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Concorso esterno: la prova del patto con la mafia

La Corte di Cassazione ha esaminato il ricorso di un imprenditore accusato di concorso esterno in associazione mafiosa, al quale era stata applicata la misura degli arresti domiciliari. Il ricorrente contestava sia vizi procedurali, legati alla trasmissione di decreti di intercettazione, sia la valutazione nel merito degli indizi a suo carico. La Corte ha rigettato il ricorso, ritenendolo inammissibile. Ha chiarito che il ricorso per cassazione non può riesaminare i fatti, ma solo verificare la correttezza giuridica e la logicità della motivazione. In questo caso, il Tribunale del Riesame aveva adeguatamente motivato la sussistenza di un patto tra l’imprenditore e il clan, basato su reciproci vantaggi economici e sul rafforzamento del sodalizio mafioso, confermando la validità della misura cautelare.

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Pubblicato il 10 settembre 2025 in Diritto Penale, Giurisprudenza Penale, Procedura Penale

Concorso Esterno: Quando l’Impresa Stringe un Patto con la Mafia

Il tema del concorso esterno in associazione di stampo mafioso è uno dei più complessi e dibattuti nel diritto penale. Una recente sentenza della Corte di Cassazione ha offerto importanti chiarimenti sui requisiti necessari per provare il contributo di un imprenditore a un sodalizio criminale. Il caso analizzato riguarda un operatore economico del settore ortofrutticolo accusato di aver messo la propria azienda a disposizione di un clan, ottenendo in cambio vantaggi e contribuendo a rafforzarne il potere sul territorio. La Corte ha dichiarato inammissibile il ricorso dell’imprenditore, confermando la misura cautelare degli arresti domiciliari.

I Fatti del Processo

Secondo l’accusa, due imprenditori, legali rappresentanti di una società nel settore agricolo, avrebbero stretto un accordo con un noto clan mafioso operante in un’importante area del Sud Italia. L’accordo prevedeva che la loro attività imprenditoriale fosse messa a disposizione del sodalizio. In particolare, avrebbero utilizzato un esponente di spicco del clan come intermediario per la commercializzazione dei loro prodotti, accrescendo così il giro d’affari della società. In cambio, l’associazione mafiosa riceveva una parte dei profitti, rafforzando il proprio controllo economico e territoriale.
Il Giudice per le indagini preliminari aveva inizialmente disposto la custodia cautelare in carcere per uno degli imprenditori. Successivamente, il Tribunale del Riesame, in parziale riforma, ha sostituito la misura con gli arresti domiciliari, pur confermando la gravità del quadro indiziario.

I Motivi del Ricorso in Cassazione

La difesa dell’imprenditore ha presentato ricorso in Cassazione basandosi su diversi motivi:
1. Vizi procedurali: Si lamentava la trasmissione tardiva, da parte del pubblico ministero al Tribunale del Riesame, dei decreti autorizzativi di alcune intercettazioni, ritenute fondamentali per la difesa.
2. Errata valutazione delle prove: La difesa sosteneva che i giudici di merito avessero travisato le prove, in particolare un’ordinanza di un’altra Corte d’Appello che, in un procedimento di prevenzione, aveva escluso l’esistenza stessa dell’associazione mafiosa contestata.
3. Insussistenza del concorso esterno: Secondo il ricorrente, i rapporti con l’esponente mafioso erano di natura puramente commerciale e non si estendevano all’intera associazione. Mancava, quindi, la consapevolezza e la volontà di contribuire al rafforzamento del clan.
4. Mancanza di esigenze cautelari: Si contestava la motivazione sulla necessità della misura, sostenendo che un lungo periodo di “tempo silente” (oltre due anni senza condotte illecite) e il fallimento della società avrebbero dovuto escludere il pericolo di reiterazione del reato.

La Decisione della Cassazione e il concetto di concorso esterno

La Corte di Cassazione ha dichiarato il ricorso inammissibile, ritenendo infondate tutte le censure. Gli Ermellini hanno ribadito un principio fondamentale: il giudizio di legittimità non può trasformarsi in una nuova valutazione dei fatti. Il compito della Cassazione è verificare che la motivazione del provvedimento impugnato sia logica, coerente e giuridicamente corretta, non di sostituire la propria valutazione a quella dei giudici di merito.
Nel caso specifico, il Tribunale del Riesame aveva ricostruito in modo analitico e coerente il rapporto di reciproco vantaggio tra gli imprenditori e il clan. L’accordo non era un semplice rapporto commerciale, ma un patto che permetteva agli imprenditori di espandere il proprio business grazie al potere di intimidazione del clan, e al clan di percepire profitti e consolidare il proprio dominio economico. Questo configura pienamente l’ipotesi di concorso esterno.

Le Motivazioni della Corte

La Corte ha smontato punto per punto le argomentazioni difensive.
Sul piano procedurale, ha chiarito che la tardiva trasmissione dei decreti di intercettazione non determina automaticamente l’inefficacia della misura cautelare, a meno che non si dimostri una concreta violazione del diritto di difesa, cosa non avvenuta nel caso di specie.
Per quanto riguarda la valutazione delle prove, la Cassazione ha sottolineato che il Tribunale del Riesame aveva considerato tutti gli elementi, comprese le vicende relative alla misura di prevenzione, ma li aveva ritenuti superati dalle nuove e più univoche risultanze investigative, come le conversazioni intercettate.
Infine, riguardo alle esigenze cautelari, la Corte ha stabilito che la presunzione di pericolosità prevista per i reati di mafia si applica anche al concorso esterno. Il “tempo silente” può attenuare, ma non necessariamente eliminare, il pericolo di recidiva, giustificando una misura meno afflittiva come gli arresti domiciliari anziché il carcere, ma non la totale revoca. Anche il fallimento di una società non è stato ritenuto decisivo, poiché l’imprenditore potrebbe costituirne altre per reiterare il reato.

Le Conclusioni

La sentenza ribadisce la solidità dell’orientamento giurisprudenziale sul concorso esterno in associazione mafiosa. Per la sua configurabilità non è necessario che l'”extraneus” compia atti tipicamente mafiosi, ma è sufficiente che fornisca un contributo consapevole e volontario che si riveli utile al rafforzamento del clan. La decisione evidenzia anche i limiti del ricorso per cassazione in materia cautelare, che non può essere utilizzato per sollecitare una rilettura dei fatti, ma solo per denunciare vizi di legittimità o palesi illogicità nella motivazione. Questo principio garantisce una chiara distinzione tra i gradi di giudizio e la funzione nomofilattica della Suprema Corte.

La mancata trasmissione tempestiva dei decreti di intercettazione al Tribunale del Riesame rende inefficace la misura cautelare?
No, secondo la Corte la mancata o tardiva trasmissione dei decreti autorizzativi delle intercettazioni non determina di per sé l’inefficacia della misura cautelare. Tale conseguenza si verifica solo se le intercettazioni sono state disposte al di fuori dei casi consentiti dalla legge, e la difesa deve specificare quali norme siano state violate.

Per configurare il concorso esterno in associazione mafiosa è sufficiente un rapporto commerciale con un esponente del clan?
No, non è sufficiente. È necessario dimostrare che il rapporto vada oltre la mera commercializzazione e si configuri come un patto di reciproco vantaggio, in cui l’imprenditore è consapevole di trattare con un’associazione mafiosa e fornisce un contributo concreto al suo mantenimento o rafforzamento, traendone a sua volta un utile.

Un periodo di tempo senza commettere reati (“tempo silente”) è sufficiente per annullare una misura cautelare per reati di mafia?
Non necessariamente. La Corte ha ritenuto che un periodo di due anni di “tempo silente” possa essere sufficiente per attenuare le esigenze cautelari, giustificando la sostituzione del carcere con gli arresti domiciliari, ma non per determinare un completo superamento del pericolo di recidiva, soprattutto in contesti di criminalità organizzata.

La selezione delle sentenze e la raccolta delle massime di giurisprudenza è a cura di Carmine Paul Alexander TEDESCO, Avvocato a Milano, Pesaro e Benevento.

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