Sentenza di Cassazione Penale Sez. 6 Num. 33384 Anno 2025
Penale Sent. Sez. 6 Num. 33384 Anno 2025
Presidente: COGNOME
Relatore: COGNOME NOME COGNOME
Data Udienza: 04/07/2025
SENTENZA
sul ricorso proposto da
COGNOME NOMECOGNOME nato a Paternò il 12/06/1965
avverso l’ordinanza del 03/02/2025 del Tribunale di Messina
Visti gli atti, il provvedimento impugnato e il ricorso; udita la relazione svolta dal Consigliere NOME COGNOME udita la requisitoria del Sostituto Procuratore Generale NOME COGNOME che ha concluso chiedendo di dichiarare l’inammissibilità del ricorso; uditi gli Avv. NOME COGNOME e NOME COGNOME difensori del ricorrente, che hanno chiesto l’accoglimento del ricorso.
RITENUTO IN FATTO
Con ordinanza del 3 febbraio 2025 il Tribunale di Messina, in parziale accoglimento della richiesta di riesame presentata nell’interesse di NOME COGNOME ha annullato il provvedimento, emesso dal Giudice per le indagini preliminari dello stesso Tribunale il 19 dicembre 2024, limitatamente ai reati di
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cui ai capi 4) e 8) della rubrica e ha sostituito la misura della custodia cautelare in carcere con quella degli arresti domiciliari con applicazione del braccialetto a norma dell’art. 275-bis cod. proc. pen.
NOME COGNOME quale amministratore giudiziario dell’impresa RAGIONE_SOCIALE NOME, sottoposta a confisca sia di prevenzione che ai sensi dell’art. 12-sexies L. n. 356/1992 nei confronti di NOME COGNOME è stato ritenuto gravemente indiziato dei reati di peculato, avente ad oggetto il denaro ricavato dalla vendita di beni dell’anzidetta impresa, e di concorso esterno nell’associazione mafiosa denominata famiglia dei barcellonesi, che aveva come obiettivo precipuo quello di acquisire in forma diretta e indiretta la gestione e, comunque, il controllo delle attività economiche del territorio (capi 3 e 6 dell’incolpazione provvisoria).
Avverso l’ordinanza anzidetta hanno proposto ricorso per cassazione i difensori dell’indagato, che hanno dedotto i motivi di seguito indicati.
3.1. Con il primo motivo sono state denunciate violazione di legge nonché carenza, manifesta illogicità e contraddittorietà della motivazione del provvedimento impugnato, oltre che travisamento delle prove, nelle parti in cui il Tribunale ha affermato che il ricorrente era al corrente di quanto avveniva nell’azienda amministrata, pur se le prove evocate deporrebbero per l’assenza di tale consapevolezza. Un elemento significativo della violazione motivazionale appena ricordata sarebbe rappresentato dalle inferenze ricavate dalle conversazioni intercettate in occasione dell’episodio relativo alla scoperta delle microspie. Gli stralci delle intercettazioni, riportati nell’ordinanza dimostrerebbero che l’indagato, conversando con la moglie, si era sforzato di formulare ipotesi su cosa potesse essere accaduto e su chi ne fosse coinvolto: dubbi incompatibili con il dolo attribuitogli dal Tribunale. Conversando, poi, con COGNOME, l’indagato aveva trattenuto a stento la rabbia e tale sentimento sarebbe incompatibile con l’ipotesi che egli fosse d’accordo con i presunti correi per la sottrazione di denaro dalle casse aziendali.
3.2. Con il secondo motivo sono state dedotte violazione di legge nonché omessa, illogica e contraddittoria motivazione. La difesa, nei motivi di riesame, aveva evidenziato che la sottrazione di denaro, derivante dalle vendite effettuate in nero, avveniva ad opera di dipendenti della società, mentre gli appartenenti della famiglia COGNOME, al più, risultavano destinatari finali, ma non gli autori dell condotta appropriativa. Su tali aspetti il Tribunale non si sarebbe minimamente pronunciato, avendo attribuito le appropriazioni in maniera del tutto generica agli Ofria. Il Tribunale, inoltre, proprio in ordine alla consapevolezza
dell’amministratore che dipendenti infedeli accantonassero proventi in nero, avrebbe omesso di considerare il contenuto delle dichiarazioni del collaboratore di giustizia NOME COGNOME risultato pienamente credibile, che aveva affermato che gli COGNOME, con la complicità dei dipendenti, avevano creato una doppia contabilità: una ufficiale, che, all’occorrenza, veniva esibita all’ignaro amministratore giudiziario, allorché questi si recava in azienda, e un’altra, rappresentata dai proventi delle vendite in nero di pezzi di ricambio. Il fatto che l’amministratore non mostrasse fastidio alla presenza di NOME e NOME COGNOME in azienda non presenterebbe alcun nesso logico con l’affermazione che egli fosse consapevole delle ruberie, atteso che non erano i due soggetti esterni a porle in essere. L’avere consentito agli COGNOME di essere presenti e l’avere instaurato con essi rapporti di cordialità potrebbe dare origine a una critica di leggerezza, oppure a rimproveri di eccessiva e comprensibile pavidità, ma non sarebbe prova della consapevolezza dell’indagato circa le sottrazioni di denaro che avvenivano a danno dell’azienda.
3.3. Con il terzo motivo è stata censurata la qualificazione delle appropriazioni di denaro come peculato. Tali appropriazioni avvenivano da parte dei dipendenti, che avevano il possesso diretto del denaro e dei beni. Ai fini della configurabilità del concorso dell’extraneus nel reato proprio, è indispensabile che il correo, privo di qualifica soggettiva, per appropriarsi della cosa, sfrutti la relazione di possesso per ragioni di ufficio pubblico o servizio del pubblico ufficiale. Nel caso in esame, i dipendenti avrebbero avuto una relazione di possesso diretto con la res. Il pubblico ufficiale, invece, avrebbe vantato un possesso solo mediato, mentre il delitto di peculato richiede la disponibilità diretta del bene.
3.4. Con il quarto motivo sono stati dedotti motivazione illogica e contraddittoria nonché travisamento della prova nella parte in cui il Tribunale ha ritenuto che dalla vicenda relativa alla distruzione dei registri potesse dedursi la consapevolezza dell’indagato in merito alla vendita in nero di pezzi di ricambio dei mezzi rottamati. Nei registri non è richiesta alcuna annotazione dei singoli pezzi di ricambio, smontati da un’automobile demolita, così che, in ipotesi, è possibile che sul registro vengano correttamente indicati tutti i dati richiesti, ma, allo stesso tempo, che alcuni dei pezzi, ottenuti dallo smontaggio, vengano venduti senza che figurino nel citato registro.
3.5. Con il quinto motivo è stata dedotta violazione di legge, in quanto il Tribunale avrebbe erroneamente considerato possibile il concorso esterno in associazione mafiosa di tipo omissivo, quantunque una simile figura debba essere esclusa già in astratto, alla luce dei principi indicati da costante giurisprudenza di legittimità, che è esplicita nel richiedere positive attività e,
dunque, evidentemente, un comportamento di natura attiva, commissiva e non un mero, inerte, non impedimento di fatti illeciti altrui.
3.6. Con il sesto motivo è stata dedotta violazione di legge, in quanto il Tribunale erroneamente avrebbe considerato sussistente il dolo normativamente richiesto per il concorso esterno in associazione mafiosa. Premesso che una cosa è offrire un contributo omissivo alla sottrazione di sostanze societarie, altra è rappresentarsi e volere che quelle sostanze vengano trasferite al clan e utilizzate per conservare e rafforzare l’associazione, il ricorrente ha dedotto che, ai fini dell’integrazione del dolo per il concorrente esterno, non è sufficiente il mero stato di dubbio, ma occorre la consapevolezza concreta di rafforzare l’associazione.
3.7. Con il settimo motivo sono stati dedotti violazione di legge e vizi della motivazione, per avere il Tribunale applicato la misura cautelare degli arresti domiciliari, pur riconoscendo che la sospensione della carica, ricoperta dall’indagato, impedisce nuove occasioni di reato. Sarebbe illogico e contraddittorio, oltre che violativo delle norme processuali che regolano i criteri di scelta delle misure, affermare che, per il venir meno del ruolo, poteva non essere applicata la misura carceraria, ma, al contempo, assumere che fosse necessaria quella degli arresti domiciliari, in assenza di specifiche e puntuali motivazioni su quale fosse il concreto, attuale ed effettivo pericolo. Il Collegio della cautela non avrebbe poi individuato, come è, invece, necessario, l’esistenza di occasioni prossime per compiere ulteriori delitti della stessa specie.
CONSIDERATO IN DIRITTO
Il ricorso deve essere rigettato, in quanto i motivi, in esso articolati, sono nel complesso infondati.
Le censure relative alla ritenuta gravità indiziaria per il concorso del ricorrente nel delitto di peculato, formulate nei motivi 1), 2), 3) e 4) del ricorso, sono, in parte, infondate e, in parte, non consentite.
2.1. A NOME COGNOME, quanto al delitto di peculato, è stato ascritto di avere, in concorso con altri, quale amministratore giudiziario dell’impresa RAGIONE_SOCIALE NOME, sottoposta a confisca di prevenzione e ai sensi dell’art. 12sexies L. n. 356/1992 nei confronti di NOME COGNOME, consentito ai componenti della famiglia COGNOME di continuare a gestire l’anzidetta impresa e di appropriarsi del ricavato della vendita in nero di pezzi di ricambio per autovetture.
La gravità indiziaria a carico dell’indagato è stata desunta da intercettazioni e videoriprese nonché dalle dichiarazioni del collaboratore di giustizia NOME
COGNOME che, contiguo al clan dei “barcellonesi” e dipendente dell’impresa Bellinvia dal 2011 al 2013, era stato testimone diretto del sistema illecito di gestione aziendale e della sottrazione di parte dei ricavi.
Tali elementi erano convergenti anche nel dimostrare che l’impresa RAGIONE_SOCIALE NOME, formalmente intestata alla madre di NOME COGNOME, già condannato per il reato di cui all’art. 416-bis cod. pen. per partecipazione all’associazione dei barcellonesi dal 1987 sino al 1995, benché sottoposta a sequestro e ad amministrazione giudiziaria sin da giugno 2011, era sempre rimasta sotto il diretto controllo di NOME COGNOME che lo aveva esercitato, anche in costanza di detenzione, tramite la moglie, i propri congiunti e dipendenti fidati, come descritto, in particolare, alle pagine 7, 8 e 9 del provvedimento impugnato.
Emblematica dell’anzidetto controllo e, al contempo, dell’assoluta subordinazione dell’amministratore giudiziario a NOME COGNOME è stata ritenuta la vicenda del dipendente NOME COGNOME il quale, sospettato di aver rubato pezzi di ricambio e costretto a dimettersi, era stato punito in modo esemplare da NOME COGNOME, che aveva deciso di fargli terra bruciata presso qualsiasi altra impresa, in modo da impedirgli ogni possibilità di lavoro.
Ancora più significativa è stata ritenuta la vicenda dell’acquisto di un terreno adiacente all’area ove è situata la ditta, che, nonostante l’autorizzazione richiesta e ottenuta nel marzo 2024 dal Giudice delegato, era stato bloccato perché NOME COGNOME aveva inteso gestire l’acquisto a modo suo e costringere, con azioni ritorsive, delegate alla moglie e al fratello, il confinante a svendere.
Centralità nella ricostruzione del quadro indiziario è stata assegnata alle dichiarazioni del collaboratore NOME COGNOME (cfr. pagine 10 e 11 dell’ordinanza), relative sia al ruolo di NOME COGNOME e NOME COGNOME rispettivamente moglie e cognata di NOME COGNOME nella gestione dell’azienda, ove entrambe lavoravano nonostante l’impresa fosse stata confiscata, sia al sistema creato per sottrarre risorse destinate all’amministrazione giudiziaria, connotato da vendite in nero di pezzi di ricambio delle autovetture e da una contabilità parallela, occulta e fraudolenta.
Le anzidette propalazioni avevano trovato piena conferma in quelle del dipendente NOME COGNOME e nelle videoriprese, disposte a partire dal dicembre 2023, che dimostravano il perdurante sistema predatorio, ideato e reso possibile non solo dall’inerzia dell’amministratore giudiziario COGNOME ma dalla sua consapevole complicità.
L’ordinanza ha rimarcato la disponibilità dell’amministratore giudiziario sia ad assecondare le richieste dei familiari di NOME COGNOME lasciando loro la gestione e consentendone la presenza in azienda, l’accesso alla contabilità e agli uffici amministrativi, sia ad utilizzare cautele comunicative del tutto anomale
(come lo scambio di pizzini con la moglie di NOME COGNOME o il prudente abbandono del cellulare prima di entrare in azienda e incontrare i familiari dell’COGNOME), o ad informare questi ultimi della richiesta di rendiconto, formulata a maggio 2024 dal Giudice delegato, con contestuale rassicurazione che avrebbero continuato a lavorare in azienda ed egli avrebbe fatto in modo di seguirli.
Nel provvedimento impugnato risulta anche ben delineata la consapevolezza del ricorrente in merito alla distrazione dei beni della ditta RAGIONE_SOCIALE in favore della famiglia COGNOME. Significativi in tal senso sono, in particolare, il dialog intercorso tra il ricorrente e NOME COGNOME il quale aveva concordato con COGNOME di rappresentare ai poliziotti che i registri della ditta RAGIONE_SOCIALE erano andati dispersi in conseguenza di una inondazione, dovuta a un non meglio definito guasto (cf. pag. 19 del provvedimento), o la telefonata del ricorrente con la moglie (pag. 43), da cui emerge che egli era a conoscenza che il denaro della cassa non poteva essere «toccato da qualunque dipendente estraneo al contesto familiare del proposto».
In definitiva, la posizione di assoluta autonomia gestionale assicurata dall’amministratore giudiziario a NOME COGNOME moglie di NOME COGNOME, descritta nell’ordinanza (pag. da pag. 16 a 18), la costante attività di prelievo del denaro, sottratto alla contabilità ufficiale e distribuito tra i familiari e gli am esponenti mafiosi, e la consapevolezza del Virgillito di tale costante drenaggio di risorse dello Stato hanno fondato la valutazione del Tribunale sulla qualificazione delle condotte come peculato.
Siffatta qualificazione è corretta e giustificata dalla considerazione che la sottrazione di risorse allo Stato si è realizzata grazie al consapevole contributo omissivo, ma anche commissivo, fornito dal ricorrente, senza il quale non sarebbe stata possibile l’appropriazione del denaro, riconducibile alla pubblica funzione assegnata all’amministratore giudiziario.
2.2. A fronte di tali argomentazioni le censure del ricorrente, relative al possesso dell’amministratore giudiziario e dei dipendenti dell’impresa, non sono fondate.
Va osservato, al riguardo, che, nel delitto di peculato, possono concorrere con l’agente pubblico, ai sensi dell’art. 110 cod. pen., anche soggetti non qualificati e non è necessario che il pubblico ufficiale o l’incaricato di pubblico servizio sia l’esecutore materiale della condotta appropriativa, ben potendo questa essere compiuta da un extraneus. È, tuttavia, indispensabile che il correo privo di qualifica soggettiva, per appropriarsi della cosa, sfrutti la relazione “di possesso per ragioni di ufficio o di servizio” che il pubblico agente ha con la res. Se non vi è lo sfruttamento strumentale di detta relazione, propria del pubblico agente, non si configurano il peculato, ma, al più, altri reati, quali il furto
l’appropriazione indebita, (cfr. in tal senso: Sez. 6, n. 36566 del 21/06/2024, COGNOME, Rv. 287025 – 01). È altresì necessario che i partecipi siano consapevoli della situazione di fatto in cui operano e contribuiscano consapevolmente, ciascuno per la sua parte, a realizzare lo stesso reato (Sez. 6, 17503 del 24/01/2018, COGNOME, Rv. 272908 – 01; Sez. 6, n. 2005 del 05/08/1980, COGNOME, Rv. 146264 – 01). Il combinarsi dell’art. 110 cod. pen. con una specifica norma incriminatrice consente il cosiddetto concorso unilaterale, perché determina fattispecie incriminatrici plurisoggettive eventuali, che puniscono contributi alla realizzazione del fatto, animati (a prescindere da un previo concerto con gli altri partecipanti) dall’elemento psicologico del reato.
Nel caso in esame, dall’ordinanza impugnata risulta che NOME COGNOME, nominato amministratore giudiziario dell’impresa Bellinvia nell’ambito sia del procedimento di cognizione, definito con la confisca per sproporzione del bene, sia di quello di prevenzione, ai sensi dell’art. 2-sexies della L. n. 575/1965 (disciplina previgente applicabile alla procedura in ragione dell’epoca nella quale era stata avanzata la proposta di sequestro), si era impegnato dinanzi al Giudice delegato ad adempiere con diligenza ai compiti del suo ufficio e, quindi, a provvedere ex art. 2 cit. «alla custodia, alla conservazione e all’amministrazione dei beni sequestrati, anche al fine di incrementare, se possibile, la redditività dei beni medesimi». In concreto, pertanto, l’amministratore, con l’incarico ricevuto, aveva assunto il controllo dell’azienda, sottratta al proposto, e si era obbligato a gestirla, dapprima, per conto di chi spetta sino al provvedimento di confisca e, poi, quantomeno dall’anno 2017, allorché è divenuta definitiva la confisca di prevenzione, e fino alla definitiva destinazione della stessa all’Agenzia nazionale dei beni sequestrati e confiscati, nell’esclusivo interesse dello Stato.
È evidente, quindi, che l’amministratore giudiziario, quale gestore formale dell’impresa Bellinvia, aveva il possesso dei beni aziendali e anche del denaro ricavato dalla vendita di essi. È noto che, in tema di peculato, la nozione di possesso di danaro va intesa come comprensiva non solo della detenzione materiale della cosa, ma anche della sua disponibilità giuridica, nel senso che il soggetto agente deve essere in grado, mediante un atto dispositivo di sua competenza o connesso a prassi e consuetudini invalse nell’ufficio, di inserirsi nel maneggio o nella disponibilità del danaro e di conseguire quanto poi costituisca oggetto di appropriazione. Ne discende che l’inversione del titolo del possesso da parte del pubblico ufficiale, che si comporti uti dominus nei confronti del danaro, del quale ha il possesso in ragione del suo ufficio, e la sua appropriazione possono realizzarsi anche nelle forme della disposizione giuridica, del tutto autonoma e libera da vincoli, del danaro stesso, indisponibile in ragione di norme
giuridiche o di atti amministrativi (Sez. 6, n. 7492 del 18/10/2012, dep. 2013, COGNOME, Rv. 255529 – 01).
Contrariamente a quanto dedotto dal ricorrente, i componenti della famiglia COGNOME e i dipendenti dell’impresa Bellinvia non avevano il possesso diretto dei beni. Essi, infatti, non gestivano in proprio l’azienda, come se ne fossero i proprietari, dal momento che il sequestro e la confisca sottraggono, prima temporaneamente e poi definitivamente, il bene al proprietario, privandolo del possesso e della disponibilità dei beni, il cui unico responsabile della gestione e unico soggetto titolato ad incamerare gli introiti è l’amministratore giudiziario.
Assodato che il ricorrente, quale amministratore giudiziario, aveva il possesso dei beni dell’azienda, va poi rilevato che coloro che si sono appropriati del denaro della cassa dell’impresa Bellinvia hanno sfruttato la relazione vantata dal pubblico agente con i beni della ditta Bellinvia. Risulta, infatti, che NOME COGNOME, moglie di NOME COGNOME e ben consapevole della misura ablatoria disposta sull’impresa e del ruolo di COGNOME, aveva fatto confluire il denaro, provento della vendita dei prodotti dell’azienda e non fatturato, all’interno di un portafoglio, che si trovava nel suo ufficio, dal quale venivano quotidianamente prelevate centinaia di euro che finivano nelle tasche degli Ofria. NOME COGNOME anch’egli a conoscenza del ruolo di COGNOME, che lo aveva nominato suo referente, senza avere alcun titolo, si era ingerito nella gestione dell’impresa ed impossessato delle entrate derivanti dalla vendita dei pezzi di ricambio.
Tali apprensioni sono state rese possibili proprio in ragione dello sfruttamento della relazione di possesso vantato dall’amministratore giudiziario, conseguente alla sua formale investitura da parte dell’Autorità giudiziaria.
2.3. Va poi aggiunto che le residue censure, sollevate dal ricorrente sempre con riguardo alla ritenuta gravità indiziaria per il delitto di peculato, sono tese a sollecitare una diversa lettura dei dialoghi intercettati, pur a fronte della chiarezza del loro contenuto, e una differente valutazione degli elementi acquisiti, non consentita in questa sede.
Deve ribadirsi che, in tema di impugnazione delle misure cautelari personali, il ricorso per cassazione è ammissibile soltanto se denuncia la violazione di specifiche norme di legge, ovvero la manifesta illogicità della motivazione del provvedimento secondo i canoni della logica e i principi di diritto, ma non anche quando propone censure che riguardino la ricostruzione dei fatti ovvero si risolvano in una diversa valutazione delle circostanze esaminate dal giudice di merito (Sez. 2, n. 27866 del 17/06/2019, COGNOME, Rv. 276976 – 01; Sez. 2, n. 31553 del 17/05/2017, COGNOME, Rv. 270628 – 01; Sez. 6, n. 11194 dell’8/3/2012, COGNOME, Rv. 252178 – 01).
Correlativamente, allorché sia denunciato, con ricorso per cassazione, il vizio di motivazione del provvedimento emesso dal Tribunale del riesame, a questa Corte spetta solo il compito di verificare, in relazione alla peculiare natura del giudizio di legittimità e ai limiti che a esso ineriscono, se il giudice di merito abbia dato adeguatamente conto delle ragioni del decisum e abbia adottato una motivazione congrua rispetto ai canoni della logica e ai principi di diritto che governano l’apprezzamento delle risultanze probatorie.
Non è superfluo rimarcare che, in questa sede, non è possibile operare una reinterpretazione del contenuto delle captazioni acquisite, sulla scorta di quanto prospettato dalla difesa del ricorrente, essendo tale operazione di ermeneutica processuale preclusa alla Corte di cassazione, conformemente al principio di diritto secondo cui, in materia di intercettazioni telefoniche, costituiscono questione di fatto, rimessa all’esclusiva competenza del giudice di merito, l’interpretazione e la valutazione del contenuto delle conversazioni, il cui apprezzamento non può essere sindacato dal giudice di legittimità se non nei limiti della manifesta illogicità e della irragionevolezza della motivazione con cui esse sono recepite (Sez. 2, n. 35181 del 22/05/2013, Vecchio, Rv. 257784 – 01; Sez. 6, n. 11794 dell’11/02/2013, Melfi, Rv. 254439 – 01). Profili, questi ultimi, non sussistenti nel caso in esame, non ravvisandosi nel provvedimento impugnato alcuna incongruità valutativa, avendo invece il Tribunale, nell’attribuire un significato alle conversazioni intercettate, tenuto conto del contesto in cui esse si inserivano.
Le censure relative al concorso esterno del ricorrente nell’associazione dei barcellonesi, formulate nel quinto e sesto motivo del ricorso, non sono fondate.
3.1. Al fine della disamina delle deduzioni difensive, giova ricordare l’iter avuto dalla figura del concorrente esterno nella giurisprudenza di questa Corte.
Come è noto, la configurabilità del concorso eventuale nel reato di associazione per delinquere di tipo mafioso è stata consacrata in maniera compiuta, per la prima volta, dalla sentenza delle Sezioni Unite di questa Corte n. 16 del 05/10/1994 (Demitry, Rv. 199386 – 01), che ha anche delineato la differenza tra il partecipe all’associazione e il concorrente esterno, avendo affermato che «il partecipe all’associazione è colui senza il cui apporto quotidiano, o comunque assiduo, l’associazione non raggiunge i suoi scopi o non li raggiunge con la dovuta speditezza; è, insomma, colui che agisce nella “fisiologia”, nella vita corrente quotidiana dell’associazione, mentre il concorrente eventuale è, per definizione, colui che non vuol far parte dell’associazione e che l’associazione non chiama a “far parte”, ma al quale si rivolge sia per colmare eventuali vuoti temporanei in un determinato ruolo sia, soprattutto, nel
momento GLYPH in GLYPH cui GLYPH la GLYPH “fisiologia” GLYPH dell’associazione GLYPH entra GLYPH in fibrillazione, attraversando una fase “patologica” che, per essere superata, richiede il contributo temporaneo, limitato anche ad un unico intervento, di un esterno; insomma è il soggetto che occupa uno spazio proprio nei momenti di emergenza della vita associativa».
Successivamente le Sezioni Unite, con la sentenza n. 30 del 27/09/1995 (COGNOME, Rv. 202902 – 01), hanno puntualizzato che «ai fini della configurabilità, sul piano soggettivo, del concorso esterno nel delitto associativo non si richiede, in capo al concorrente, il dolo specifico del partecipe, dolo che consiste nella consapevolezza di far parte dell’associazione e della volontà di contribuire a tenerla in vita e a farle raggiungere gli obiettivi che si è prefissa, bensì il dolo generico, consistente nella coscienza e volontà di dare il proprio contributo al conseguimento degli scopi dell’associazione».
Alcune precisazioni sui caratteri della condotta concorsuale sono state operate dalla sentenza delle Sezioni Unite n. 22327 del 30/10/2002 (dep. 2003, Carnevale, Rv. 224181 – 01), che ha stabilito che «assume la qualità di concorrente esterno nel reato di associazione di tipo mafioso la persona che, priva dell’affectio societatis e non essendo inserita nella struttura associativa dell’associazione, fornisce un concreto, specifico, consapevole e volontario contributo, a carattere indifferentemente occasionale o continuativo, dotato di effettiva rilevanza causale ai fini della conservazione o del rafforzamento dell’associazione».
Il punto di approdo dell’elaborazione delle Sezioni Unite è rappresentato dalla sentenza n. 33748 del 12/07/2005 (COGNOME, Rv. 231671 – 01), che ha superato il criterio – accolto dalla sentenza COGNOME – della fisiologia/patologia della fase della vita dell’associazione in cui il contributo si inserisce. Con il nuovo orientamento viene valorizzato il paradigma organizzativo per la ricostruzione della condotta associativa e il modello causale per la descrizione dell’apporto del concorrente esterno. Si è precisato, infatti, che «per l’integrazione del concorso esterno nel reato associativo è necessario che: gli impegni, assunti a favore dell’associazione mafiosa, presentino il carattere della serietà e della concretezza, in ragione dell’affidabilità e della caratura dei protagonisti dell’accordo, dei caratteri strutturali del sodalizio criminoso, del contesto storico di riferimento e della specificità dei contenuti; all’esito della verifica della loro efficacia causale risulti accertato, sulla base di massime di esperienza dotate di empirica plausibilità, che gli impegni assunti abbiano inciso effettivamente e significativamente, di per sé e a prescindere da successive ed eventuali condotte esecutive dell’accordo, sulla conservazione o sul
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rafforzamento delle capacità operative dell’intera organizzazione criminale o di sue articolazioni settoriali».
Quanto all’elemento soggettivo la sentenza COGNOME del 2005 ha escluso la sufficienza del dolo eventuale, inteso come mera accettazione da parte del concorrente esterno del rischio di verificazione dell’evento, ritenuto solamente probabile o possibile insieme con altri risultati intenzionalmente perseguiti.
Va aggiunto che il contributo del concorrente eventuale nel reato associativo rileva in forza dell’art. 110 cod. pen., che ha la funzione di estendere le fattispecie incriminatrici, ricomprendervi i contributi atipici, causalmente rilevanti e consapevoli, alla condotta tipica posta in essere da uno o più concorrenti. Come già affermato da questa Corte, l’art. 110 cod. pen. consente di assegnare rilevanza penale a condotte diverse da quella tipica e ciò nondimeno necessarie o almeno utili, strumentali alla consumazione del reato. D’altra parte le norme sul concorso di persone nel reato sono di carattere generale e, come tali, possono essere applicate a qualsiasi ipotesi di reato e, quindi, anche alle ipotesi di reato “associativo”, dove il modello legale già prevede la partecipazione di più soggetti (cfr. sent. Sez. U. n. 22327 del 30/10/2002 cit.).
3.2. Nel caso in esame, il Collegio della cautela, nel ritenere inconferente la deduzione difensiva sulla inconfigurabilità del concorso esterno realizzato attraverso una condotta omissiva, ha sottolineato che il contributo offerto dal ricorrente al sodalizio si è estrinsecato non solo nell’avere tollerato la gestione dell’impresa da parte dei familiari del proposto ma anche e soprattutto nell’avere attivamente agito nell’interesse degli Ofria, che, per il controllo del territorio, si avvalevano anche dell’impresa COGNOME la cui natura mafiosa era stata riconosciuta dal decreto n. 61/2014 del Tribunale delle misure di prevenzione di Messina.
Difatti, al di là del richiamo all’art. 40 cod. pen., contenuto nell’imputazione provvisoria, al ricorrente è stata contestata una condotta attiva, di piena collaborazione all’attuazione degli interessi degli Ofria, e tale condotta è stata anche riscontrata all’esito delle indagini svolte. Secondo la ricostruzione del quadro indiziario, effettuata nell’ordinanza impugnata e in quella genetica, risulta, ad esempio, che il ricorrente: a) aveva stipulato un contratto per far continuare a lavorare nell’impresa la moglie del proposto; b) è stato ripreso in atteggiamenti familiari con gli Ofria e, in particolare, il 15 febbraio 2024, mentre si appartava con NOME COGNOME, dopo essersi sbarazzato del telefono cellulare: condotta, quest’ultima che, unitamente all’appellativo con il quale definiva la donna (“padrona”), con motivazione non manifestamente illogica, il Tribunale ha considerato quale espressione della sua contiguità con gli Ofria; c) a partire da giugno 2024, aveva informato NOME COGNOME di tutte le novità riguardanti la ditta
e, in un’occasione, aveva accompagnato la donna presso il suo difensore; d) aveva informato gli Ofria della richiesta del rendiconto del Giudice per le indagini preliminari, circostanza, questa, che aveva messo in allarme la famiglia; e) nell’ambito di una vicenda dai contorni opachi, connotata anche da accordi tra il medesimo ricorrente e NOME COGNOME, al fine di ottenere il rilascio di un nuovo registro ex art. 264 d.P.R. n. 495 del 1992, aveva delegato NOME COGNOME a denunciare la distruzione dei libri contabili dell’azienda in occasione di una calamità naturale, evento che, con motivazione non manifestamente illogica, il Tribunale ha escluso essersi mai verificato; f) aveva consentito le appropriazioni di denaro pubblico, ossia del profitto conseguito dall’impresa confiscata per effetto dello svolgimento dell’attività imprenditoriale, da parte dei familiari del proposto; g) si era spinto sino a dare consigli agli Ofria su come mantenere le posizioni consolidate, avendo promesso, addirittura, che avrebbe continuato a coadiuvare l’Agenzia Nazionale dei beni confiscati nel loro esclusivo interesse.
Tali condotte sono state valutate dal Tribunale, con motivazione persuasiva e priva di vizi logici, quale sintomo della consapevole abdicazione di Virgillito allo svolgimento dei propri compiti e della sua sudditanza agli Ofria in funzione della piena realizzazione dei loro interessi.
Quanto al dolo, il Tribunale ha aggiunto che le azioni attraverso le quali il ricorrente aveva dato tale apporto, dimostravano, inoltre, che egli era perfettamente consapevole di come le stesse condotte andassero ad agevolare la causa degli Ofria. Egli aveva permesso il reinserimento nei gangli vitali della ditta dei familiari del proposto e accettato che rilevanti risorse economiche venissero indebitamente drenate dalle casse statali per assicurare il mantenimento ai familiari dell’Ofria, allo stesso detenuto nonché a una pletora di appartenenti al consorzio. Mantenendo la gestione della ditta in capo ai coindagati, l’indagato «aveva permesso di consolidare quella posizione di monopolio sul mercato che, ben lungi dall’aver costituito la risultante di una peculiare capacità imprenditoriale denotata da colui che l’aveva in precedenza gestito, aveva piuttosto rappresentato la patologica attestazione del pervasivo potere della consorteria mafiosa barcellonese».
Siffatte argomentazioni, con cui il Tribunale ha ritenuto sussistente il grave quadro indiziario a carico del ricorrente in ordine al concorso esterno nell’associazione dei barcellonesi, sfuggono a ogni rilievo censorio.
Alla luce di quanto precede, non si ravvisano vizi logici ed errori di diritto nell’ordito motivazionale con cui il Giudice della cautela è pervenuto alla conclusione che le plurime e sistematiche condotte tolleranti e positivamente agevolatrici, poste in essere a vantaggio della famiglia NOME, sono state indubbiamente idonee a mantenere in vita il sodalizio, che, lungi dall’essere
colpito dal provvedimento ablativo, grazie alle compiacenti condotte del ricorrente, protrattesi per un numero di anni assolutamente considerevole, ne è uscito addirittura rafforzato.
4. L’ultimo motivo del ricorso è privo di specificità.
Il ricorrente ha reiterato la medesima doglianza che – con corretti e logici argomenti – è stata disattesa dal Tribunale, che ha evidenziato che non vi erano elementi idonei a superare la doppia presunzione di cui all’art. 275-bis cod. proc. pen., emergendo, al contrario, «un quadro connotato da un esorbitante livello di gravità. L’avere accettato di degradare sè stesso e la nobile funzione, della quale era investito, a strumento nelle mani altrui, non avere avvertito alcuna remora nello strumentalizzare il ruolo pubblico per il perseguimento di finalità illecite, l’avere agito con pervicacia per preservare unicamente le istanze illecite degli Ofria, costituiscono, infatti, condotte dalle quali ben può inferirsi un giudizio straordinariamente negativo sulla personalità del ricorrente».
Il Tribunale ha aggiunto che la sospensione dell’indagato dall’incarico aveva determinato un affievolimento delle esigenze cautelari, che, comunque, erano ancora attuali in ragione «delle allarmanti considerazioni sopra evidenziate». Tali esigenze potevano essere arginate con la misura degli arresti domiciliari con braccialetto elettronico.
A fronte di tali argomentazioni va ricordato che questa Corte ha già chiarito che il requisito dell’attualità del pericolo di reiterazione del reato di cui all’ar 274, comma 1, lett. c), cod. proc. pen., nel testo introdotto dalla L. n. 47/2015, richiede una valutazione prognostica circa la probabile ricaduta nel delitto, fondata sia sulla permanenza dello stato di pericolosità personale dell’indagato dal momento di consumazione del fatto sino a quello in cui si effettua il giudizio cautelare, sia sulla presenza di condizioni oggettive ed “esterne” all’accusato, ricavabili da dati ambientali o di contesto, quali le sue concrete condizioni di vita in assenza di cautele, che possano attivarne la latente pericolosità. Ne consegue che il pericolo di reiterazione è attuale ogni volta in cui sussista un pericolo di recidiva prossimo all’epoca in cui viene applicata la misura, seppur non imminente (cfr. Sez. 2, n. 53645 del 8/9/2016, Lucà, Rv. 268977 – 01).
Si è anche precisato che la valutazione prognostica non può estendersi alla previsione di una “specifica occasione” per delinquere, che esula dalle facoltà del giudice (Sez. 2, n. 47619 del 19/10/2016, COGNOME, Rv. 268508 – 01; Sez. 2, n. 11511 del 14/12/2016, dep. nel 2017, COGNOME, Rv. 269684 – 01).
Siffatta motivazione, con cui il Tribunale, oltre a richiamare la presunzione dettata dall’art. 275, comma 3, cod. proc. pen., ha desunto, in linea con i principi enunciati dalla giurisprudenza di legittimità, come sopra illustrati, dalla
gravità del fatto e dalla personalità dell’indagato la sussistenza del pericolo attuale e concreto di recidiva, sfugge a ogni rilievo censorio.
Con tale apparato giustificativo il ricorrente non si è adeguatamente confrontato, posto che, nella sostanza, si è limitato a contestare il ragionamento, articolato dal Giudice del riesame, senza evidenziare profili di effettiva illogicità.
Al rigetto del ricorso consegue, ai sensi dell’art. 616 cod. proc. pen., la condanna del ricorrente al pagamento delle spese processuali.
P.Q.M.
Rigetta il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese processuali.
Così deciso il 4 luglio 2025.