una prova che non esiste o su un risultato di prova incontestabilmente diverso da quello reale, considerato che in tal caso, non si tratta di reinterpretare gli elementi di prova valutati dal giudice di merito ai fini della decisione, ma di verificare s detti elementi sussistano” (Sez. 5, n. 39048 del 25/09/2007, COGNOME, Rv. 238215). Corte di Cassazione – copia non ufficiale
4.3.4. Pertanto, il sindacato di legittimità non ha per oggetto la revisione del giudizio di merito, bensì la verifica della struttura logica del provvedimento e non può quindi estendersi all’esame ed alla valutazione degli elementi di fatto acquisiti al processo, riservati alla competenza del giudice di merito, rispetto alla quale la Suprema Corte non ha alcun potere di sostituzione al l’ine della ricerca di una diversa ricostruzione dei fatti in vista di una decisione alternativa. Nè la Suprema Corte può trarre valutazioni autonome dalle prove o dalle fonti di prova, neppure se riprodotte nel provvedimento impugnato. Invero, solo l’argomentazione critica che si fonda sugli elementi di prova e sulle fonti indiziarie contenuta nel provvedimento impugnato può essere sottoposto al controllo del giudice di legittimità, al quale spetta di verificarne la rispondenza alle regole della
logica, oltre che del diritto, e all’esigenza della completezza espositiva (Sez. 6, n. 40609 del 01/10/2008, COGNOME, Rv. 241214).
4.3.5. La medesima giurisprudenza di legittimità considera, inoltre, inammissibile il ricorso per cassazione fondato su motivi che si risolvono nella pedissequa reiterazione di quelli già dedotti in appello e motivatamente disattesi dal giudice di merito, dovendosi gli stessi considerare non specifici ma soltanto apparenti, in quanto non assolvono la funzione tipica di critica puntuale avverso la sentenza oggetto di ricorso (v., tra le tante, Sez. 5, n. 25559 del 15/06/2012, COGNOME; Sez. 6, n. 22445 del 08/05/2009, COGNOME, Rv. 244181; Sez. 5, n. 11933 del 27/01/2005, NOME, Rv. 231708).
4.4. Aspecifico e comunque manifestamente infondato è il quarto motivo in relazione a tutte le articolazioni di censura proposte.
4.4.1. L’aggravante del metodo mafioso è stata ritenuta con motivazione del tutto congrua e priva di vizi logico-giuridici.
In tal senso, la Corte territoriale ha evidenziato come “al fine di costringere le persone offese a sottostare alle proprie direttive, gli agenti hanno fatto largo utilizzo di intimidazioni, sia esplicite che implicite, le quali, rievocan l’atteggiamento tipico del fare mafioso rievoca inequivocabilmente il metodo mafioso l’intercettazione del 05/01/2017, allorquando COGNOME NOME esortava COGNOME NOME a comportarsi come se fosse il “padrone” del locale altrui, senza avere “pietà per nessuno” del pari espressive dell’atteggiamento mafioso sono le parole di COGNOME NOME, intercettate in data 13/01/2017, quando, parlando con COGNOME, utilizzava toni perentori, quali “ha messo in conto che lo paghi a NOME a parte tu stop … NOME deve scendere … argomento chiuso”. Senza contare che, di certo, la vicinanza del COGNOME agli ambienti criminali ha contribuito alla sua assunzione, dal momento che tutti i buttafuori, escussi a sommarie informazioni, compreso il COGNOME, hanno affermato che la “riserva di posto”, dettata a favore dell’imputato, derivava dal suo vincolo di parentela con il COGNOME In ultimo, rileva la Corte come, sebbene le minacce cui più volte si è fatto riferimento siano state materialmente perpetrate da COGNOME NOME, la circostanza de qua è certamente estendibile ad entrambi gli imputati, ai sensi degli artt. 59, 70 e 118 cod. pen.”.
Con queste argomentate valutazioni il ricorrente omette di confrontarsi, preferendo la “strada”, conducente all’inammissibilità, della sostanziale reiterazione del motivo di gravame.
4.4.2. Del tutto insindacabile in questa sede è il diniego di riconoscimento delle circostanze attenuanti generiche in presenza di motivazione discrezionale ampiamente giustificata (cfr., Sez. 6, n. 42688 del 24/0912008, COGNOME, Rv.
242419; Sez. 2, n. 3609 del 18/01/2011, Sermone, Rv. 249163; Sez. 6, n. 34364 del 16/06/2010, Giovane, Rv. 248244).
L’immeritevolezza del COGNOME viene motivata evidenziando l’ “elevato disvalore penale e sociale, derivante dal fatto che i coimputati abbiano di fatto assunto, attraverso forme di coercizione e minaccia, la gestione del servizio di sicurezza di un famoso locale della movida palermitano, imponendo l’impiego di un soggetto, per di più carente della necessaria professionalità. Il che, oltre a cagionare un rilevante danno alle vittime dell’illecito … ha rischiato compromettere la sicurezza dei soggetti, che partecipavano agli eventi, organizzati all’interno del locale. D’altro canto, si pone da ostacolo all’accoglimento della doglianza l’atteggiamento fortemente prevaricatore posto in essere, in quanto gli imputati hanno imposto il loro volere su una società altrui, oltrepassando con la prepotenza le legittime resistenze, incontrate durante l’esecuzione del reato Il COGNOME è soggetto gravato da precedenti non sussistono elementi positivamente valutabili al fine di riconoscere alcun trattamentò di favore …”.
4.4.3. La pena detentiva, nei confronti del COGNOME, risulta essere stata così determinata: pena base, anni sei di reclusione, aumentata di un terzo per l’aggravante del metodo mafioso e fissata in anni otto di reclusione, diminuita per il rito abbreviato ad anni cinque, mesi quattro di reclusione. Pena che già il giudice di primo grado aveva ritenuto adeguata ai parametri di cui all’art. 133 cod. pen., in ragione della personalità dell’imputato e delle modalità del fatto.
Il modesto scostamento dal minimo edittale della pena detentiva base (anni sei di reclusione, a fronte di un minimo di anni cinque) risulta rientrare nella consentita valutazione di discrezionalità del giudice che esercita il suo potere, anche in relazione alla fissazione della pena base per il successivo calcolo della misura finale in aderenza ai principi enunciati negli artt. 132 e 133 cod. pen. Ne discende che è inammissibile la censura che, nel giudizio di c:assazione, miri ad una nuova valutazione della congruità della pena la cui determinazione non sia frutto di mero arbitrio o di ragionamento illogico (Sez. 5, n. 5582 del 30/09/2013, dep. 2014, Ferrario, Rv. 259142), ciò che – nel caso di specie non ricorre.
Invero, una specifica e dettagliata motivazione in ordine alla quantità di pena irrogata, specie in relazione alle diminuzioni o aumenti per circostanze, è necessaria soltanto se la pena sia di gran lunga superiore alla misura media di quella edittale, potendo altrimenti essere sufficienti a dare conto dell’impiego dei criteri di cui all’art. 133 cod. pen. le espressioni del tipo: “pena congrua”, “pena equa” o “congruo aumento”, come pure il richiamo alla gravità del reato o alla capacità a delinquere (Sez. 2, n. 36245 del 26/06/2009, Denaro, Rv. 245596).
Infine, l’operato riferimento alla legge n. 103/2017 – che ha modificato il secondo comma dell’art. 629 cod. pen. e non il primo – che per il ricorrente
dimostrerebbe come il giudice, errando, avesse inteso applicare il minimo della pena detentiva (pari, appunto, ad anni sei) dell’art. 629, secondo comma, cod. pen. e non il minimo dell’ipotesi delittuosa non aggravata, non solo non si riverbera sulla correttezza della decisione, ma non consente nemmeno di trarre le ipotizzate conclusioni difensive, alla luce dell’operata valutazione del fatto come di non modesto allarme sociale tenuto conto delle modalità del fatto e della personalità dei rei: circostanze che ben potevano giustificare il – complessivamente – modesto scostamento dal minimo edittale.
Alla pronuncia consegue, per il disposto dell’art. 616 cod. proc. pen., la condanna dei ricorrenti al pagamento delle spese processuali. Gli imputati vanno altresì condannati, in solido tra loro, alla rifusione delle spese cli rappresentanza e difesa sostenute nel presente giudizio dalle parti civili. Spese che, tenuto conto delle attività svolte e delle richieste presentate, vanno liquidate negli importi d seguito indicati:
-a RAGIONE_SOCIALE e a RAGIONE_SOCIALE, che liquida in complessivi euro 4.117 per ciascuna (euro 3.167, con maggiorazione del 30%, pari ad euro 950),
-a RAGIONE_SOCIALE – RAGIONE_SOCIALE, a RAGIONE_SOCIALE e a RAGIONE_SOCIALE, che liquida in complessivi euro 4.791 per ciascuna (euro 3.686, con maggiorazione del 30%, pari ad euro 1.105),
-a RAGIONE_SOCIALE, euro 4.563 (euro 3.510, con maggiorazione del 30%, pari ad euro 1.053),
-a RAGIONE_SOCIALE, euro 3.686,
importi, tutti, che vanno maggiorati degli accessori di legge.
P.Q.M.
Rigetta i ricorsi e condanna i ricorrenti al pagamento delle spese processuali. Condanna, inoltre, gli imputati, in solido tra loro, alla rifusione delle spese d rappresentanza e difesa sostenute nel presente giudizio dalle parti civili RAGIONE_SOCIALE, RAGIONE_SOCIALE, che liquida in complessivi 4.117 per ciascuna; dalle parti civili RAGIONE_SOCIALE, RAGIONE_SOCIALE e RAGIONE_SOCIALE, che liquida in complessivi 4.791 per ciascuna parte civile; in favore della parte civile RAGIONE_SOCIALE, che liquida in complessivi euro 4.563; in favore della parte civile RAGIONE_SOCIALE che liquida in complessivi euro 3.686; importi maggiorati per tutti dagli accessori di legge.
Così deciso in Roma il 28/02/2024.