Sentenza di Cassazione Penale Sez. 4 Num. 6278 Anno 2025
Penale Sent. Sez. 4 Num. 6278 Anno 2025
Presidente: COGNOME
Relatore: COGNOME
Data Udienza: 30/01/2025
SENTENZA
sul ricorso proposto: dalla parte civile COGNOME NOME nato a PREDORE il 10/12/1957 dalla parte civile NOME COGNOME nata a BERGAMO il 02/06/1961 nel procedimento a carico di: COGNOME NOME nato a CALCINATE il 14/07/1935 inoltre:
RESPONSABILE RAGIONE_SOCIALE
avverso la sentenza del 08/05/2024 della CORTE APPELLO di BRESCIA
visti gli atti, il provvedimento impugnato e il ricorso; udita la relazione svolta dal Consigliere NOME COGNOME udito il Pubblico Ministero, in persona del Sostituto Procuratore NOME COGNOME che ha concluso chiedendo dichiararsi l’inammissibilità del ricorso;
uditi i difensori: avvocato NOME COGNOME del foro di BERGAMO in sostituzione ex art.102 c.p.p., per delega scritta, dell’avv. NOME COGNOME del foro di BERGAMO in difesa delle parti civili ricorrenti NOME e NOME COGNOME che ha chiesto l’accoglimento dei motivi di ricorso;
avvocato NOME COGNOME del foro di LATINA in difesa di COGNOME il quale , riportandosi alla memoria depositata, ha chiesto dichiararsi l’inammissibilità del ricorso.
RITENUTO IN FATTO
Con sentenza in data 8 maggio 2024, la Corte di appello di Brescia ha riformato la sentenza pronunciata 1’8 aprile 2022 dal Tribunale di Bergamo con la quale NOME COGNOME era stato ritenuto responsabile del reato di cui all’art. 590 bis, commi 1 e 8, cod. pen. in danno di NOME COGNOME e NOME COGNOME costituiti parti civili in giudizio.
La Corte di appello ha dichiarato non doversi procedere nei confronti dell’imputato per essere il reato estinto per prescrizione, ma, nel valutare la vicenda ai fini di cui all’art. 578 cod. proc. pen., ha «riconosciut l’attenuante cui al comnna VII dell’art. 590 bis cod. pen.».
Per effetto del riconoscimento della attenuante (rectius: della ritenuta rilevanza concausale del comportamento delle persone offese) ha ridotto la provvisionale indicata dal giudice di primo grado, determinandola in C 250.000,00 per NOME COGNOME e in C 150.000,00 per NOME COGNOMEa fronte di provvisionali indicate dal Tribunale rispettivamente in C 500.000,00 e in C 300.000,00). Le restanti statuizioni civili della sentenza impugnata sono state confermate. È stata dunque confermata – per quanto rileva in questa sede – la condanna dell’imputato e, in solido con lui, della responsabile civile Allianz s.p.a., al risarcimento dei dan patiti dalle parti civili, da liquidarsi in separato giudizio.
Il procedimento ha ad oggetto un incidente stradale verificatosi nel primo pomeriggio dell’Il settembre 2016 a Bergamo, in INDIRIZZO
Secondo la concorde ricostruzione dei fatti fornita dai giudici di merito, quel giorno NOME COGNOME si trovava alla guida della propria auto ancorché la sua patente fosse scaduta, viaggiava a una velocità di 57,5 km/h (superiore al limite di 50 km/h previsto nei centri abitati) e investì NOME COGNOME e NOME COGNOME che stavano attraversando la strada. Dalle sentenze di primo e secondo grado risulta che, prendendo come riferimento la direzione dell’auto, l’attraversamento avvenne da sinistra verso destra, con traiettoria lievemente obliqua, e iniziò subito prima di un attraversamento pedonale regolato da impianto sennaforico dotato di un pulsante di chiamata premendo il quale scatta per gli autoveicoli, prima la luce gialla e poi la luce rossa. L’investimento avvenne sulle strisce, a circa un metro e trenta dal marciapiede di destra, quando i due pedoni avevano percorso più della metà della carreggiata. Dalle sentenze di merito emerge che la strada è rettilinea, l’avvistamento dei pedoni era possibile almeno settanta metri prima del punto di impatto e il conducente dell’auto frenò e sterzò solo all’ultimo momento. Le tracce di frenata, infatti, partivano dalle strisce pedonali per poi procedere in direzion obliqua verso sinistra.
Nel capo di imputazione si legge che i pedoni «stavano attraversando la carreggiata nonostante il semaforo indicasse luce rossa». Nel corso del giudizio il tema è stato oggetto di approfondimento, sia con riferimento all’affermazione della penale responsabilità dell’imputato (che, in tesi difensiva, avrebbe dovuto essere esclusa per essere l’evento ascrivibile soltanto all’imprudente comportamento dei pedoni), sia con riferimento alla possibilità di applicare l’attenuante previst dall’art. 590 bis, comma 7, cod. pen.
Il Tribunale ha ritenuto la penale responsabilità dell’imputato osservando che le persone offese furono investite quando avevano quasi completamente attraversato la carreggiata, sicché COGNOME avrebbe potuto evitarle mantenendo una velocità conforme ai limiti stabiliti e prestando maggiore attenzione alla strada. Ha ritenuto, inoltre, che l’attenuante di cui all’art. 590 bis, comma 7, cod. pen. non potesse trovare applicazione. Ha osservato a tal fine che i pedoni erano visibili a settanta metri di distanza e COGNOME frenò soltanto «quando ormai la collisione non era più evitabile», sicché l’incidente fu causato da una distrazione di tale gravità da elidere la rilevanza causale «di ogni eventuale colpa concorrente». Muovendo da queste considerazioni, il Tribunale ha ritenuto «del tutto irrilevante l’accertamento in ordine al fatto che le parti civili attraversassero sulle strisc ovvero in prossimità delle stesse, o che il semaforo proiettasse la luce verde per i pedoni già al momento in cui questi iniziavano l’attraversamento, ovvero successivamente» (pag. 5 della motivazione).
L’imputato ha proposto appello contro la sentenza di primo grado dolendosi dell’affermazione della penale responsabilità e, in subordine, della mancata applicazione dell’attenuante. Ha sottolineato, inoltre, che l’applicazione dell’art. 590 bis, comma 7, cod. pen. non comportava soltanto la riduzione della pena inflitta in primo grado, ma anche la riduzione della provvisionale concessa alle parti civili e ha formulato motivi in tal senso.
Prima che avesse inizio il giudizio di secondo grado (per l’esattezza, in data 11 marzo 2024) è spirato il termine di prescrizione. Pertanto, la Corte di appello ha deciso sulla impugnazione ai sensi dell’art. 578 cod. proc. pen.
La Corte territoriale ha ritenuto sussistente un comportamento colposo delle persone offese sottolineando che, sulla base delle emergenze istruttorie, NOME COGNOME e NOME COGNOME attraversarono in «in direzione non ortogonale, ma obliqua rispetto all’asse stradale»; non impegnarono la carreggiata «in corrispondenza delle strisce pedonali, ma qualche metro più a monte in direzione dell’auto»; non rispettarono «il segnale “rosso” impartito dal semaforo pedonale»; non verificarono «adeguatamente il “campo” dell’attraversamento» (pag. 6 della motivazione). Secondo la sentenza di appello, tale comportamento colposo non esclude la rilevanza causale della condotta tenuta da COGNOME. Questi,
infatti, «pur fruendo di un campo visivo di circa settanta metri nell’ambito di un rettilineo e con luce diurna», non si accorse dalla presenza dei due pedoni in attraversamento e, pertanto, «non può in alcun modo negarsi che egli abbia condotto l’automobile con un grave tasso di disattenzione; disattenzione alla quale si aggiunge – prescindendo dal fatto che la sua patente era scaduta – la circostanza che, pur ottantaduenne all’epoca dei fatti, egli si alla guida de veicolo senza gli strumenti di correzione della vista che pure erano prescritti» (pag. 9 della motivazione).
Così argomentando, la Corte di appello ha ritenuto che, nel caso di specie, non potesse trovare applicazione l’art. 129, comma 2, cod. proc. pen. Conseguentemente, ha dichiarato estinto per prescrizione il reato ascritto all’imputato. Tuttavia (come risulta in termini non equivoci dalla lettura de dispositivo) ha «riconosciuto l’attenuante di cui al comma VII dell’art. 590 bis cod. pen.» e, «per l’effetto», ha ridotto «la provvisionale concessa a NOME NOME all’importo di C 250.000 e quella concessa a NOME al C 150.000».
Dalla motivazione della sentenza risulta che la Corte di appello ha determinato nella misura del 50% «il concorso di colpa delle persone offese» nella causazione dell’evento e, per questo, ha ridotto del 50% la misura delle provvisionali.
Per mezzo del difensore munito di procura speciale, le parti civili costituite – NOME COGNOME e NOME COGNOME hanno proposto ricorso contro la sentenza di appello chiedendo «l’annullamento delle statuizioni civili» in essa contenute.
3.1. Col primo motivo, la difesa delle parti civili ricorrenti deduce vizio motivazione e travisamento della prova. Sostiene che la Corte di appello ha ritenuto che i pedoni abbiano iniziato l’attraversamento con luce rossa per loro e verde per le automobili perché ha travisato il contenuto delle osservazioni svolte dal consulente tecnico di parte ing. NOME COGNOMEl’unico tra i consulenti che come la sentenza impugnata riconosce – ha compiuto uno studio sul ciclo di attivazione del semaforo). A differenza di quanto sostenuto dai giudici di appello, infatti, le argomentazioni sviluppate dal consulente delle parti civili smentiscono le dichiarazioni della teste NOME COGNOME secondo la quale i pedoni iniziarono l’attraversamento quando il semaforo per le auto proiettava luce rossa e dimostrano che, anche se il verde per i pedoni non era ancora scattato, per le auto il semaforo proiettava luce gialla, sicché COGNOME aveva comunque l’obbligo di fermarsi. Secondo i ricorrenti, le sentenze di primo e secondo grado avrebbero travisato le dichiarazioni della COGNOME la quale ha affermato che, quando i pedoni iniziarono ad attraversare, il semaforo pedonale era rosso (ha riferito infatti che aveva premuto il pulsante di chiamata e stava aspettando il verde) e ne ha dedotto
che il semaforo doveva essere verde per le auto, ma non ha certo escluso (non avendolo osservato) che fosse già scattato il giallo.
Secondo la difesa di parte civile, la sentenza impugnata sarebbe incorsa in travisamento della prova anche con riferimento alle dichiarazioni rese da NOME COGNOME. Questo teste ha dichiarato che le persone offese impegnarono la carreggiata al di fuori delle strisce pedonali, ma, secondo i ricorrenti, ciò no comporta affatto che l’attraversamento sia avvenuto in obliquo. Si tratta, infatti, di un minimo discostamento dalle strisce che vi fu solo nella fase iniziale e, quando raggiunsero il centro della carreggiata (dunque prima dell’investimento), entrambe le persone offese si trovavano all’interno delle strisce pedonali (dove, infatti, iniziano le tracce di frenata).
3.2. Col secondo motivo, la difesa deduce vizi di motivazione con riferimento all’asserita scarsa attenzione alla strada prestata dalle persone offese nel corso dell’attraversamento. Osserva a tal fine che, secondo quanto riferito dal teste COGNOME, prima di attraversare, COGNOME e COGNOME guardarono a destra e a sinistra. La difesa sostiene che, avendo iniziato l’attraversamento quando il semaforo proiettava luce gialla per le auto, le persone offese usarono la dovuta prudenza nella fase iniziale e nessuna ulteriore cautela era loro richiesta perché, avendo impegnato una strada rettilinea in una situazione di perfetta visibilità, potevano fare affidamento sul corretto comportamento dei conducenti delle auto che fossero sopravvenute, i quali avrebbero dovuto mantenere la velocità prescritta nei centri abitati, avrebbero dovuto fermarsi al semaforo e, comunque, potevano vederli.
3.3. Col terzo motivo, la difesa deduce vizi della motivazione con la quale la Corte di appello ha ritenuto che le condotte colpose attribuite alle persone offese abbiano la stessa gravità della condotta colposa ascritta all’imputato.
Secondo la difesa, anche se i pedoni avessero attraversato «in esatta corrispondenza delle strisce pedonali» e avessero mantenuto un «costante controllo circa l’eventuale sopravvenienza di veicoli», l’evento si sarebbe ugualmente verificato. In primo luogo, perché la distanza tra il punto in cui iniziò l’attraversamento e il passaggio pedonale era contenuta e fu progressivamente colmata (tanto che l’investimento avvenne in corrispondenza delle strisce); in secondo luogo, perché il superamento dei limiti di velocità da parte dell’imputato avrebbe «neutralizzato» l’efficacia di ogni tentativo di spostarsi compiuto dai pedoni dopo essersi accorti della presenza dell’auto. In tesi difensiva, a ciò deve aggiungersi che, quando i pedoni iniziarono l’attraversamento, il semaforo proiettava luce gialla per le auto e ciò obbligava l’imputato a fermarsi.
Con memoria in data 27 dicembre 2024, il difensore dell’imputato ha chiesto la dichiarazione di inammissibilità o, in subordine, il rigetto del ricor proposto dalle parti civili.
Il difensore osserva, in primo luogo, che i motivi di ricorso censurano la sentenza della Corte di Appello sotto profili di merito attinenti alla ricostruzion del fatto. Sostiene, dunque, che si tratta di motivi volti ad ottenere una rilettur delle emergenze probatorie e orientata ad una loro diversa valutazione e quindi inammissibili in sede di legittimità.
Sotto diverso profilo, il difensore dell’imputato ricorda che il reato ascritto COGNOME è stato dichiarato estinto per prescrizione, sicché il concorso di colpa delle persone offese e l’entità di tale concorso può incidere soltanto sulla quantificazione della provvisionale. Osserva che, per giurisprudenza costante, la determinazione delle percentuali di colpa ascrivibili all’imputato e alla persona offesa non può essere oggetto di ricorso per Cassazione, perché ha «natura discrezionale, meramente delibativa e non necessariamente motivata» (la difesa cita Sez. 3, n. 18663 del 27/01/2015, D.G., Rv. 263486). La difesa dell’imputato osserva, inoltre (citando Sez. U, n. 2246 del 19/12/1990, dep. 1991, Capelli, Rv. 186722), che «Il provvedimento con il quale il giudice di merito nel pronunciare condanna generica al risarcimento del danno assegna alla parte civile una somma da imputarsi nella liquidazione definitiva non è impugnabile per cassazione, in quanto per sua natura insuscettibile di passare in giudicato e destinato ad essere travolto dall’effettiva liquidazione dell’integrale risarcimento». Sottolinea, infine, che, n giudizio penale, il concorso di colpa del danneggiato assume rilevanza soltanto quando è idoneo da solo a determinare l’evento ai sensi dell’art. 41 cod. pen. Pertanto, il giudice civile resta libero di accertare tale concorso di colpa o escluderlo o di determinarne la percentuale in misura diversa rispetto a quella indicata dal giudice penale. Conclude che, nel caso di specie, il ricorso delle parti civili è inammissibile principalmente (e prioritariamente) per carenza di interesse. Corte di Cassazione – copia non ufficiale
Con memoria in data 10 gennaio 2025 il difensore delle parti civili ricorrenti ha insistito nei motivi proposti e ha chiesto l’annullamento della sentenza impugnata ai sensi dell’art. 622 cod. proc. pen. sostenendo che, per effetto di tale annullamento, dovrebbero essere «confermate le statuizioni civili rese ex artt.74538 cod. proc. pen. con la sentenza del Tribunale di Bergamo in composizione monocratica del 8.4.2022».
All’odierna udienza, svoltasi con trattazione orale perché il difensore dell’imputato ha formulato tempestiva richiesta in tal senso, le parti hanno rassegnato le conclusioni indicate in epigrafe. Il Procuratore generale ha chiesto
dichiararsi l’inammissibilità dei ricorsi per carenza di interesse e, solo in subordine, per manifesta infondatezza.
CONSIDERATO IN DIRITTO
1. La vicenda oggetto del procedimento è stata ricostruita con chiarezza dalle decisioni di merito, concordi nel ritenere che NOME COGNOME sia responsabile dell’incidente nel quale NOME COGNOME e NOME COGNOME riportarono lesioni. La Corte di appello ha condiviso le considerazioni del giudice di primo grado quanto alla rilevanza causale della condotta contestata a COGNOME e al suo carattere colposo e ha dichiarato la prescrizione del reato, intervenuta 1’11 marzo 2024 (in epoca successiva alla pronuncia della sentenza di primo grado). Nel dichiarare la prescrizione, la Corte territoriale ha respinto le argomentazioni sviluppate nei motivi di appello dal difensore dell’imputato, secondo il quale l’incidente era stato determinato in via esclusiva dal comportamento delle persone offese in totale assenza di colpa da parte di COGNOME
Così operando, i giudici di appello hanno fatto applicazione dell’art. 578 cod. proc. pen. Come affermato dalle Sezioni Unite di questa Corte, infatti, «Nel giudizio di appello avverso la sentenza di condanna dell’imputato anche al risarcimento dei danni, il giudice, intervenuta nelle more l’estinzione del reato per prescrizione, non può limitarsi a prendere atto della causa estintiva, adottando le conseguenti statuizioni civili fondate sui criteri enunciati dalla sentenza della Cor costituzionale n. 182 del 2021, ma è comunque tenuto, stante la presenza della parte civile, a valutare, anche a fronte di prove insufficienti o contraddittorie, sussistenza dei presupposti per l’assoluzione nel merito» (in tal senso Sez. U, n. 36208 del 28/03/2024, COGNOME, Rv. 286880 che si pongono in continuità con Sez. U. n. 35490 del 28/05/2009, COGNOME, Rv. 244273, secondo le quali «All’esito del giudizio, il proscioglimento nel merito, in caso di contraddittorietà insufficienza della prova, non prevale rispetto alla dichiarazione immediata di una causa di non punibilità, salvo che, in sede di appello, sopravvenuta una causa estintiva del reato, il giudice sia chiamato a valutare, per la presenza della parte civile, il compendio probatorio ai fini delle statuizioni civili»).
Avendo dichiarato l’estinzione del reato per intervenuta prescrizione, la Corte di appello era chiamata a valutare la responsabilità dell’imputato ai soli effetti civili. Non poteva dunque ritenere circostanze attenuanti. Il dispositivo dell sentenza impugnata, invece, così testualmente recita: «in parziale riforma della sentenza impugnata da COGNOME NOME, riconosciuta l’attenuante di cui al comma
VII dell’art. 590 bis cod. pen., dichiara non doversi procedere nei confronti dell’appellante».
Dalla lettura della motivazione si desume che, a fronte di motivi di appello con i quali era stata chiesta l’applicazione della attenuante in parola (esclusa dal Giudice di primo grado) e la conseguente riduzione, non solo della pena, ma anche dell’importo delle provvisionali, la Corte di appello ha ritenuto di dovers pronunciare sul concorso di colpa delle persone offese.
Nel farlo, ha riconosciuto una attenuante che, avendo dichiarato la prescrizione del reato, non avrebbe potuto ritenere. Questa statuizione, errata in diritto, consegue tuttavia alla ritenuta sussistenza del concorso di colpa delle persone offese e, dunque, a una valutazione che la Corte di appello poteva compiere dovendo decidere sui capi della sentenza concernenti gli interessi civili ai sensi dell’art. 578 cod. proc. pen. L’imputato, peraltro, aveva impugnato in termini espliciti le statuizioni civili della sentenza di primo grado sia con riferime alla esclusione del concorso di colpa sia quanto alla determinazione dell’entità delle provvisionali.
Com’è evidente, le parti civili non potevano proporre ricorso contro la (errata) applicazione della attenuante. Lo hanno proposto, dunque, contro le statuizioni civili riguardanti il riconoscimento del concorso di colpa e la determinazione della misura di tale concorso.
La giurisprudenza è concorde nel ritenere che una impugnazione è ammissibile ai sensi dell’art. 568, comma 4, cod. proc. pen. soltanto se la parte che la propone vi ha interesse. Un interesse che deve essere attuale e concreto: deve quindi «mirare a rimuovere l’effettivo pregiudizio che la parte asserisce di aver subito con il provvedimento impugnato» (per tutte, Sez. U, n. 7 del 25/06/1997, COGNOME, Rv. 208165).
Le Sezioni Unite di questa Corte si sono specificamente occupate dell’interesse della parte civile a impugnare la decisione con la quale l’imputato sia stato prosciolto con la formula “perché il fatto non costituisce reato” e hanno ritenuto sussistente un tale interesse anche quando la formula di assoluzione non ha efficacia preclusiva, osservando che, con la costituzione di parte civile nel giudizio penale, il danneggiato trasferisce «in sede penale l’azione civile di danno e ha quindi interesse ad ottenere nel giudizio penale il massimo di quanto può essergli riconosciuto» (Sez. U, n. 40049 del 29/05/2008, Guerra, Rv. 240815).
L’interesse della parte civile ad impugnare è stato ritenuto sussistente anche con riferimento alle sentenze dichiarative di prescrizione se questa dichiarazione è avvenuta erroneamente e ha prodotto effetti sulle statuizioni civili. Si è affermato che, «nei confronti della sentenza di primo grado che abbia dichiarato l’estinzione
del reato per intervenuta prescrizione, così come nei confronti della sentenza di appello che tale decisione abbia confermato, è ammissibile l’impugnazione della parte civile ove con la stessa si contesti l’erroneità di detta dichiarazione» (Sez U, n. 28911 del 28/03/2019, COGNOME c/ COGNOME, Rv. 275953-01). Si è precisato a tal fine che, in questo caso, «la legittimazione della parte civile ad impugnare deriva direttamente dalla previsione dell’art. 576, comma 1, cod. proc. pen., mentre l’interesse concreto deve individuarsi nella finalità di ottenere, in caso d appello, il ribaltamento della prima pronuncia e l’affermazione di responsabilità dell’imputato, sia pure ai soli fini delle statuizioni civili, e, in caso di ric cassazione, l’annullamento della sentenza con rinvio al giudice civile in grado di appello, ex art. 622 cod. proc. pen., senza la necessità di iniziare “ex novo” il giudizio civile».
È stato così affermato l’ulteriore principio (che ha carattere generale e rileva nel caso oggetto del presente ricorso) secondo il quale: «la valutazione dell’interesse ad impugnare, sussistente allorché il gravame sia in concreto idoneo a determinare, con l’eliminazione del provvedimento impugnato, una situazione pratica più favorevole per l’impugnante, va operata con riferimento alla prospettazione rappresentata nel mezzo di impugnazione e non alla effettiva fondatezza della pretesa azionata» (Sez. U, n. 28911 del 28/03/2019, COGNOME c/ COGNOME, Rv. 275953-02). Si è affermato inoltre che la concretezza dell’interesse ad impugnare deve essere «parametrata al raffronto tra quanto statuito dalla sentenza impugnata e quanto, con l’impugnazione svolta, si vorrebbe invece ottenere» e la valutazione in ordine alla sussistenza di tale interesse «va operata con riferimento alla prospettazione contenuta nel ricorso» (così Sez. U, n. 28911 del 28/03/2019, pag. 19 e pag. 20 della motivazione).
Applicando questi principi, la giurisprudenza successiva ha affermato che «la sussistenza di un interesse concreto della parte civile ad impugnare una pronuncia di proscioglimento per prescrizione va verificata con riferimento alla prospettazione contenuta nell’atto di impugnazione degli specifici effetti favorevoli che la parte civile si ripromette di ottenere e valutando se l’accoglimento dell’impugnazione possa effettivamente comportare la situazione di vantaggio perseguita» (Sez. 5, n. 14015 del 18/02/2020, COGNOME, Rv. 278993).
Nella medesima prospettiva (anche in questo caso prendendo le mosse dai principi di diritto affermati dalle citate sentenze delle Sezioni Unite), si è sostenu che la parte civile ha interesse ad impugnare la sentenza di assoluzione che abbia riconosciuto l’esimente di cui all’art. 599, comma secondo, cod. pen., pur se priva di efficacia preclusiva all’azione civile ai sensi dell’art. 652 cod. proc. pen. S osservato a tal fine: che, avendo scelto di perseguire i propri interessi in sede penale, la parte civile «ha diritto ad osteggiare mediante le impugnazioni una
pronuncia diversa da quella a cui avrebbe aspirato» indipendentemente dal rilievo extrapenale che il codice di rito assegna alla pronunzia di proscioglimento; che «la possibilità di introdurre ex novo un giudizio civile senza vedersi opporre dalla controparte una pronunzia liberatoria normativamente rilevante», non consente di valutare «priva di interesse la scelta della parte civile di perseguire, mediante i potere di impugnazione che l’articolo 576 cod. proc. pen. le conferisce, il riconoscimento del proprio diritto da parte del giudice penale» (Sez. 5, n. 17941 del 07/02/2020, N., Rv. 279205, pag. 7 della motivazione).
4. Nel valutare se, nel caso oggetto del presente ricorso, le parti civili abbiano interesse alla impugnazione proposta ci si deve muovere all’interno di queste coordinate ermeneutiche e si deve tenere presente che, nel caso di specie, i ricorrenti hanno chiesto l’annullamento della sentenza di appello nella parte in cui valuta come colposa la loro condotta attribuendole un ruolo concausale nel verificarsi dell’incidente e nella parte in cui, quantificato nella misura del 50% tal concorso di colpa, determina l’entità delle provvisionali in misura inferiore rispetto a quella indicata dal giudice di primo grado.
5. Come si è detto, i ricorrenti deducono vizi di motivazione della sentenza impugnata nella parte in cui attribuisce loro un concorso di colpa nella causazione dell’evento. La difesa dell’imputato non si è limitata a contrastare tali deduzioni nel merito e ha sostenuto che le parti civili non avrebbero interesse ad impugnare questa statuizione. Anche il Procuratore generale ha sostenuto l’inammissibilità per carenza di interesse del ricorso proposto dalle parti civili.
In questo senso si sono orientate due pronunce di questa Sezione che, richiamando la giurisprudenza civile relativa alla interpretazione dell’art. 651 cod. proc. pen., hanno ritenuto «inammissibile, per carenza di interesse, il ricorso per cassazione della parte civile volto a censurare l’accertamento del giudice di merito in ordine al concorso di colpa della vittima nella determinazione causale dell’evento, trattandosi di accertamento che non ha efficacia di giudicato nell’eventuale giudizio civile per le restituzioni e il risarcimento del danno» (Sez. 4 n. 17219 del 20/03/2019, M., Rv. 275874; Sez. 4, n. 44096 del 04/11/2021, Bianchi, non massimata).
Le sentenze citate giungono a tali conclusioni sulla base dei principi affermati dalla giurisprudenza civile secondo la quale, l’efficacia di giudicato della condanna penale di una delle parti che partecipano al giudizio civile, risarcitorio e restitutori investe, ex art. 651 cod. proc. pen., solo la condotta del condannato e non il fatto commesso dalla persona offesa, pur costituita parte civile, anche se l’accertamento della responsabilità abbia richiesto la valutazione della correlata condotta della
vittima (per tutte, Sez. 3 civile, Sentenza n. 1665 del 29/01/2016, Rv. 638322; Sez.3 civile, Ordinanza n. 21402 del 06/07/2022, Rv. 665209). Sottolineano, inoltre: che il primo comma dell’art. 651 cod. proc. pen. conferisce alla sentenza penale di condanna efficacia di giudicato nel giudizio civile restitutorio e risarcitor promosso nei confronti del condannato «quanto all’accertamento della sussistenza del fatto, della sua illiceità penale e all’affermazione che l’imputato lo h commesso»; che, pertanto, il giudicato investe solo la condotta del condannato; che all’accertamento della sussistenza del fatto si connette l’accertamento della sua illiceità e della sua commissione da parte dell’imputato e che l’accertamento dell’esistenza di una correlata condotta della vittima, rimane esterno a questo ambito.
6. Contrastano con queste considerazioni alcune sentenze delle sezioni civili di questa Corte che – pur avendo ribadito che il giudicato penale in sede civile ha ad oggetto solo l’accertamento della sussistenza del fatto, della sua illiceità penale e l’affermazione che l’imputato lo ha commesso – hanno ridimensionato, almeno in parte, l’affermazione secondo la quale se, in sede penale si accerta un comportamento della vittima (costituita parte civile in giudizio) dotato di efficaci concausale nel verificarsi dell’evento, tale accertamento non ha valore di giudicato nel processo civile.
Rileva nel senso indicato la sentenza n. 15392 del 13/06/2018 (Rv. 649308 01) della Terza Sezione civile, secondo la quale: «Nel giudizio civile risarcitorio, i giudicato penale di condanna spiega effetto vincolante ai sensi dell’art. 651 c.p.p. in ordine all’accertamento del nucleo oggettivo del reato nella sua materialità fenomenica e delle circostanze di tempo, luogo e modo di svolgimento di esso, ma non preclude al giudice civile l’accertamento dell’apporto causale del danneggiato – il quale, se di regola è inidoneo ad escludere la responsabilità penale, può ridurre la responsabilità civile del danneggiante ai sensi dell’art. 1227, comma 1, c.c. ove non sia stato considerato dal giudice penale ai fini dell’accertamento a lui demandato».
Il significato dell’affermazione secondo la quale l’accertamento dell’apporto causale del danneggiato non è precluso «ove non sia stato considerato dal giudice penale ai fini dell’accertamento a lui demandato» è chiarito alla pagina 5 della motivazione, ove si legge: per “fatto” accertato dal giudice penale ai sensi dell’art. 651 cod. pen., «deve intendersi il nucleo oggettivo del reato nella sua materialità fenomenica costituita dall’accadimento oggettivo, accertato dal giudice penale, configurato dalla condotta, evento e nesso di causalità materiale tra l’una e l’altro (fatto principale) e le circostanze di tempo, luogo e modi di svolgimento di esso. Ne consegue che, mentre nessuna efficacia vincolante esplica nel giudizio
civile il giudizio penale – e cioè l’apprezzamento e la valutazione di tali elementi la ricostruzione storico-dinamica di essi è invece preclusiva di un nuovo accertamento da parte del giudice civile, che non può procedere ad una diversa ed autonoma ricostruzione dell’episodio. Altresì rimesso all’accertamento ed alla valutazione del giudice civile è l’elemento soggettivo del fatto, escluso dalla nozione obbiettiva di esso, e non comprensibile nella nozione di «illiceità penale» di cui all’art. 651 cod. proc. pen.».
Sullo specifico tema delle concause e della possibilità di desumere dal giudicato penale effetti preclusivi dell’accertamento in sede civile del concorso di colpa del danneggiato, la sentenza in esame osserva quanto segue (pag. 6 e 7 della motivazione): «una concausa può bensì ridurre la responsabilità civile del danneggiante ai sensi dell’art. 1227, comma primo, cod. civ., ma non esclude di regola la responsabilità penale, per il principio di equivalenza causale ex art. 41 cod. pen.». Pertanto, «l’eventuale apporto causale colposo del danneggiato non necessariamente costituisce lo stesso fatto accertato dal giudice penale per gli effetti di cui all’art. 651 cod. proc. civ. e può essere dunque invocato a proprio favore dal danneggiante convenuto in giudizio per il risarcimento». La sentenza in esame aggiunge che «la ricostruzione storico-dinamica dell’accaduto è preclusiva di un nuovo accertamento da parte del giudice civile, che non può procedere ad una diversa ed autonoma ricostruzione dell’episodio», ma può «indagare su altre modalità del fatto non considerate dal giudice penale ai fini del giudizio a lu demandato, come nella specie il comportamento della parte lesa, negli aspetti in nessun modo esaminati dal giudice penale ed incidenti sull’apporto causale nella produzione dell’evento». A sostegno di tali affermazioni, la sentenza cita: «Cass. 28/03/2001, n. 4504, che ha cassato la sentenza d’appello nella parte in cui aveva ritenuto che la richiesta in sede civile di verifica del concorso di colpa d danneggiato fosse preclusa dall’intervenuto accertamento della sua responsabilità in sede penale in ordine all’omicidio colposo; v. anche Cass. 28/05/2015, n. 11117, che, in base a tale principio, ha ritenuto corretta la decisione di merito che aveva escluso che al giudice civile fosse preclusa l’affermazione della concorrente responsabilità del danneggiato da sinistro stradale dal giudicato penale di condanna della controparte, anche in considerazione del fatto che il giudizio penale si era svolto “sulla base di imputazioni che rendevano del tutto compatibile l’accertamento della responsabilità colposa con l’accertamento, in sede civile, della eventuale corresponsabilità di altri soggetti compreso il danneggiato”; Cass. 01/03/2004, n. 4118, che, in base al richiamato principio, ha ritenuto corretta la decisione di merito che aveva affermato la responsabilità concorrente del danneggiato da sinistro stradale, per il mancato uso del casco protettivo, escludendo la dedotta efficacia preclusiva del giudicato penale Corte di Cassazione – copia non ufficiale
sulla responsabilità dell’altro conducente; non difformemente Cass. 28/09/2004, n. 19387, proprio sulla base dell’esposto principio, ha accolto l’appello della danneggiata, cui il giudice di merito aveva attribuito un concorso di colpa nella causazione del danno, per violazione del giudicato penale di condanna del danneggiante, ravvisato in ragione del contrasto tra gli obiettivi elementi di fatt accertati dal giudice penale e quelli, incompatibili con taluni di essi, posti a bas della sentenza civile)» (così, testualmente, pag. 7 della motivazione).
Così argomentando, la sentenza in esame mette in luce che, quando esclude l’efficacia preclusiva del giudicato penale rispetto alla affermazione della responsabilità concorrente del danneggiato, la giurisprudenza civile compie una valutazione del caso concreto verificando se vi sia contrasto tra il riconoscimento di tale responsabilità concorrente e l’accertamento compiuto in sede penale.
In questa prospettiva, il giudice civile può ritenere sussistente il concorso di colpa del danneggiato, valorizzando aspetti del fatto «in nessun modo esaminati dal giudice penale»; ma, nel ritenere o escludere la responsabilità concorrente del danneggiato, non può procedere ad una «ricostruzione storico-dinamica dell’accaduto» diversa da quella accertata in sede penale. Se ne desume che, quando il giudice penale ha esaminato il comportamento della parte lesa attribuendogli rilevanza causale nella produzione dell’evento (e, per questo, ha ritenuto esistente il concorso di colpa della vittima costituitasi parte civile giudizio), il giudice civile non può escludere la rilevanza causale di quel comportamento.
Depone nello stesso senso la sentenza Sez. 3, n. 26009 del 06/09/2023 (Rv. 669098 – 01), che si riferisce ad un caso nel quale la Corte di cassazione penale aveva dichiarato la prescrizione del reato confermando le statuizioni civili delle sentenze di merito. Con questa decisione, la Terza sezione civile ha affermato che «L’accertamento in sede penale, con efficacia di giudicato, dell’assenza di un concorso di colpa del danneggiato – costituitosi parte civile – preclude, nel giudizio civile risarcitorio, la riduzione della responsabilità del danneggiante ai sens dell’art. 1227, comma 1, c.c.». Leggendo la motivazione di questa sentenza si apprende che, in presenza di un reato dichiarato estinto per prescrizione e di un dispositivo contenente condanna generica al risarcimento dei danni, i giudici civili di merito avevano ritenuto il concorso di colpa del danneggiato, il quale ha proposto ricorso contro tale decisione. Tale ricorso è stato ritenuto fondato perché dalla motivazione delle sentenze penali (prodotte dal ricorrente) emergeva: che nel giudizio penale il concorso di colpa era stato esplicitamente escluso; che l’imputato aveva proposto ricorso per Cassazione contro la condanna sia a fini penali che a fini civili; che la Cassazione aveva dichiarato la prescrizione del reato confermando le statuizioni civili; che, pertanto, sulla non sussistenza del concorso
di colpa della persona offesa (e parte civile costituita) si era formato il giudica ed era preclusa al giudice civile una diversa decisione (Sez. 3, n. 26009 del 06/09/2023, Rv. 669098 – 01, pag. 6 della motivazione).
Nel valutare se la persona offesa costituita parte civile abbia interesse a impugnare una sentenza che abbia riconosciuto il suo concorso di colpa, non si può ignorare l’orientamento della giurisprudenza civile appena illustrato.
In presenza di un tale orientamento, infatti, si deve ritenere che – se nell’ambito dell’accertamento a lui demandato – il giudice penale afferma che la persona offesa costituitasi parte civile ha contribuito causalmente al verificarsi dell’evento, la parte civile ha interesse a ricorrere per Cassazione per ottenere l’annullamento della sentenza che contiene un tale accertamento.
Ed invero, poiché la concretezza dell’interesse ad impugnare deve essere valutata con riferimento alla prospettazione contenuta nel ricorso e «parametrata al raffronto tra quanto statuito dalla sentenza impugnata e quanto, con l’impugnazione svolta, si vorrebbe invece ottenere» (Sez. U, n. 28911 del 28/03/2019, COGNOME c/COGNOME, già citata), la parte civile ha un concreto interesse all’annullamento di una sentenza che ha positivamente accertato il suo concorso di colpa, perché ha interesse ad evitare che il giudice civile possa ritenere preclusa una diversa decisione.
Non contrasta con queste conclusioni – ed è utile precisarlo – la recente sentenza che, in un caso speculare a quello oggetto del presente ricorso, ha ritenuto «inammissibile, per carenza di interesse, il ricorso per cassazione con cui l’imputato lamenta la mancata verifica, da parte del giudice di merito, del concorso di colpa della persona offesa nella causazione dell’evento, posto che tale accertamento non ha efficacia di giudicato nell’eventuale giudizio civile per le restituzioni e il risarcimento del danno. (In motivazione, la Corte ha precisato che nel giudizio civile instaurato a tal fine l’efficacia di giudicato della condanna pena investe, ex art. 651 cod. proc. pen., la sola condotta del condannato e non anche quella della persona offesa, pur se costituita parte civile)» (Sez. 4, n. 14074 del 05/03/2024, COGNOME, Rv. 286187). Nel caso esaminato da questa sentenza, infatti, l’imputato si doleva della mancata verifica del concorso di colpa della persona offesa sicché nel giudizio di merito cui il ricorso per cassazione si riferiva la rilevanza causale della condotta del danneggiato non era stata né accertata né esclusa.
È appena il caso di rilevare che le argomentazioni svolte valgono anche con riferimento alle sentenze pronunciate ai sensi dell’art. 578 cod. proc. pen. quale è quella oggetto del presente ricorso.
Le sezioni civili di questa Corte, infatti, sono concordi nel ritenere che «qualora, in sede penale, sia stata pronunciata in primo o in secondo grado la condanna, anche generica, alle restituzioni e al risarcimento dei danni cagionati dal reato a favore della parte civile, e il giudice di appello o la corte di cassazion nel dichiarare il reato estinto per amnistia o per prescrizione, decidano sull’impugnazione ai soli effetti delle disposizioni e dei capi della sentenza che concernono gli interessi civili, una tale decisione, se la predetta condanna resta confermata, comportando necessariamente, quale suo indispensabile presupposto, l’affermazione della sussistenza del reato e della sua commissione da parte dell’imputato, dà luogo a giudicato civile, come tale vincolante in ogni altro giudizio tra le stesse parti, in cui si verta sulle conseguenze, anche diverse dalle restituzioni o dal risarcimento, derivanti dal fatto, la cui illiceità, definitivamente stabilita, non può più essere messa in discussione». (Sez. 2 civile, Sentenza n. 14921 del 21/06/2010, Rv. 613677 – 01). Nel ribadire tale principio, la Terza Sezione civile di questa Corte ha affermato: «La sentenza del giudice penale che, nel dichiarare estinto per amnistia il reato, abbia altresì pronunciato condanna definitiva dell’imputato al risarcimento dei danni in favore della parte civile, demandandone la liquidazione ad un successivo e separato giudizio, spiega, in sede civile, effetto vincolante in ordine all’affermata responsabilità dell’imputat che, pur prosciolto dal reato, non può più contestare in sede civile i presupposti per l’affermazione della sua responsabilità, quali, in particolare, l’accertamento della sussistenza del fatto reato e l’insussistenza di esimenti ad esso riferibil nonché la “declaratoria iuris” di generica condanna al risarcimento ed alle restituzioni, ma può contestare soltanto l’esistenza e l’entità in concreto di un pregiudizio risarcibile (Sez. 3 civile, n. 2083 del 29/01/2013, Rv. 625080).
Depone nello stesso senso l’ordinanza n. 27055 del 18/10/2024 (Rv. 672491 – 01), secondo la quale: «Qualora il giudice penale, nel dichiarare estinto il reato per prescrizione, pronunci condanna generica dell’imputato al risarcimento del danno in favore della parte civile, a tale statuizione deve riconoscersi efficacia vincolante, in ordine all’affermata responsabilità dell’imputato, nel successivo giudizio civile risarcitorio, che resta deputato unicamente all’accertamento dell’esistenza ed entità in concreto di un pregiudizio risarcibile ex art. 1223 c.c.» (Sez. 3 civile, Ordinanza n. 27055 del 18/10/2024, Rv. 672491 – 01).
9. Alla luce delle considerazioni sin qui sviluppate, nel caso di specie, l’interesse ad impugnare può essere ritenuto sussistente con riferimento ai motivi con i quali le parti civili ricorrenti contestano di aver contribuito con la prop condotta colposa al verificarsi dell’evento. Ne consegue che questi motivi devono essere esaminati nel merito.
Come si è detto, la sentenza impugnata ha ritenuto che il comportamento delle persone offese abbia fornito un contributo causale al verificarsi dell’investimento.
Ha osservato a tal fine (pag. 6 della motivazione):
che, secondo le attendibili dichiarazioni della teste NOME COGNOME, i due pedoni impegnarono la carreggiata da sinistra verso destra (rispetto alla direzione di marcia dell’auto), partendo da una pensilina che (sempre tenendo conto della direzione di marcia dell’auto) era posta prima delle strisce;
che, quando l’attraversamento ebbe inizio, la macchina condotta da COGNOME era visibile e la teste COGNOME ha detto di averla vista;
che anche il teste NOME COGNOME ha reso dichiarazioni in tal senso, affermando che, al momento dell’investimento, la donna (NOME COGNOME era sulle strisce e l’uomo (NOME COGNOME era accanto a lei, ma non sulle strisce (la sentenza fa rinvio alla pag. 8 del verbale dell’udienza del 16 dicembre 2021 che è stato allegato all’atto di ricorso).
Secondo la Corte di appello, inoltre, NOME COGNOME e NOME COGNOME iniziarono l’attraversamento senza rispettare il segnale rosso impartito dal semaforo pedonale e senza verificare adeguatamente che la strada fosse sgombra. I ricorrenti sostengono che, per giungere a tali conclusioni, la Corte territoriale avrebbe ignorato le argomentazioni sviluppate dal Consulente tecnico della difesa di parte civile, secondo le quali il pulsante di chiamata del semaforo pedonale era stato premuto dalla COGNOME (che ha reso dichiarazioni in tal senso) e, quando il pulsante viene premuto, quasi istantaneamente, il semaforo per le auto diventa giallo.
La lettura della sentenza impugnata non fornisce riscontro a queste doglianze.
I Giudici di appello hanno sottolineato (pag. 7 della motivazione):
che la tesi secondo la quale il semaforo proiettava luce gialla per le auto non contrasta con le affermazioni della teste COGNOME la quale ha dichiarato di aver premuto il pulsante del semaforo pedonale e di aver visto i due pedoni attraversare mentre ancora stava aspettando il verde (alla luce gialla per le auto corrisponde, infatti, comunque, la luce rossa per i pedoni);
che, non solo secondo la COGNOME, ma anche secondo il teste COGNOME i due pedoni attraversarono col rosso;
che le dichiarazioni rese dal COGNOME (secondo il quale, prima di attraversare, i pedoni guardarono a destra e sinistra, ma poi smisero di guardare), non consentono di escludere un comportamento colposo dei pedoni stessi;
che, «la (teorica) luce gialla proiettata dal semaforo per gli automobilisti» non ha rilevanza dal «punto di vista» dei pedoni, e, nel rispetto delle norme in
materia di disciplina della circolazione stradale, COGNOME e COGNOME non avrebbero comunque dovuto iniziare l’attraversamento fintantoché il semaforo pedonale proiettava luce rossa;
che un diverso comportamento avrebbe potuto evitare l’investimento e dunque le persone offese contribuirono, con la propria condotta, al verificarsi dell’evento.
Alla luce delle argomentazioni sviluppate dalla sentenza impugnata, non può dirsi che i dati probatori (in particolare le considerazioni del consulente delle part civili e le deposizioni dei testimoni oculari) siano stati trasposti in modo inesatt nel ragionamento del giudice di merito o distorti nel loro significato. La motivazione sviluppata dai giudici di appello, peraltro, è completa e scevra da profili d contraddittorietà o manifesta illogicità. Pertanto, le censure dei ricorrenti finiscono per esaurirsi nella richiesta di una rilettura degli elementi di prova, inammissibile nel giudizio di legittimità.
Si rammenta in proposito che, per costante giurisprudenza, il richiamo agli “atti del processo” contenuto nell’art. 606, comma primo, lett. e) , cod. proc. pen., non dà spazio a una rivalutazione in sede di legittimità dell’apprezzamento del contenuto delle prove acquisite, riservato in via esclusiva al giudice del merito. Come è stato opportunamente chiarito: «il vizio di “contraddittorietà processuale” (o “travisamento della prova”) vede circoscritta la cognizione del giudice di legittimità alla verifica dell’esatta trasposizione nel ragionamento del giudice di merito del dato probatorio, rilevante e decisivo, per evidenziarne l’eventuale, incontrovertibile e pacifica distorsione, in termini quasi di “fotografia”, neutra avalutativa, del “significante”, ma non del “significato”, atteso il persistente diviet di rilettura e di reinterpretazione nel merito dell’elemento di prova» (Sez. 5, n. 26455 del 09/06/2022, COGNOME, Rv. 283370).
Si deve valutare a questo punto se le parti civili possano avere interesse a dedurre vizi di motivazione della sentenza impugnata nella parte in cui determina la misura percentuale del concorso di colpa.
È dirimente in proposito la disposizione di cui all’art. 651, comma 1, cod. proc. pen. – già più volte richiamata – in base alla quale «la sentenza penale irrevocabile di condanna pronunciata in seguito a dibattimento ha efficacia di giudicato quanto all’accertamento della sussistenza del fatto, della sua illiceità penale e all’affermazione che l’imputato lo ha commesso, nel giudizio civile o amministrativo per le restituzioni e il risarcimento del danno promosso nei confronti del condannato e del responsabile civile che sia stato citato ovvero sia intervenuto nel processo penale». Ed invero, in presenza di una condanna generica, la valutazione con la quale il giudice penale determina la misura
percentuale del concorso di colpa della persona offesa costituita parte civile in giudizio, è estranea all’accertamento della «ricostruzione storico-dinamica dell’accaduto» e, come si è chiarito, solo questo accertamento – che riguarda il nucleo oggettivo del reato nella sua materialità fenomenica – ha efficacia di giudicato nel processo civile.
Trova pertanto applicazione il principio – consolidato nella giurisprudenza civile di legittimità – secondo il quale la ripartizione percentuale di responsabili nella causazione del danno tra imputato e danneggiato (eventualmente) operata dal giudice penale, non è vincolante nel giudizio per il risarcimento del danno e le restituzioni (Sez.3 civile, Ordinanza n. 21402 del 06/07/2022, Rv. 665209; Sez. 3 civile, Sentenza n. 1665 del 29/01/2016, Rv. 638322; Sez. 3 civile, Sentenza n.11117 del 17-28/05/2015, COGNOME, in motivazione).
La giurisprudenza penale, del resto, non fornisce indicazioni di segno contrario ed è anzi costante nel ritenere che la condanna generica al risarcimento dei danni «costituisce una mera “declaratoria juris” da cui esula ogni accertamento relativo sia alla misura sia alla stessa esistenza del danno, il quale è rimesso al giudice della liquidazione» (Sez. 4, n. 12175 del 03/11/2016, dep. 2017, COGNOME, Rv. 270386; Sez. 2, n. 11813 del 11/04/1989, COGNOME, Rv. 182014).
A questo proposito si è sostenuto che, «in tema di reato colposo, il giudice penale è tenuto ad accertare la colpa concorrente del terzo, rimasto estraneo al giudizio, al solo fine di verificare la rilevanza della sua condotta sull’efficien causale del comportamento dell’imputato e di assicurare la correlazione tra gravità del reato e determinazione della pena, ai sensi dell’art. 133, primo comma, n. 3) cod. pen., dovendosi escludere, in via generale, l’esistenza di un obbligo di quantificazione percentualistica dei diversi fattori causali dell’evento, a meno che egli non sia chiamato a pronunciare statuizioni civilistiche e ricorra il fatto colpos della parte civile» (Sez. 4, n. 23080 del 30/01/2017, Monaco, Rv. 270428).
Alla luce di queste argomentazioni si deve concludere che, quando è ravvisabile un concorso di colpa della persona offesa e il giudice penale ha pronunciato condanna generica al risarcimento del danno, spetta al giudice civile determinare l’incidenza causale dell’imprudenza del danneggiato sulla misura dell’obbligazione risarcitoria e che la indicazione dell’entità del concorso di colpa operata dal giudice penale rileva solo ai fini del trattamento sanzionatorio e della quantificazione della provvisionale. Pertanto, l’impugnazione volta ad ottenere una diversa determinazione della misura percentuale del concorso di colpa delle persone offese costituite parti civili è inammissibile per carenza di interesse.
In tal senso, la giurisprudenza di legittimità si è già pronunciata con la sentenza Sez. 4, n. 4607 del 20/09/2017, dep. 2018, COGNOME, Rv. 271953 (conforme Sez. 4, n. 12333 del 28/02/2024, Corda, non massimata). La massima
estratta dalla sentenza n. 4607 del 20/09/2017 testualmente recita: «Non è accoglibile il ricorso per cassazione della parte civile volto a censurare la statuizione del giudice di merito in ordine alla quantificazione delle percentuali di concorso delle colpe del reo e della vittima nella determinazione causale dell’evento, trattandosi di accertamento che non ha efficacia di giudicato nell’eventuale giudizio civile per le restituzioni e il risarcimento del danno», ma dalla lettura della motivazione emerge che il ricorso, comunque «non accoglibile», è stato valutato inammissibile per difetto di interesse.
11.1. A ciò deve aggiungersi che, quand’anche non inammissibile per carenza di interesse, il motivo avente ad oggetto la ripartizione quantitativa del ritenut concorso di colpa sarebbe comunque manifestamente infondato alla luce di una giurisprudenza consolidata secondo la quale: «le statuizioni del giudice di merito in ordine alla quantificazione delle percentuali di concorso delle colpe del reo e della vittima nella determinazione causale dell’evento costituiscono apprezzamento di fatto non censurabile in sede di legittimità» (Sez. 4, n. 45797 del 22/06/2017, COGNOME, Rv. 271053; Sez. 4, n. 43159 del 20/06/2013, COGNOME, Rv. 258083; Sez. 4, n. 4537 del 21/12/2012, dep. 2013, COGNOME, Rv. 255099).
Resta da valutare se le parti civili possano avere interesse a ricorrere per cassazione contro la decisione con la quale i giudici di merito hanno determinato l’entità delle provvisionali.
In questo caso, la carenza di interesse è evidente. Come noto, infatti, il provvedimento col quale, nel pronunciare condanna generica al risarcimento del danno, il giudice di merito assegna alla parte civile una somma da imputarsi nella liquidazione definitiva non può essere impugnato per cassazione non essendo, per sua natura, suscettibile di passare in giudicato ed essendo «destinato ad essere travolto dall’effettiva liquidazione dell’integrale risarcimento» (Sez. U, n. 2246 del 19/12/1990, dep. 1991, COGNOME, Rv. 186722).
In sintesi – e conclusivamente – nessuno dei motivi di ricorso supera il vaglio di ammissibilità:
i motivi aventi ad oggetto le statuizioni civili con le quali è stato riconosciu il concorso di colpa delle persone offese sono inammissibili perché esula dai poteri della Corte di cassazione quello di una «rilettura» degli elementi di fatto posti a sostegno della decisione, il cui apprezzamento è riservato in via esclusiva al giudice di merito, senza che possa integrare il vizio di legittimità la mera prospettazione di una diversa, e per il ricorrente più adeguata, valutazione delle risultanze processuali (Sez. U, n. 6402 del 30/04/1997, Dessinnone, Rv. 207945);
i motivi aventi ad oggetto la determinazione della misura del ritenuto concorso di colpa e la determinazione dell’entità della provvisionale sono inammissibili per carenza di interesse.
Alla dichiarazione di inannnnissibilità consegue la condanna dei ricorrenti al pagamento delle spese processuali. Tenuto conto della sentenza della Corte costituzionale n. 186 del 13 giugno 2000 e rilevato che non sussistono elementi per ritenere che i ricorrenti non versassero in colpa nella determinazione della causa di inammissibilità, deve essere disposto a carico di ciascuno di loro, a norma dell’art. 616 cod. proc. pen., l’onere di versare la somma di C 3.000,00 in favore della Cassa delle ammende, somma così determinata in considerazione delle ragioni di inammissibilità.
P.Q.M.
Dichiara inammissibili i ricorsi e condanna i ricorrenti al pagamento delle spese processuali e della somma di euro tremila ciascuno in favore della Cassa delle ammende.
Così deciso il 30 gennaio 2025
Il Consigliere estensore
Il Presidente