Sentenza di Cassazione Penale Sez. 5 Num. 34984 Anno 2025
Penale Sent. Sez. 5 Num. 34984 Anno 2025
Presidente: NOME COGNOME
Relatore: COGNOME NOME
Data Udienza: 19/09/2025
SENTENZA
sul ricorso proposto da: COGNOME NOME nato a Borgomanero (NO) il DATA_NASCITA avverso la sentenza del 19/02/2025 della Corte d’ appello di Torino; visti gli atti, il provvedimento impugnato e il ricorso; udita la relazione svolta dal Consigliere, NOME COGNOME; lette le conclusioni del Pubblico Ministero, in persona del sostituto Procuratore Generale, NOME AVV_NOTAIO, che ha concluso per il rigetto del ricorso; lette le conclusioni del difensore dell’imputato, AVV_NOTAIO, che ha insistito per il suo accoglimento.
RITENUTO IN FATTO
Il Tribunale di Novara, con sentenza del 9/7/2024, ha condannato COGNOME NOME (titolare della ditta individuale fallita, “RAGIONE_SOCIALE“) per vari episodi di bancarotta fraudolenta distrattiva (inerenti diverse autovetture ed una moto) e per bancarotta fraudolenta documentale, nonché COGNOME NOME per il concorso nella distrazione di due autovetture e, precisamente, per il delitto di bancarotta fraudolenta patrimoniale di cui capo C).
Con sentenza del 19 febbraio 2025, la Corte d’appello di Torino, in parziale riforma della pronuncia emessa dal Tribunale di Novara in data 9 luglio 2024, ha riconosciuto al COGNOME l’attenuante del danno di speciale tenuità di cui all’art. 219,
comma 3, l.fall., giudicata prevalente sulla recidiva reiterata e sull’aggravante di cui all’art. 219, c. 2 n. 1, r.d. 267/1942 e, conseguentemente, ha rideterminato la pena inflittagli in due anni di reclusione (pena sostituita con quella dei lavori di pubblica utilità per la durata di 1. 460 ore). La stessa sentenza d’appello, ritenute per COGNOME le già concesse circostanze attenuanti generiche prevalenti sulla contestata aggravante dei plurimi fatti di bancarotta, ha rideterminato la pena irrogata nei suoi riguardi in due anni di reclusione, pena sospesa. La medesima sentenza d’appello ha eliminato la pena accessoria dell’interdizione temporanea dai pubblici uffici e ridotto le pene accessorie di cui all’art.216 , ultimo comma, l.fall. nei confronti di entrambi gli imputati nella misura di anni due.
La vicenda processuale trae origine dalla dichiarazione di fallimento, con sentenza del Tribunale di Novara del 12 dicembre 2013, dell’impresa individuale “RAGIONE_SOCIALE” di COGNOME NOME. Le indagini successive accertavano plurime condotte distrattive di beni aziendali (vari autoveicoli e una moto). Al COGNOME, in particolare, è stato contestato di aver agito, quale collaboratore di fatto del COGNOME, in concorso con quest’ultimo, distraendo dal patrimonio del fallito due autoveicoli (targati TARGA_VEICOLO e TARGA_VEICOLO) per un valore complessivo di euro 3.100,00, cedendoli a terzi per estinguere propri debiti personali, così arrecando pregiudizio alla massa dei creditori.
Avverso la predetta sentenza ha proposto ricorso per Cassazione il difensore del COGNOME, deducendo sei motivi, di seguito sintetizzati.
2.1. Con un primo e un secondo motivo, trattati congiuntamente perché connessi, il ricorrente lamenta la violazione dell’art. 110 cod. pen. e la carenza assoluta di motivazione sul concorso dell’ extraneus nel reato proprio di bancarotta fraudolenta.
La motivazione sarebbe apparente e contraddittoria, non spiegando quali elementi dimostrino che i beni fossero dell’impresa fallita e la consapevolezza di ciò da parte del COGNOME, che -si assume -sarebbe stato il reale titolare dei veicoli in questione.
Si contesta, al riguardo, l’omessa considerazione delle dichiarazioni rese da COGNOME NOME, secondo cui gli automezzi gli erano stati consegnati dalla madre del COGNOME e dal COGNOME in un contesto di rapporti estranei alla gestione imprenditoriale dello stesso COGNOME.
Per giunta, la Corte d’appello avrebbe affermato la responsabilità del ricorrente quale “collaboratore di fatto” del COGNOME, senza specificare in cosa consistesse tale collaborazione, né gli elementi probatori sulla cui base erano stati accertati ruolo, durata e ingerenza sugli asset dell’impresa, da parte dello stesso
COGNOME.
Mancherebbe, in ogni caso, la prova dell’elemento soggettivo del reato, ossia la consapevolezza, in capo all’imputato, dello stato di decozione dell’impresa e la volontà di arrecare pregiudizio ai creditori, non potendosi essa desumere dalla mera vendita dei beni per saldare debiti personali.
3.2. Con un terzo e un quarto motivo, anch’essi connessi e in parte reiterativi delle doglianze dei primi due motivi, si deduce la violazione dell’art. 192, comma 2, cod. proc. pen. e la manifesta illogicità e contraddittorietà della motivazione in ordine alla valutazione della prova.
La sentenza impugnata si fonderebbe su indizi privi di gravità, precisione e concordanza. La Corte territoriale non avrebbe effettuato un esame critico delle fonti di prova, basando la colpevolezza del ricorrente su presunzioni isolate (la presunta “disponibilità” dei veicoli; la presunta “collaborazione di fatto”) e omettendo di valutare elementi a discarico, come la circostanza che le cessioni dei veicoli fossero avvenute molti anni prima della dichiarazione di fallimento (nel 2006 e 2007). Si assume che la condanna si fondi su congetture, ignorando o comunque travisando le dichiarazioni del COGNOME, che attestavano -come detto -l ‘estraneità delle cessioni rispetto all’attività d’impresa svolta dal COGNOME .
La sentenza d’appello avrebbe omesso di spiegare, inoltre, le ragioni del diverso esito del processo per il RAGIONE_SOCIALE, rispetto a quello celebratosi nei riguardi della coimputata, COGNOME NOME, assolta da analoga accusa a fronte dello stesso quadro probatorio.
3.3. Con un quinto e un sesto motivo, infine, si denuncia l’erronea applicazione dell’art. 99, comma 4, cod. pen. e il vizio di motivazione in punto di recidiva reiterata.
La Corte d’appello avrebbe confermato la recidiva in modo automatico e acritico, senza un’effettiva valutazione della personalità del reo e della gravità del fatto. Il ricorrente sostiene che, pur in assenza di uno specifico motivo di appello sul punto, il giudice del gravame avrebbe dovuto escludere d’ufficio la recidiva. Si rimarca che la difesa aveva comunque censurato la condanna nel suo complesso, chiedendo un trattamento sanzionatorio più favorevole, impugnando così, seppur implicitamente, anche il bilanciamento delle circostanze e, con esso, la valutazione sulla recidiva.
Con memoria del 12 agosto 2025, la difesa dell’imputato ha svolto ulteriori argomentazioni a sostegno del ricorso, concludendo per il suo accoglimento e l’annullamento della sentenza d’appello.
Con requisitoria scritta, il Procuratore Generale ha concluso per il rigetto del ricorso.
CONSIDERATO IN DIRITTO
1. Il ricorso è inammissibile.
I primi quattro motivi, che possono essere esaminati congiuntamente per la loro intima connessione, sono manifestamente infondati e, in parte, non consentiti in questa sede di legittimità o, addirittura, radicalmente nuovi.
In particolare, c on l’appello non si è sostenuto che i mezzi fossero del COGNOME e, anzi, si assume che si fosse trattato di ‘beni personali e privati del figliastro’ (seppure a dire di parte ricorrente -‘non strumentali all’azienda’ (p. 5 appello).
Ed è noto che, ex artt. 606, comma 3, e 609, comma 2, cod. proc. pen., non possono essere dedotte in Cassazione questioni non sollevate coi motivi di appello, salvo che siano rilevabili d’ufficio in ogni stato e grado del giudizio e non necessitino di accertamenti di fatto o si tratti di questioni che non sarebbe stato possibile dedurre in grado d’appello (perché, ad esempio, prospettate per la prima volta proprio nel provvedimento impugnato in Cassazione): se così non fosse, sarebbe invero inevitabile l’an nullamento del provvedimento a causa di un altrettanto inevitabile, da parte del giudice a quo , difetto di motivazione su una questione sottratta -in ipotesi, anche in modo strumentale -alla sua cognizione, non essendogli stata devoluta (così, tra le tante, Sez. 2, n. 26721 del 26/04/2023, Rv. 284768-02; Sez. 2, n. 29707 del 08/03/2017, Rv. 270316-01; Sez. 4, n. 10611 del 04/12/2012, dep. 2013, Rv. 256631-01; confronta, negli stessi termini, in materia di appello cautelare su misure personali, Sez. 3, n. 30483 del 28/05/2015, Rv. 264818-01 e Sez. 1, n. 43913 del 02/07/2012, Xu, Rv. 25378601, su misure cautelari reali, Sez. 3, n. 45314 del 04/10/2023, Rv. 285335-01 e Sez. 3, n. 35494 del 17/06/2021, Rv. 281852-01, e in materia di prevenzione, Sez. 6, n. 21408 del 12/04/2023, Rv. 284684-01 e Sez. 2, n. 9517 del 07/02/2018, Rv. 272520-01).
Le restanti censure, come detto, sono manifestamente infondate o non consentite in sede di legittimità. Esse, infatti, pur evocando formalmente vizi di violazione di legge e di motivazione, tendono nella sostanza a sollecitare una nuova e diversa valutazione delle risultanze processuali, inibita alla Corte di cassazione.
Secondo il consolidato orientamento di questa Suprema Corte, il controllo
del vizio di motivazione non può tradursi in un rinnovato esame degli elementi di fatto posti a fondamento della decisione, ma deve limitarsi a verificare la coerenza logica dell’impianto argomentativo dei giudici di merito.
In sede di legittimità, ex art. 606, comma 1, lett. e) cod. proc. pen., è possibile esaminare il rapporto tra motivazione e decisione, non certo tra prove e decisione, essendo la valutazione del compendio probatorio riservata al giudice di merito: non potendosi, dunque, chiedere l’ adesione a un’ipotesi alternativa, ancorché plausibile come quella sposata nel provvedimento impugnato. Sono, pertanto, ammissibili solo censure per omissioni motivazionali, contraddizioni o illogicità manifeste e decisive: laddove, cioè, la ricostruzione alternativa proposta dal ricorrente sia inconfutabile e l’unica plausibile (Sez. U, n. 6402 del 30/04/1997, COGNOME, Rv. 207944-01; Sez. U, n. 16 del 19/06/1996, COGNOME, Rv. 205621-01; Sez. 1, n. 45331 del 17/02/2023, Rv. 285504-01; Sez. 4, n. 10153 del 11/02/2020, Rv. 278609-01), e non rappresenti solo un’ipotesi alternativa a quella ritenuta in sentenza (Sez. 6, n. 2972 del 04/12/2020, dep. 2021, Rv. 280589-02).
Anche il travisamento della prova -la valorizzazione di un dato inesistente o l’omessa valutazione di uno esistente, in quanto il relativo contenuto testuale (“significante”), e non la sua interpretazione (“significato”), sia erroneamente riportato -può essere oggetto di valutazione in questa sede solo se comprometta in modo decisivo la tenuta logica della motivazione (Sez. 6, n. 10795 del 16/02/2021, Rv. 281085-01; Sez. 3, n. 2039 del 02/02/2018, dep. 2019, Rv. 274816-07; Sez. 6, n. 45036 del 02/12/2010, Rv. 249035-01).
Nel caso di specie, le sentenze di primo e secondo grado hanno espresso una valutazione concorde sulla responsabilità penale dell’imputato (“doppia conforme”), integrandosi a vicenda le rispettive motivazioni e saldandosi in un unico corpo argomentativo, la cui tenuta logica va apprezzata nella sua interezza (Sez. 3, n. 13926 del 1/12/2011, dep. 2012, Rv. 252615-01; Sez. 2, n. 1309 del 22/11/1993, dep. 1994, Rv. 197250-01).
Sempre in diritto, va, infatti, ribadito che, in tema di reati fallimentari, il concorso dell’ extraneus nel reato proprio è configurabile qualora la condotta del terzo, pur estraneo alla compagine fallita, sia stata causalmente rilevante e sorretta dalla consapevolezza di agevolare l’imprenditore nel frustrare le ragioni dei creditori, depauperando il patrimonio della stessa impresa poi fallita (Sez. U, n. 22474 del 31/03/2016, Passarelli, Rv. 266804-01, la quale, in motivazione, la Corte ha precisato che i fatti di distrazione, una volta intervenuta la dichiarazione di fallimento, assumono rilievo in qualsiasi momento siano stati commessi e, quindi, anche se la condotta si è realizzata molto tempo prima del fallimento e
quando ancora l’impresa non versava in condizioni di insolvenza; confronta, negli stessi termini, Sez. V, n. 4710 del 22/01/2020, Rv. 278156-02).
In particolare, la Corte territoriale ha fornito una motivazione logica, coerente e priva di vizi giuridici in merito alla sussistenza del concorso del COGNOME, quale extraneus , nel reato di bancarotta fraudolenta patrimoniale. Contrariamente a quanto asserito dal ricorrente, i giudici di merito non si sono limitati a un’affermazione apodittica, ma hanno individuato specifici e concreti elementi fattuali a sostegno del proprio convincimento.
Le sentenze di merito hanno evidenziato:
-il solido legame personale tra il COGNOME e il COGNOME, essendo il primo il convivente della madre di quest’ultimo;
-il ruolo del COGNOME quale unico ed esclusivo beneficiario delle operazioni distrattive, avendo egli utilizzato i veicoli, di proprietà del COGNOME, per estinguere propri debiti personali, come confermato univocamente dai testimoni COGNOME e COGNOME.
Il Tribunale ha affermato di non avere “motivo di dubitare” della loro piena attendibilità e la Corte d’appello ha ribadito che COGNOME “si occupava attivamente ed in prima persona della vendita dei due autoveicoli” trattando direttamente con gli acquirenti e ottenendo “un esclusivo vantaggio per sé medesimo”. Insomma, i giudici di merito hanno logicamente valorizzato il fatto che le cessioni fossero avvenute senza alcuna contropartita economica per l’impresa fallita (che, beninteso, trattandosi di impresa individuale, coincide, giuridicamente, con la persona fisica), con conseguente e consapevole depauperamento del patrimonio del COGNOME. Come, del resto, finisce per ammettere, in questa sede, lo stesso ricorrente, laddove reclama -come detto, con difesa del tutto inedita -la titolarità dei veicoli in questione.
Né sono fondate le censure circa il travisamento della prova e la mancata valutazione degli elementi a discarico, tra cui la sentenza assolutoria di COGNOME NOME (terzo e quarto motivo di ricorso).
Le censure del ricorrente si risolvono nel tentativo di offrire una lettura alternativa del materiale probatorio, che non tiene conto della struttura logica e coerente della motivazione impugnata e che non può trovare ingresso in questa sede. La Corte d ‘ appello ha valorizzato le deposizioni testimoniali (COGNOME e COGNOME) e la relazione del curatore, giungendo a conclusioni plausibili e coerenti, insindacabili in questa sede.
Al riguardo, la sentenza di primo grado ha esplicitamente affrontato la questione della sentenza di assoluzione della coimputata COGNOME NOME nell’esaminare la posizione del COGNOME, chiarendo che l’assoluzione di COGNOME
NOME “non influisce sul giudizio di pena colpevolezza dell’odierno imputato “, precisando che la sentenza assolutoria della COGNOME si era “fondata esclusivamente sulla carenza dell’elemento soggettivo in capo alla concorrente del reato, facendo propria, per contro, la prova della materialità del fatto contestato e riconoscendo nel COGNOME il ruolo di dominus nella conduzione dell’affare”. In tal modo, e richiamando contestualmente il consapevole contributo depauperativo da parte di COGNOME, il Tribunale ha implicitamente differenziato la sua posizione da quella della COGNOME, sottolineando il diretto coinvolgimento e il personale vantaggio dalle cessioni da parte di costui, che era stato beneficiario delle somme ricavate dalle vendite e che, in tale veste, non poteva che essere perfettamente consapevole del depauperamento posto in essere.
Analogamente, pure la Corte d’appello, nel menzionare le medesime ragioni per le quali ha ritenuto dolosa la condotta del COGNOME, ha implicitamente, ma chiaramente, marcato la netta differenza tra la posizione di costui e quella della COGNOME.
Anche il quinto e il sesto motivo, relativi alla recidiva, sono manifestamente infondati.
La Corte d’appello ha correttamente osservato che, in assenza di uno specifico motivo di gravame, non aveva il potere di escludere d’ufficio la recidiva contestata e ritenuta dal primo giudice. Il potere di cognizione del giudice d’appello è infatti limitato dai punti della decisione attinti dai motivi di impugnazione (art. 597, comma 1, cod. proc. pen.). L’esclusione della recidiva non rientra tra le questioni rilevabili d’ufficio ai sensi dei commi successivi del medesimo articolo.
Questa Corte ha costantemente affermato, al riguardo, che il giudice di appello non può escludere d’ufficio la recidiva, qualora non sia stata oggetto di specifico motivo di impugnazione (Sez. 3, n. 25806 del 11/05/2022, Vitale, Rv. 283470-02; Sez. 2, n. 47025 del 03/10/2013, Rv. 257752-01).
Del resto, tanto si desume chiaramente dall’art. 597, comma 5, cod. proc. pen., che statuisce chiaramente i limiti entro cui il giudice d’appello può operare al di fuori del devolutum (Sez. U, n. 12872 del 19/01/2017, Punzo, Rv. 269125 -01).
Né può ritenersi che una generica richiesta di riduzione della pena costituisca una valida impugnazione sul punto della recidiva. Il ricorso in Cassazione sulla recidiva, ben più radicale e giuridicamente specifico rispetto a una generica richiesta di riduzione della pena in appello, non era stato esplicitamente e dettagliatamente sollevato come motivo distinto nel giudizio di secondo grado, secondo quanto affermato dallo stesso ricorrente e desumibile dagli atti.
Peraltro, la Corte territoriale ha comunque esercitato il proprio potere discrezionale in senso favorevole al ricorrente, effettuando un giudizio di bilanciamento tra le circostanze eterogenee ai sensi dell’art. 69 cod. pen. e ritenendo prevalente l’attenuante del danno di speciale tenuità di cui all’art. 219, comma 3, l.fall. sulla contestata recidiva reiterata. La motivazione, pertanto, non solo non è erronea in diritto, ma dimostra di aver tenuto conto della posizione dell’imputato nei limiti dei poteri consentiti dalla legge, elencando le “plurime precedenti condanne divenute irrevocabili per reati contro il patrimonio” e una precedente dichiarazione di recidiva reiterata. Così come l’aveva considerata il Tribunale di Novara, che aveva già esplicitamente motivato la sussistenza della recidiva reiterata per COGNOME, affermando che era “già dichiarato recidivo” e “gravato da plurimi ed eterogenei precedenti penali”, denotando egli “un’accresciuta pericolosità sociale”.
4. Alla declaratoria di inammissibilità del ricorso consegue, ai sensi dell’art. 616 cod. proc. pen., la condanna del ricorrente al pagamento delle spese processuali e, ravvisandosi profili di colpa nella determinazione della causa di inammissibilità (Corte Cost. n. 186 del 2000), anche al versamento di una somma in favore della Cassa delle ammende, che si stima equo determinare in euro tremila.
P.Q.M.
dichiara inammissibile il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese processuali e della somma di euro tremila in favore della cassa delle ammende. Così è deciso, 19/09/2025
Il Consigliere estensore
Il Presidente NOME COGNOME
NOME COGNOME