Sentenza di Cassazione Penale Sez. 5 Num. 29613 Anno 2025
Penale Sent. Sez. 5 Num. 29613 Anno 2025
Presidente: COGNOME NOME
Relatore: COGNOME
Data Udienza: 23/07/2025
SENTENZA
sul ricorso proposto da:
COGNOME NOME nato a PALERMO il 12/11/1985
avverso l’ordinanza del 06/03/2025 del TRIBUNALE di PALERMO Udita la relazione svolta dal Consigliere NOME COGNOME udite le conclusioni del Sostituto Procuratore generale NOME COGNOME che si è riportato alla memoria in atti e ha concluso per l’inammissibilità del ricorso; udito l’avvocato NOME COGNOME e l’avvocato NOME COGNOME in sostituzione dell’avvocato NOME COGNOME difensori di fiducia di NOME COGNOME che hanno illustrato i motivi principali e aggiunti di ricorso ed hanno insistito per l’accoglimento degli stessi.
RITENUTO IN FATTO
Con ordinanza del 6 marzo 2025 il Tribunale di Palermo, Sezione per il riesame, rigettava l’istanza ex art. 309 cod. proc. pen. proposta nell’interesse di NOME COGNOME sottoposto a custodia cautelare in carcere a seguito di ordinanza emessa dal G.i.p. del Tribunale di Palermo in data 14 febbraio 2025 in relazione ai reati seguenti: – per la partecipazione alla associazione mafiosa denominata Cosa Nostra, in particolare «della famiglia mafiosa di NOME COGNOME ricompresa nel mandamento mafioso di NOME COGNOME San Lorenzo ed avere fra l’altro partecipato a riunioni aventi ad oggetto lo scambio di informazioni e la programmazione delle attività criminali; assistito COGNOME NOME nell’espletamento delle sue funzioni di organizzatore della cosca mafiosa anche nell’ambito del settore di attività del traffico di stupefacenti; provveduto
stabilmente ad occuparsi del settore di attività del traffico di stupefacenti, controllato dalla cosca mafiosa, contribuendo a espanderne gli affari incassando e gestendo i relativi proventi eseguito gli ordini ricevuti e le incombenze affidategli» (capo 2); – per la violazione continuata dell’art. 73 d.P.R. 309 del 1990 aggravata dall’art. 416 -bis 1 cod. pen., per «avere con più azioni esecutive del medesimo disegno criminoso, in concorso morale e materiale tra loro senza l’autorizzazione di cui all’art 17 e fuori dall’ipotesi prevista dall’art 75 dello stesso D P R, ricevuto acquistato detenuto commerciato nonché ceduto e venduto a terzi diverse partite di stupefacenti per un ammontare pari ad un prezzo di acquisto di trecento ottantaquattro mila euro fornite da COGNOME NOME e da suoi incaricati. Fatto aggravato perché commesso da tre o più persone in concorso tra loro. Con l’aggravante di avere commesso il delitto al fine di agevolare le attività delle associazioni previste dall’art 416 -bis cod. pen., nella specie con lo scopo di affermare e rafforzare il controllo della famiglia mafiosa di NOME COGNOME nel territorio di influenza e di incrementarne i profitti» (capo 7); per la violazione degli artt. 110629, commi 1 e 2, in relazione all’art. 628, comma 3, nn. 1 e 3, 416 -bis 1 cod. pen. «per avere in concorso morale e materiale» con COGNOME NOME, COGNOME NOME, COGNOME e COGNOME NOME «mediante minaccia posta in essere nei confronti di COGNOME NOME, manifestandosi quali componenti e comunque emissari di cosa nostra, costringendo il medesimo COGNOME e la sua compagna NOME a trasferire la proprietà di una Alfa Romeo TARGA_VEICOLO targata TARGA_VEICOLO già sottratta ai predetti il 21 febbraio 2023, procurato a sé e ad altri ingiusti profitti, consistenti in somme di denaro pretese a titolo di pagamento di precedenti forniture di droga con altrui danno. Con l’aggravante del fatto commesso da più persone riunite; con la aggravante della minaccia posta in essere da persone che fanno parte dell’associazione di cui all’art 416 -bis cod. pen.; con l’aggravante di avere commesso il delitto avvalendosi delle condizioni previste dall’art 416 -bis cod. pen. ed al fine di agevolare l’attività delle associazioni previste dallo stesso articolo nella specie con lo scopo di affermare e rafforzare il controllo della famiglia mafiosa di NOME COGNOME nel territorio di influenza e di incrementarne i profitti. Con l ‘aggravante per COGNOME Domenico, COGNOME NOME e COGNOME NOME di cui all’art 71, d.lgs. n. 159 del 2011, per avere commesso il fatto durante il periodo previsto per l’applicazione di una misura di prevenzione personale e, comunque, sino a tre anni dal momento in cui ne era cessata l ‘ applicazione » (capo 17); infine, per essersi associato all’associazione finalizzata al narcotraffico, ex art. 74, commi 1, 2 e 3 d.P.R. 309 del 1990, aggravata dall’art. 416-bis 1 cod. pen. – aggravante contestata sia quanto al profilo oggettivo che soggettivo – associazione diretta da COGNOME Domenico e COGNOME, nonché organizzata da COGNOME Francesco, risultando altri associati COGNOME COGNOME
COGNOME NOME, COGNOME NOME, COGNOME Salvatore, COGNOME Salvatore, avendo COGNOME fatto parte dell’associazione criminale «occupandosi su mandato dei fratelli COGNOME e di COGNOME di gestire in prima persona i rapporti con fornitori e clienti oltre che di tenere la cassa del sodalizio unitamente a COGNOME» (capo 35).
Avverso tale ordinanza, a mezzo dei difensori di fiducia, propone ricorso per cassazione NOME COGNOME articolando otto motivi, oltre ad un motivo aggiunto, enunciati a seguire nei limiti strettamente necessari per la motivazione, secondo quanto disposto dall’art. 173 disp. att. cod. proc. pen.
Il primo motivo e il primo motivo aggiunto denunciano violazione di legge sostanziale, con riferimento alle norme incriminatrici integranti i titoli cautelari, nonché violazione di legge processuale con riferimento agli artt. 266, 267, 268 e 271, comma 1, 125, comma 1, 192, 273, 291, 292 e 309 cod. proc. pen., oltre che vizio di motivazione quanto alla ritenuta utilizzabilità degli elementi tratti dalle intercettazioni telematiche e di localizzazione relativamente ai decreti nn. 3619 e 3620 del 2024. Il primo motivo aggiunto ripropone la doglianza in ordine ai menzionati decreti di autorizzazione, oltre che con riferimento ai decreti nn. 2872 e 3123 del 2022.
3.1 Quanto al primo motivo, lamenta il ricorrente la dedotta inutilizzabilità sotto plurimi profili.
In primo luogo, l’ordinanza impugnata avrebbe erroneamente ritenuto che solo il decreto n. 3620/24 e non anche il n. 3619/24 (in ricorso al fol. 3 si indica erroneamente il decreto 3620/24) avesse autorizzato intercettazioni a mezzo captatore informatico, cosicché difetterebbe la risposta del Tribunale distrettuale sulla eccezione formulata in sede di riesame quanto al secondo decreto.
In secondo luogo, il decreto autorizzativo dell’uso del captatore informatico difetterebbe della necessaria indicazione delle ragioni che giustificano l’utilizzo di tale modalità di intercettazione, con l’aggiunta delle ragioni che giustificano il menzionato utilizzo nei luoghi indicati nell’art. 614 cod. pen.
Il Tribunale del riesame non avrebbe dato una puntuale risposta all’eccezione, e per altro sarebbe errata nella parte in cui esclude l’inutilizzabilità per l’assenza di motivazione in ordine ai luoghi in cui la captazione sarebbe consentita, come anche non si sarebbe confrontata con l’omessa motivazione da parte del G.i.p. in ordine ai luoghi di cui all’art. 614 cod. pen.
Inoltre, l’ordinanza impugnata risulterebbe in violazione di legge allorquando non ritiene necessaria l’autorizzazione all’uso di personale esterno a quello della polizia giudiziaria analogamente a quanto prescritto dall’art. 267, comma 3, cod.
proc. pen. in ordine alla esecuzione delle intercettazioni medianti impianti diversi da quelli in dotazione alla procura della Repubblica, che implica un onere motivazionale specifico come prescritto dalle Sezioni Unite Aguneche.
Nel caso in esame i decreti esecutivi disposti dal Pubblico ministero risulterebbero carenti di motivazione in quanto non viene giustificata la specifica maggiore idoneità delle apparecchiature e dei software forniti dalla società privata rispetto a quelli offerti da altra società specializzata, in grado di offrire un servizio compatibile con i server della procura della Repubblica.
Inoltre, il Pubblico ministero non avrebbe richiesto al G.i.p. l’autorizzazione allo svolgimento di intercettazioni a mezzo captatore con l’ausilio di una società privata, non risultando neanche motivata l’inidoneità degli impianti della procura della Repubblica di Palermo. Ne consegue l’inutilizzabilità del materiale di indagine acquisito a mezzo dei predetti decreti per violazione dell’art. 271, 267 e 268 cod. proc. pen. e per carenza di motivazione.
3.2 Quanto al primo motivo aggiunto, vengono riproposte le medesime doglianze già formulate con il primo motivo di ricorso, estese anche ai decreti n. 2872/2022 e n. 3123/2022.
Inoltre, il ricorrente prospetta la rilevanza della inutilizzabilità dedotta, che inficerebbe la sussistenza del fumus commissi delicti di tutti i reati costituenti titolo cautelare, richiamando e allegando le informative della polizia giudiziaria del 25 giugno 2024, 2 e 30 settembre 2024, del 4, 5, 6, 20 e 22 novembre 2024, del 17 dicembre 2024.
Il secondo motivo lamenta violazione di legge sostanziale e processuale e vizio di motivazione con riferimento agli artt. 15, 81, 84, 416-bis cod. pen., 74 d.P.R. 309/1990, 125 192, 273 e 309 cod. proc. pen., rappresentando come il Tribunale del riesame abbia fatto mal governo delle regole in merito alla sussistenza del concorso formale fra le due fattispecie associative ritenute sussistenti per il ricorrente -capi 2 e 35 – vertendosi invece in un caso di concorso apparente di norme.
Carente risulterebbe la motivazione impugnata sul punto. Il ricorso, dopo avere distinto il concorso fra reati da quello apparente, rileva come nel caso in esame si verterebbe in tema di una unica associazione, quella mafiosa, dedita al traffico di stupefacenti, senza che quella contestata ex art. 74 d.P.R. 309 del 1990 dimostri una sua effettiva autonomia.
Anche le condotte contestate a Ferrazzano per i capi 2 e 35 sarebbero sostanzialmente sovrapponibili e unica la partecipazione, il che conduce a ritenere sussistente il concorso apparente, essendo l’associazione di stampo mafioso dedita al narcotraffico e contenente, quindi, quella ex art. 74 d.P.R. 309 del 1990.
L’argomento utilizzato dall’ordinanza impugnata, in ordine alla circostanza che l’ associazione mafiosa svolge anche attività ulteriori rispetto a quelle relative allo stupefacente, non dimostra l’esistenza di una struttura organizzativa autonoma dedita solo al narcotraffico, avendo omesso di confrontarsi il Tribunale del riesame con l’identità dei vertici delle due ritenute associazioni criminali, con la medesimezza della cassa, con l’identità dei ruoli assunti dagli associati medesimi, con la circostanza che i soggetti deputati allo smercio erano gli stessi anche associati ex art. 416-bis, mentre trarre la diversità delle due organizzazioni dalla circostanza che un associato mafioso non lo è anche per la compagine dedita al narcotraffico, e viceversa, risulta argomento illogico, a fronte della ben più frequente coincidenza degli altri sodali nelle due organizzazioni.
Avrebbe dovuto il Tribunale del riesame applicare il criterio della consunzione, con applicazione della fattispecie più gravemente punita, evitando la sanzione duplice in violazione del bis in idem sostanziale , e così individuando la fattispecie da applicare in quella più grave.
Per altro, anche errata risulterebbe la motivazione impugnata allorquando esclude che la fattispecie dell’art. 74 cit. sia a tutela dell’ordine pubblico, il che accade anche per il delitto associativo mafioso, mentre il bene della salute pubblica sarebbe tutelato solo in via mediata in quanto verrebbe pregiudicato solo dalla commissione dei delitti fine ex art. 73 d.P.R. 309 del 1990.
In subordine il ricorrente chiede di rimettere la questione alle Sezioni Unite di questa Corte, in relazione alla sussistenza del concorso apparente di norme – o meno -fra gli artt. 416-bis cod. pen. e 74 d.P.R. 309/90, nel caso in cui il partecipe alla consorteria mafiosa abbia il solo ruolo di occuparsi del traffico di stupefacenti controllato dal sodalizio mafioso.
Il terzo motivo lamenta violazione di legge e vizio di motivazione in relazione alla fattispecie dell’art. 416 -bis cod. pen. contestata al capo 2).
Difetterebbe nella ordinanza impugnata la valutazione di sussistenza dei gravi indizi di reato e della qualificata probabilità di colpevolezza, né risulterebbe correlata la motivazione a l ‘prendere parte’ al sodalizio come declinata da Sez. U COGNOME e COGNOME.
La motivazione impugnata si impegna a descrivere il ruolo dell’indagato nell’ambito della associazione ex art. 74 d.P.R. 309 del 1990, rimarcando ne la sua fedeltà, nonostante i richiami per l’aver intrapreso , non autorizzato, iniziative e trattative per la fornitura di stupefacenti con interlocutori agrigentini. La conversazione intercettata fra COGNOME e COGNOME -richiamata in ricorso ai foll. 24 e s. -risulterebbe delineare infatti un ruolo che viene collocato sia nella compagine associativa dedita al narcotraffico sia in quella mafiosa -da qui la denuncia di
travisamento – come anche quanto alla conversazione fra COGNOME e COGNOME, in ordine alla circostanza che COGNOME prendesse ‘materiale’, vale a dire stupefacente. Anche travisata sarebbe la conversazione fra COGNOME e COGNOME, in ordine alla quale non viene spiegato dal Tribunale del riesame quale delle due associazioni criminali riguardi, rispondendo di entrambi il coindagato COGNOME.
L’ordinanza impugnata non rende conto della sussistenza dell’ affectio societatis , offrendo pertanto una motivazione anche contraddittoria.
Il quarto motivo lamenta violazione di legge e vizio di motivazione in ordine al delitto associativo ex art. 74 d.P.R. 309 del 1990.
Ripercorsi gli elementi essenziali per la sussistenza del delitto di associazione ex art. 74 d.P.R. cit. e per la partecipazione alla medesima, il ricorrente lamenta che l’ordinanza impugnata non abbia dato conto della natura stabile del rapporto fra l’indagato e la consorteria, non potendo a tale fine essere sufficiente il solo richiamo alla vicenda della fornitura di stupefacente da parte di COGNOME per oltre 380mila euro, in quanto non si chiarisce né la durata della trattativa, né l’effettività della fornitura e la sua durata, quale ruolo e se lo abbia avuto COGNOME nella trattativa, se abbia acquistato in proprio o per conto del sodalizio come cassiere. La vicenda risulta isolata e non adeguata a integrare la stabilità di rapporti richiesta fra l’associato e il sodalizio, non potendo soccorrere le conversazioni, citate dal precedente motivo di ricorso, oggetto di travisamento, per altro in assenza di riscontri, vertendosi in tema di conversazioni fra terzi che dialogavano su COGNOME.
Il quinto motivo lamenta violazione di legge e vizio di motivazione in ordine al delitto estorsivo contestato al capo 17).
Il Tribunale del riesame avrebbe omesso di prendere atto della inadeguatezza indiziaria dell’ipotesi di conco r so dell’indagato nel delitto in esame, in quanto COGNOME partecipò solo ad un incontro, nel quale non vi fu alcuna manifestazione violenta o minacciosa in danno della persona offesa.
Il sesto motivo lamenta violazione di legge e vizio di motivazione in ordine al delitto di cui all’art. 73 d.P.R. 309 del 1990 contestato al capo 7).
Il ricorrente richiama quanto osservato al quarto motivo, in ordine al difetto di motivazione sul coinvolgimento di Ferrazzano nella trattativa, sulla effettività della stessa e sulla sua conclusione, nonché sulla intervenuta consegna dello stupefacente.
A tal proposito non vi è confronto della ordinanza impugnata con l’ipotesi di tentativo, in difetto di elementi riguardo alla conclusione delle trattative.
Il settimo motivo lamenta violazione di legge e vizio di motivazione in ordine alla violazione dell’art. 292, comma 2, cod. proc. pen. quanto al pericolo di recidiva per COGNOME, oggetto di un motivo aggiunto specifico in sede di riesame. L’ordinanza genetica motivava cumulativamente per tutti gli indagati quanto alla pericolosità sociale e alla necessità della misura cautelare estrema, rilevando il ricorrente come il Tribunale del riesame non abbia il potere di integrare tale valutazione con la personalizzazione in ordine alle esigenze di cautela e alla misura adeguata da applicarsi.
L’ottavo motivo di ricorso lamenta violazione di legge e vizio di motivazione, in relazione alla sussistenza delle esigenze cautelari. La difesa aveva sollevato con la memoria depositata all’udienza di riesame – la questione di legittimità costituzionale in ordine alla presunzione assoluta di adeguatezza della custodia cautelare in carcere per il delitto ex art. 416-bis cod. pen. come già dichiarato dalla Corte costituzionale per il caso di concorso esterno in associazione mafiosa e per i delitti aggravati dall’art. 416 -bis 1 cod. pen.
Per il ricorrente l’art. 275, comma 3, cod. proc. pen. , nella parte in cui prevede la presunzione assoluta di adeguatezza della misura cautelare in carcere, è illegittimo per contrasto con l’art. 3 Cost., per disparità di trattamento, con l’art. 13, comma 1, con l’art. 27, comma 2, cod. pen., risultando la menzionata presunzione in contrasto sia con il criterio di proporzionalità (art. 275, comma 2, cod. proc. pen.) sia anche con la necessità del pericolo concreto e attuale. D’altro canto, la Corte costituzionale ha dichiarato illegittime le norme che prevedevano automatismi -art. 4-bis, comma 1, ord. pen. – prevedendo la natura relativa della presunzione che osta ai permessi premio, e la stessa Corte Edu ha ritenuto non equiparabile la scelta di chi non collabora con la sussistenza di pericolosità sociale. Il che conduce a dover sollevare la questione di legittimità costituzionale in ordine alla norma citata.
Le parti hanno concluso come indicato in epigrafe.
CONSIDERATO IN DIRITTO
Il ricorso è complessivamente infondato.
Vanno valutati in premessa il primo motivo di ricorso e il motivo aggiunto.
2.1 È infondata la doglianza relativa all’omessa motivazione richiesta per l’uso del captatore nei luoghi di cui all’art. 614 cod. pen. in relazione al delitto -art. 416-bis cod. pen. per il quale è stata autorizzata l’intercettazione , ai sensi dell’art. 266, comma 2 -bis, prima parte, cod. proc. pen. trattandosi di delitto inserito nell’elenco dell’art. 51, comma 3 – bis, cod. proc. pen.
Va premesso che l’inserimento del captatore in dispositivo elettronico «lungi dal costituire un autonomo mezzo di ricerca della prova, è solo una particolare modalità tecnica per effettuare l’intercettazione delle conversazioni tra presenti» (così Sez. 5, n. 31606 del 2020, ric. Pici, n.m.). Ciò nel senso che, come si leggerà a seguire, il captatore consente una pluralità di forme di intercettazione: quella di conversazioni fra presenti, come anche quelle attive/passive in relazione a comunicazioni fra soggetti distanti. Le varie tipologie di intercettazioni hanno, pertanto, una diversa regolamentazione.
La doglianza richiama la disciplina inerente alle conversazioni fra presenti intercettate con il captatore informatico su dispositivo elettronico portatile, declinata al comma 2bis dell’art. 266 cod. proc. pen.: «2 -bis. L’intercettazione di comunicazioni tra presenti mediante inserimento di captatore informatico su dispositivo elettronico portatile è sempre consentita nei procedimenti per i delitti di cui all’articolo 51, commi 3-bis e 3-quater, e, previa indicazione delle ragioni che ne giustificano l’utilizzo anche nei luoghi indicati dall’articolo 614 del codice penale, per i delitti dei pubblici ufficiali o degli incaricati di pubblico servizio contro la pubblica amministrazione per i quali è prevista la pena della reclusione non inferiore nel massimo a cinque anni, determinata a norma dell’articolo 4».
Il riferimento all’art. 614 cod. pen. e alla necessità di una motivazione specifica sulle ragioni che ne giustificano l’utilizzo in tali luoghi risulta introdotto in sede di conversione del d.l. 30 dicembre 2019, n. 161, ad opera della l. 28 febbraio 2020, n. 7. Ma tale innovazione, a differenza di quanto ritiene il ricorrente, va riferita esclusivamente ai reati contro la pubblica amministrazione, non anche a quelli citati nella prima parte del comma 2-bis: in tal senso va certamente la lettera della legge, che dapprima afferma che ‘è sempre consentita’ l’intercettazione tra presenti a mezzo captatore per i reati di cui all’articolo 51, commi 3-bis e 3-quater, cod. proc. pen. e solo successivamente, quando regola l’utilizzo dello strumento investigativo per i delitti contro la pubblica amministrazione, richiede la «previa indicazione delle ragioni che ne giustificano l’utilizzo anche nei luoghi indicati dall’articolo 614 del codice penale».
In sostanza, la disposizione normativa, anche nella sua stratificazione temporale, si articola in due segmenti: il primo riferito ai reati di cui all’art. 51, commi 3-bis e 3-quater, e il secondo -separato dal primo, anche a livello semantico, dall’uso di una “prima” virgola seguita dalla congiunzione “e” –
concernente i delitti contro la pubblica amministrazione. L’interpretazione del testo è agevolata dall’uso della virgola parentetica, che, collocata dopo la congiunzione ‘e’ nonché prima e dopo l’inciso ‘previa indicazione delle ragioni che ne giustificano l’utilizzo anche nei luoghi indicati dall’articolo 614 del codice penale’, delimita chiaramente ai soli reati della seconda parte l’ambito applicativo dell’onere motivazionale aggiuntivo. Anche la punteggiatura, pertanto, concorre a svolgere una funzione esplicativa e restrittiva, escludendo i reati di criminalità organizzata dalla necessità di una motivazione più pregnante per l’uso del captatore in luoghi di privata dimora.
Per altro, l’espressione ‘è sempre consentita’, prevista per i reati di criminalità organizzata specificamente indicati, costituisce una deroga, quale lex specialis , rispetto alla previsione del precedente comma 2, che stabilisce che l’ intercettazione fra presenti, ‘ anche ‘ a mezzo dell’inserimento del captatore informatico in un dispositivo elettronico portatile, quando avvenga nei luoghi indicati dall’articolo 614 del codice penale «è consentita solo se vi è fondato motivo di ritenere che ivi si stia svolgendo l’attività criminosa».
Nello stesso senso anche la dottrina, in modo condivisibile, pacificamente distingue il regime previsto per le intercettazioni relative ai reati di cui all’art. 51, commi 3-bis e 3-quater, cod. proc. pen., quale categoria a sé, rispetto a quella dei reati contro la pubblica amministrazione e ai reati cd. comuni.
Infatti, quanto al presupposto motivazionale in ordine ai luoghi ex art. 614 cod. pen.: a) per i reati comuni, l’intercettazione ambientale a mezzo captatore non potrà avvenire in luogo di privata dimora ex art. 614, se non in quanto «vi sia fondato motivo di ritenere che ivi si stia svolgendo l’attività criminosa», come prescritto dall’art. 266, comma 2, cod. proc. pen.; b) per i reati contro la pubblica amministrazione, l’utilizzo del captatore informatico è consentito nei luoghi di privata dimora, pur se non si sta svolgendo una attività criminosa, purché il decreto autorizzativo indichi previamente le «ragioni che ne giustificano l’utilizzo anche nei luoghi indicati dall’articolo 614 del codice penale», ai sensi dell’art. 266, comma 2bis, seconda parte cod. proc. pen.; c) infine, per i reati di cui all’art. 51, commi 3-bis e 3-quater, cod. proc. pen., non si prevede alcun ulteriore onere motivazionale, in quanto la natura del captatore, non di mezzo di prova innovativo ma di strumento tecnologico, colloca l’attività investigativa svolta a mezzo captatore nella categoria delle intercettazioni ambientali, cosicché l’intercettazione ‘è sempre consentita’ nei luoghi di privata dimora (art. 266, comma 2 -bis, prima parte, cod. proc. pen.).
D’altro canto, tale conclusione è coerente con la previsione dell’art. 13 d.l. n. 152 del 1991, convertito con modificazioni dalla l. 12 luglio 1991, n. 203, che oltre a derogare all’art. 267 comma 1 – quanto ai presupposti per le intercettazioni ex
art. 266 cod. proc. pen. richiedendo la necessità (e non la assoluta indispensabilità) per lo svolgimento delle indagini e la sufficienza degli indizi di reato (in luogo della gravità) – prevede che «quando si tratt di intercettazione di comunicazioni tra presenti disposta in un procedimento relativo a un delitto di criminalità organizzata e che avvenga nei luoghi indicati dall’articolo 614 del codice penale, l’intercettazione è consentita anche se non vi è motivo di ritenere che nei luoghi predetti si stia svolgendo l’attività criminosa», senza richiesta di alcun ulteriore onere motivazionale correlato ai luoghi medesimi.
In sostanza, la circostanza che l’inserimento del captatore costituisca solo una innovazione tecnologia per procedere alle intercettazioni delle conversazioni in ambientale, rende applicabili per i reati dell’art. 51, commi 3 -bis e 3 -quater l’art. 13 d.l. cit. e il coerente comma 2 -bis, prima parte, dell’art. 266 cod. proc. pen.
Tutto ciò esclude -a differenza di quanto lamenta il ricorrente – la necessità di una motivazione ad hoc per i reati di criminalità organizzata sopra indicati, quali sono quelli per cui si procede, quanto alle ragioni che giustifichino le intercettazioni ambientali nei luoghi di privata dimora a mezzo captatore.
A tale conclusione deve giungersi sia in relazione ai procedimenti iscritti fino al 31 agosto 2020, sia per quelli iscritti successivamente a partire dal 1 settembre 2020, secondo il criterio temporale dettato dal d.l. n.161 del 2019 convertito con modifiche dalla legge n. 7 del 2020 e successive integrazioni: in relazione a queste ultime captazioni vigono, infatti, le norme introdotte dal d.lgs. n. 216 del 2017 che ha disciplinato, in via generale, l’impiego del captatore informatico.
Infatti, per i procedimenti più risalenti trova applicazione il principio per cui l’intercettazione di comunicazioni tra presenti mediante l’installazione di un captatore informatico in un dispositivo elettronico è consentita nei soli procedimenti per delitti di criminalità organizzata per i quali trova applicazione la disciplina di cui all’art. 13 del D.L. n. 151 del 1991, convertito dalla legge n. 203 del 1991, che consente la captazione anche nei luoghi di privata dimora, senza necessità di preventiva individuazione ed indicazione di tali luoghi e prescindendo dalla dimostrazione che siano sedi di attività criminosa in atto (Sez. U, n. 26889 del 28/04/2016, COGNOME, Rv. 266905 -01).
Quanto ai procedimenti per i delitti di cui all’articolo 51, commi 3-bis e 3quater cod. proc. pen. iscritti dopo il 31 agosto 2020, per l’intercettazione di comunicazioni tra presenti mediante inserimento di captatore informatico su dispositivo elettronico portatile non occorre indicare le ragioni che ne giustifichino l’utilizzo anche nei luoghi indicati dall’articolo 614 cod. pen., in quanto tale indicazione è richiesta soltanto per i delitti dei pubblici ufficiali o degli incaricati di pubblico servizio contro la pubblica amministrazione per i quali è prevista la pena
della reclusione non inferiore nel massimo a cinque anni, determinata a norma dell’articolo 4.
Pertanto, la doglianza difensiva, che lamenta l’omessa motivazione richiesta dall’art. 266, comma 2 -bis, seconda parte, cod. proc. pen. è infondata.
2.2 Deve pertanto affermarsi il principio per cui in tema di intercettazione di comunicazioni tra presenti mediante inserimento di captatore informatico su dispositivo elettronico portatile nei luoghi di privata dimora ex art. 614 cod. pen., sia in relazione ai procedimenti per delitti di criminalità organizzata iscritti fino al 31 agosto 2020 – per i quali trova applicazione la disciplina di cui all’art. 13 del D.L. n. 151 del 1991, convertito dalla legge n. 203 del 1991 – sia per i procedimenti iscritti dopo il 31 agosto 2020 in ordine ai delitti di cui all’articolo 51, commi 3-bis e 3quater cod. proc. pen., ai quali trova applicazione l’art. 266, comma 2 -bis, cod. proc. pen., è consentita l’intercettazione anche nei luoghi di privata dimora, senza necessità di preventiva individuazione ed indicazione di tali luoghi, prescindendo dalla dimostrazione che siano sedi di attività criminosa in atto, non occorrendo inoltre indicare le ragioni che ne giustifichino l’utilizzo anche nei luoghi indicati dall’articolo 614 del codice penale, essendo tale ultimo onere motivazionale richiesto, dalla seconda parte del comma 2bis dell’art. 266 , solo per i delitti dei pubblici ufficiali o degli incaricati di pubblico servizio contro la pubblica amministrazione per i quali è prevista la pena della reclusione non inferiore nel massimo a cinque anni, determinata a norma dell’articolo 4 cod. proc. pen.
2.3 Non di meno occorre, in caso di intercettazione di conversazioni tra presenti a mezzo captatore, un più generale supplemento di motivazione che non riguarda l’utilizzo nei luoghi di cui all’art. 614 cod. pen. bensì la necessità del ricorso allo strumento invasivo del captatore per lo svolgimento delle indagini.
Infatti, ai sensi dell’art. 267, comma 1, terzo periodo, cod. proc. pen. occorre che il decreto che autorizzi l’intercettazione tra presenti, mediante inserimento di captatore informatico su dispositivo elettronico portatile, esponga «con autonoma valutazione le specifiche ragioni che rendono necessaria, in concreto, tale modalità per lo svolgimento delle indagini; nonché, se si procede per delitti diversi da quelli di cui all’articolo 51, commi 3-bis e 3-quater, e dai delitti dei pubblici ufficiali o degli incaricati di pubblico servizio contro la pubblica amministrazione per i quali è prevista la pena della reclusione non inferiore nel massimo a cinque anni, determinata a norma dell’articolo 4, i luoghi e il tempo, anche indirettamente determinati, in relazione ai quali è consentita l’attivazione del microfono».
Si tratta di quella che viene definita efficacemente in dottrina – proprio per distinguerla dalla disciplina per le intercettazioni effettuate con mezzo tecnico tradizionale, data la ben più significativa invasività del captatore informatico nel
bene della riservatezza una ‘motivazione rafforzata’ in ordine alle ragioni che giustificano il ricorso a tale ultima tecnologia.
L’attuale formulazione della norma prevede , quindi, un doppio regime richiedendo sempre -quale che sia il reato per il quale si procede a intercettazioni di comunicazioni fra presenti con captatore che l’autorizzazione dia conto della necessità dello stesso, con autonoma valutazione e in concreto, per lo svolgimento delle indagini.
Diversamente, la necessità della determinazione dei luoghi e del tempo in cui è autorizzata l’attivazione del microfono , come si è anticipato, è prevista esclusivamente per i reati comuni, diversi da quelli ex art. 51 commi 3-bis e 3quater e dai delitti contro la pubblica amministrazione (art. 267, comma 1, seconda parte cod. proc. pen.), cosicché tale secondo onere motivazionale non trova applicazione nel caso del presente procedimento.
Le doglianze difensive mosse con il ricorso si concentrano sul tema della inadeguatezza della motivazione del decreto di autorizzazione in relazione alla necessità dell’utilizzo del captatore.
A tal proposito va evidenziato come l’art. 1, comma 2 -bis, del d.l. 10 agosto 2023, n. 105, convertito con modificazioni dalla l. 9 ottobre 2023, n. 137, ha introdotto nel terzo periodo dell’art. 267, comma 1, le espressioni, riferite dalla delibazione richiesta al giudice, che rafforzano l’onere di motivazione richiedendo che sia esposta «con autonoma valutazione» e «in concreto» la ragione dell’inserimento del captatore per lo svolgimento delle indagini.
A riguardo, deve evidenziarsi come tali innovazioni, non previste nel decretolegge e introdotte, a seguito di dibattito parlamentare, nella legge n. 137 del 2023 – che ha convertito il d.l. 105 del 2023 -siano in vigore dal 10 ottobre 2023 e quindi, in ossequio al principio tempus regit actum , risultino vigenti in relazione ai decreti di autorizzazione emessi da tale data, quindi anche per quelli oggetto della attuale censura, emessi nell’anno 2024.
Difatti la legge n. 137 del 2023 non ha previsto un regime transitorio specifico, a differenza di quanto sancito per la modifica apportata all ‘art. 270, comma 1, che ha visto la soppressione delle parole «e dei reati di cui all’articolo 266, comma 1» fissandone la vigenza esplicitamente per i soli «procedimenti iscritti successivamente alla data di entrata in vigore della legge di conversione del presente decreto».
2.4 Tanto premesso, va chiarito come l’espressione «autonoma valutazione» replichi quanto richiesto dall’art. 292, comma 2, lett. c) e c -bis) cod. proc. pen. in ordine alla motivazione richiesta per i gravi indizi di colpevolezza, le esigenze cautelari e la delibazione degli elementi apportati dalla difesa, in tema di ordinanza cautelare restrittiva della libertà personale.
Come noto, la prescrizione della necessaria autonoma valutazione delle esigenze cautelari e dei gravi indizi di colpevolezza, contenuta nell’art. 292, comma 1, lett. c), cod. proc. pen., come modificato dalla legge n. 47 del 16 aprile 2015, è osservata anche quando l’ordinanza cautelare operi un richiamo, in tutto o in parte, ad altri atti del procedimento, a condizione che il giudice, per ciascuna contestazione e posizione, svolga un effettivo vaglio degli elementi di fatto ritenuti decisivi, senza il ricorso a formule stereotipate, spiegandone la rilevanza ai fini dell’affermazione dei gravi indizi di colpevolezza e delle esigenze cautelari nel caso concreto (Sez. 6, n. 30774 del 20/06/2018, COGNOME, Rv. 273658 -01; conf.: N. 28979 del 2016 Rv. 267350 -01). In sostanza si impone al giudice di esplicitare le ragioni per cui egli ritiene di poter attribuire, al compendio indiziario, un significato coerente all’integrazione dei presupposti normativi per l’adozione della misura e non implica, invece, la necessità di una riscrittura “originale” degli elementi indizianti o di quelli riferiti alle esigenze cautelari (Sez. 5, n. 11922 del 02/12/2015, dep. 21/03/2016, COGNOME, Rv. 266428 -01; la S.C. ha precisato che è legittima la motivazione “per relationem” che risponda ai predetti parametri decisionali di ordine normativo, mentre devono ritenersi non corrispondenti all’obbligo di “autonoma valutazione”, oltre alle motivazioni “graficamente assenti”, quelle caratterizzate da un percorso motivazionale sostanzialmente mancante o meramente apparente; conf.: N. 40978 del 2015 Rv. 264657 – 01, N. 45934 del 2015 Rv. 265068 – 01, N. 47233 del 2015 Rv. 265337 – 01, N. 48962 del 2015 Rv. 265611 – 01, N. 5787 del 2016 Rv. 265983 – 01, N. 8323 del 2016 Rv. 265951 -01).
La richiesta di una motivazione ‘autonoma’ e ‘in concreto’ – in attuazione dell’obbligo costituzionale previsto per tutti i provvedimenti giurisdizionali (art. 111, comma 6, Cost.) – tende quindi , anche per l’autorizzazione per le intercettazioni ambientali a mezzo captatore, a sollecitare il giudice a confrontarsi con la fattispecie concreta, dovendo dare conto delle ragioni di necessità dell’utilizzo del captatore , senza il ricorso a formule stereotipate.
L’onere motivazionale rafforzato è giustificato dai beni di rilievo costituzionale in gioco e dalla necessità di una adeguata ponderazione: serve a bilanciare in modo equilibrato valori di rilievo costituzionale, quali il principio del perseguimento dei reati – che trova la sua ragione nell’obbligatorietà della azione penale ex art. 112 Cost. -e ora , ai sensi dell’art. 292 cod. proc. pen., il bene della libertà personale (art. 13 Cost.), ora , ai sensi dell’art. 267 cod. proc. pen., il diritto alla libertà e segretezza delle comunicazioni (art. 15 Cost.).
Pertanto, il difetto di una autonoma e concreta motivazione richiesta dall’art. 267 cod. proc. pen. – rifluisce , come già affermato in relazione all’art. 292 cod. proc. pen., nell’ambito del vizio di motivazione assente o apparente, vizi sanzionati
dalla inutilizzabilità sancita dall’art. 271, comma 1, che esplicitamente richiama il rispetto delle modalità previste dall’art. 267 cod. proc. pen . Pertanto, ciò che va verificata è l’assenza di motivazione o l’apparenza della stessa in relazione alla necessità dell’uso del captatore.
In conclusione, la motivazione può essere autonoma e concreta senza la necessità che il giudice riproduca il contenuto di altri atti (informativa della polizia giudiziaria, richiesta del pubblico ministero), essendo sufficiente che si riporti agli stessi, purché non ricorra a formule astratte e stereotipate ma si confronti con le risultanze delle indagini, dando conto delle ragioni «specifiche» che giustificano il ricorso al captatore per le intercettazioni ambientali.
2.6. Deve pertanto affermarsi il seguente principio: in tema di intercettazione tra presenti, mediante inserimento di captatore informatico su dispositivo elettronico portatile, la previsione dell’art. 267, comma 1, cod. proc. pen. a seguito delle modifiche apportate dall’art. 1, comma 2-bis, d.l. 10 agosto 2023, n. 105, convertito, con modificazioni, dalla L. 9 ottobre 2023, n. 137 -che richiede che il decreto di autorizzazione motivi «con autonoma valutazione le specifiche ragioni che rendono necessaria, in concreto, tale modalità per lo svolgimento delle indagini», è vigente a partire dal 10 ottobre 2023 in relazione alla data del singolo decreto autorizzativo, in ragione del principio tempus regit actum applicabile nel caso di specie, data l’assenza di una norma transitoria . Rispondente ai criteri di autonomia e concretezza della valutazione è la motivazione, anche per relationem , che svolga un effettivo vaglio degli elementi di fatto ritenuti decisivi, non essendo richiesta una riscrittura “originale” del provvedimento, ma dovendosi evitare il ricorso a formule stereotipate e astratte e a motivazioni oltre che “graficamente assenti”, caratterizzate da un percorso motivazionale sostanzialmente mancante o meramente apparente.
2.7 Delineato l’onere motivazionale al quale è chiamato il giudice, nel caso in esame deve osservarsi come il G.i.p. del decreto n. 3620 del 26 agosto 2024 abbia offerto una motivazione congrua, autonoma e ‘ in concreto ‘ , giustificando il ricorso allo strumento del captatore, dopo avere delineato con assoluta concretezza la sussistenza dei gravi indizi di reato, con specifico riferimento anche al ruolo di COGNOME il cui dispositivo era il ‘bersaglio’ per l’inserimento d el captatore – nelle attività illecite della famiglia mafiosa di NOME COGNOME. Si legge nel decreto: « ritenuto che l’utilizzo del captatore informatico sul dispositivo elettronico portatile indicato si rende necessario per lo svolgimento delle indagini avuto riguardo, nel caso in esame, alle particolari accortezze poste in essere dai soggetti coinvolti nelle indagini medesime al fine di evitare di esporsi agli accertamenti delle Forze dell’Ordine (cosi evitando, innanzitutto, come già emerso, dialoghi telefonici diretti, se non caratterizzati da linguaggio estremamente criptico, che rinvia ad
interlocuzioni di presenza tenute in luoghi che, per le loro caratteristiche, assicurano la riservatezza delle stesse o altrimenti rimandando le comunicazioni a sistemi telematici alternativi); ritenuto, conseguentemente, che la richiesta di intercettazione ambientale mediante captatore informatico inserito nel dispositivo indicato può essere accolta, anche sotto il sopra già richiamato profilo della indispensabilità della medesima ai fini dell’approfondimento delle risultanze investigative sopra riferite non altrimenti acquisibile in ordine ai rapporti effettivamente esistenti tra i soggetti prima indicati ed alle attività delittuose tutte ancora in corso di svolgimento ». Si tratta di motivazione esistente e non affetta da vizio di apparenza, rispondente ai criteri di autonomia della valutazione in concreto, riferendosi alle emergenze tratte dalle indagini (informativa della polizia giudiziaria), dalle quali risultava la strategia degli indagati, posta in essere per la commissione dei reati attraverso cautele comunicative che ne evitavano l’intercettazione con i mezzi tradizionali.
2.8 Vanno esaminate, poi, le doglianze relative alle modalità esecutive dell’intercettazione a mezzo captatore, sia relativamente al coinvolgimento di privati nelle attività di captazione sia in ordine all’utilizzo di impianti esterni alla procura della Repubblica.
Quanto al coinvolgimento dei privati, già è stato osservato da questa Corte, in modo condivisibile, come le operazioni di collocazione e disinstallazione del materiale tecnico, correlate all’attività di intercettazione a mezzo captatore, possono legittimamente essere svolte da personale civile (Sez. 5, n. 32426 del 24/09/2020, COGNOME, Rv. 279779 -02, in motivazione).
D’altro canto, la previsione esplicita dell’art. 268, comma 3 -bis, cod. proc. pen. – per la quale «per le operazioni di avvio e di cessazione delle registrazioni con captatore informatico su dispositivo elettronico portatile, riguardanti comunicazioni e conversazioni tra presenti, l’ufficiale di polizia giudiziaria può avvalersi di persone idonee di cui all’articolo 348, comma 4» – consentono alla polizia giudiziaria il ricorso a personale privato per compiere operazioni che implichino competenze tecniche specialistiche.
Nel caso in esame per un verso va ribadito che l’autorizzazione emessa dal g iudice all’intercettazione include anche ogni attività esecutiva necessaria e non deve, quindi, spingersi a indicare o autorizzare in dettaglio le singole attività esecutive, da svolgersi sotto la direzione del pubblico ministero.
Inoltre, come Sez. 5 COGNOME evidenzia in motivazione, le operazioni di collocazione e disinstallazione del materiale tecnico necessario per eseguire le captazioni costituiscono atti materiali rimessi alla contingente valutazione della polizia giudiziaria, non essendo compito del pubblico ministero indicare le modalità dell’intrusione negli ambiti e luoghi privati ove verrà svolta l’intercettazione, poiché
la finalità di intercettare conversazioni telefoniche e/o ambientali consente all’operatore di polizia la materiale intrusione, per la collocazione dei necessari strumenti di rilevazione nei luoghi oggetto di tali mezzi di ricerca della prova.
In sostanza, come si è sostenuto anche in dottrina, alle intercettazioni ambientali realizzate tramite captatore informatico, pertanto, sono stati estesi i principi giurisprudenziali elaborati con riferimento all’utilizzo di mezzi ‘tradizionali’.
Le ‘ operazioni esecutive ‘ di installazione degli strumenti tecnici atti a captare le conversazioni tra presenti devono ritenersi implicitamente autorizzate ed ammesse con il provvedimento che dispone l’intercettazione; difatti, anche la collocazione di microspie all’interno di un luogo di privata dimora, costituendo una delle naturali modalità attuative di tale mezzo di ricerca della prova, deve ritenersi implicitamente ammessa nel provvedimento che ha disposto le operazioni di intercettazione, senza la necessità di una specifica autorizzazione e comunque non è compito del pubblico ministero indicare le modalità dell’intrusione negli ambiti e luoghi privati ove verrà svolta l’intercettazione (Sez. 6, n. 39403 del 23/06/2017, Nobile, Rv. 270941 -01; Sez. 6, n. 14547 del 31/1/2011, Di COGNOME, Rv. 250032; Sez. 1, n. 24539 del 9/12/2003, dep. 2004, Rigato, Rv. 230097).
D’altro canto, l’art. 268, comma 3 -bis, cod. proc. pen. non è fra quelli citati dall’art. 271 quanto alla individuazione delle cause di inutilizzabilità , che devono essere tassativamente previste. Infatti, in relazione all’art. 89 disp att. cod. proc. pen. e alle modalità ivi indicate, restano valide le affermazioni delle Sezioni Unite che – con la pronuncia n. 36359 del 26/06/2008, COGNOME, Rv. 240395, in motivazione – hanno chiarito come la violazione delle disposizioni sulla redazione del verbale poste dall’art. 89 disp. att. cod. proc. pen. non comporta l’inutilizzabilità dei risultati dell’intercettazione, ostandovi il principio di tassatività che governa la sanzione processuale, e, dunque, l’assenza di riferimenti in tal senso nell’art. 271 cod. proc. pen. Anche Sez. 5, n. 35010 del 30/09/2020, Monaco, Rv. 280398 ha affermato, in modo condiviso da questo Collegio, che in tema di intercettazioni telefoniche o ambientali, anche a mezzo di captatore informatico, non è causa di inutilizzabilità dei risultati di tali operazioni l’inosservanza delle disposizioni di cui all’art. 89 disp. att. cod. proc. pen., anche dopo le modifiche introdotte dal d.lgs. del 29 dicembre 2017, n. 216, essendo tale sanzione prevista solo per i casi tassativamente indicati dall’art. 271 cod. proc. pen.
2.9 Quanto, invece, alla circostanza prescritta dall’art. 268, comma 3, cod. proc. pen. -questo esplicitamente richiamato dall’art. 271, comma 1, cod. proc. pen. -in ordine alla deroga per insufficienza o inidoneità degli impianti situati presso la Procura della Repubblica di Palermo, nel caso in esame il Pubblico ministero ha offerto una adeguata motivazione con il decreto in data 24 agosto
2024, che si riporta a seguire: « con riferimento alla particolare configurazione dei luoghi ove l’intercettazione è stata disposta la ottimale e completa registrazione delle voci e dei suoni può essere garantita solo attraverso l’uso delle apparecchiature e strumenti (sistemi di trasmissioni cd. wireless, sistema digitale per la codifica dei segnali e dispositivi per la connettività fino al sito di inoltro, ripetitori posizionati in prossimità dei luoghi di ascolto, etc.) tecnologicamente diversi dagli impianti ad oggi installati nei locali della Procura della Repubblica; pertanto gli impianti di cui è dotata la Procura della Repubblica sono inidonei sotto il profilo tecnico a garantire la migliore registrazione delle conversazioni di cui si è disposta l’intercettazione; in ragione della contestuale ricorrenza della inidoneità tecnica degli impianti installati nella Procura della Repubblica si versa in uno dei casi che autorizzano il Pubblico Ministero a disporre le operazioni di registrazione e di ascolto si svolgano a mezzo di impianti in dotazione alla polizia giudiziaria ».
Ebbene tale motivazione risulta congrua e certamente non apparente, adeguata a giustificare la inidoneità tecnica degli impianti della Procura a fronte della necessità di utilizzare strumenti tecnologicamente più avanzati di quelli a disposizione. In tal senso la motivazione esaminata, con la quale non si confronta nello specifico il ricorrente, risulta assolutamente in sintonia con il principio evocato, fissato dalle Sez. U, n. 30347 del 12/07/2007, Aguneche, Rv. 236754 -01, per le quali l’obbligo di motivazione del decreto del pubblico ministero che dispone l’utilizzazione di impianti diversi da quelli in dotazione all’ufficio di Procura non è assolto col semplice riferimento alla “insufficienza o inidoneità” degli impianti stessi – che ripete il conclusivo giudizio racchiuso nella formula di legge – ma richiede la specificazione delle ragioni di tale carenza che in concreto depongono per la ritenuta “insufficienza o inidoneità”. Le Sezioni Unite hanno ritenuto che l’adempimento dell’obbligo di motivazione implichi, per il caso di inidoneità funzionale degli impianti della Procura, che sia data contezza, seppure senza particolari locuzioni o approfondimenti, delle ragioni che li rendono concretamente inadeguati al raggiungimento dello scopo, in relazione al reato per cui si procede ed al tipo di indagini necessarie. Non vi è dubbio che il corredo motivazionale nel caso in esame risponda a tali requisiti, in modo concreto, rendendo conto adeguatamente della deroga al regime ordinario prescritto dalla disposizione esaminata, determinata dalla impossibilità di ottenere una ottimale registrazione delle captazioni attraverso strumenti non disponibili presso la Procura della Repubblica quali trasmissioni cd. wireless , sistema digitale per la codifica dei segnali e dispositivi per la connettività fino al sito di inoltro, ripetitori posizionati in prossimità dei luoghi di ascolto, e così via.
Pertanto, la doglianza è infondata.
2.10 Quanto, poi, alla circostanza che il Tribunale del riesame abbia valutato solo il decreto n. 3620 e non anche il decreto n. 3619 del 2024, deve evidenziarsi come la doglianza sia infondata. Infatti, con la memoria depositata al Tribunale del riesame veniva eccepita l’inutilizzabilità delle sole intercettazioni, a mezzo captatore, di conversazioni e comunicazioni fra presenti.
Correttamente il Tribunale del riesame ha escluso il decreto n.3619/24, nonché altri decreti, dalla propria valutazione perché, concentrandosi la doglianza solo sulle intercettazioni aventi ad oggetto le conversazioni e comunicazioni fra presenti, non erano comprese anche altre forme di captazione, come quelle esclusivamente telematiche, relative cioè ai flussi di comunicazione informatica e telematica, quali sono quelle del decreto n. 3619/2024.
Difatti la richiesta del pubblico ministero recante tale ultimo numero r.i.t. del 23 agosto 2024 era tesa ad ottenere l’autorizzazione a intercettare i soli flussi di comunicazione informatica e telematica in entrata ed in uscita dal dispositivo in uso a Stagno Francesco.
La informativa dei Carabinieri del R.o.n.i. di Palermo del 19 agosto 2024 avanzava richiesta, infatti, oltre che di intercettazione delle comunicazioni tra presenti mediante captatore informatico (rifluite nel decreto n.3620/2024), anche di intercettazione delle «conversazioni e comunicazioni avvenute mediante applicativi di messaggistica istantanea (whatsapp, skype, instagram e simili), da svolgersi: in forma PASSIVA delle comunicazioni telematiche, informatiche sull’utenza mobile di rete di rete TIM n. 380. in uso a COGNOME NOME, ; in forma ATTIVA delle comunicazioni telematiche, informatiche e di comunicazioni fra presenti mediante inoculazione di spyware nel dispositivo: smartphone SAMSUMG GALAXY TARGA_VEICOLO avente IMEI n. 35136 e sis tema operativo “Android”, in uso a COGNOME NOME».
Fondando su tale unica informativa di polizia giudiziaria, il mezzo di ricerca della prova richiesto dal Pubblico ministero si articolava in due richieste separate rivolte al G.i.p., con diversi contenuti: l’intercettazione telematica passiva e attiva da un lato, l’intercettazione di conversazioni tra presenti dall’altro . Si è trattato, dunque, di un’attività complessa e distinta nei suoi diversi contenuti.
È bene chiarire che intercettazioni ‘passive’ sono quelle di tipo tradizionale -ossia relative al traffico dati su linea (telefonica fissa e cellulare) che si basano sulla cattura del traffico duplicato dal provider di telecomunicazioni (gestore) che assic ura un servizio di connettività all’indagato e di solito si compongono per gran parte di informazioni cifrate. In sostanza le intercettazioni su linea fissa e mobile -che infatti si riferiscono all’utenza telefonica nella indicazione della polizia giudiziaria in precedenza riportata – permettono solo di accertare che i dispositivi in uso all’indagato sono effettivamente utilizzati.
Per ‘leggere’ tale traffico occorre l’ausilio di una società di settore che consenta di rilevare i dati all’interno del dispositivo , una volta che gli stessi sono stati decodificati dall’utenza ricevente, quindi direttamente all’interno del dispositivo . Tale tecnica viene denominata solitamente ‘intercettazione attiva’, in quanto presuppone non più solo l’ascolto passivo del segnale, ma anche la cattura dell’informazione resa disponibile nel dispositivo dopo la decriptazione.
Tanto premesso, il decreto n. 3619/24 era destinato solo alle intercettazioni telematiche e informatiche, da realizzarsi a mezzo captatore, tanto che il G.i.p. autorizzava la captazione de «i flussi di conversazioni e comunicazioni telematiche e informatiche», non quindi l’intercettazione di conversazioni e comunicazioni ‘in ambientale’.
Tale diversità dell’oggetto delle captazioni autorizzate dai due decreti giustifica l’omessa motivazione da parte Tribunale del riesame , che si cimentava nella valutazione del solo decreto n.3620/24, esorbitando, l’eccezione difensiva , dal contenuto del decreto n. 3619/24.
Non di meno, la rilevabilità d’ufficio della inutilizzabilità, in ogni stato e grado del processo, richiede di verificare anche la fondatezza delle doglianze proposte.
È evidente che non vertendosi in tema di conversazioni fra presenti trova applicazione la disciplina dell’art. 266 -bis cod. proc. pen. e non la disciplina speciale fin qui esaminata per le conversazioni fra presenti di cui agli artt. 266, commi 2 e 2-bis, 267 comma 2-bis.
Il legislatore ha voluto distinguere il bilanciamento degli interessi in gioco: il diritto alla riservatezza non solo delle comunicazioni ma anche relativamente alla propria vita personale, con il quale si confronta l’intercettazione di conversazioni fra presenti a mezzo captatore richiede un maggior onere giustificativo, con la necessità di indicare le ragioni dell’utilizzo del cd. captatore e, quando richiesto, a seconda dei reati, della indicazione dei tempi e dei luoghi, nonché delle ragioni di utilizzo nei luoghi di privata dimora ex art. 614 cod. pen., in quanto il captatore ‘in ambientale’ risulta uno strumento di ‘ intercettazione itinerante ‘ con il dispositivo mobile che, come tale, ha un grado di intrusività di tale intensità da richiedere un corredo motivazionale puntuale e dettagliato.
Diversamente, le intercettazioni telematiche e informatiche non si caratterizzano per la medesima natura ‘itinerante’ e , pertanto, implicano giustificazioni analoghe a quelle proprie delle intercettazioni tradizionali.
Tale distinzione -fra intercettazioni attive e intercettazioni di comunicazioni fra presenti – è stata anche evidenziata in relazione al regime di circolazione dei risultati delle intercettazioni, rinvenendosi replicata nei commi 1 e 1bis dell’art. 270 cod. proc. pen.
Dopo aver affermato che il captatore (c.d.”malware”) si installa su dispositivi mobili (cellulare, computer e tablet) ed è dotato di diverse funzionalità, consentendo l’intercettazione di chiamate vocali, di chat e di messaggi istantanei, ma anche l’ascolto di conversazioni tra presenti, permettendo di intercettate le conversazioni che si svolgano tra più persone che si trovino nelle vicinanze del dispositivo, questa Corte di legittimità ha rilevato come per l’utilizzazione dei risultati di intercettazioni effettuate con captatore informatico per delitti diversi da quelli per cui è stato emesso il decreto autorizzativo, il disposto dell’art. 270, comma 1-bis, cod. proc. pen., nella parte in cui limita l’utilizzazione all’accertamento dei delitti indicati all’art. 266, comma 2-bis, cod. proc. pen., è riferito esclusivamente alla captazione di conversazioni intercorse tra presenti, mentre per quelle che non si svolgono tra presenti opera la clausola di salvezza contenuta nell'”incipit” del medesimo art. 270, comma 1-bis, cod. proc. pen., che rinvia alle condizioni previste nel comma 1 di tale disposizione (Sez. 4, n. 25401 del 20/06/2024, COGNOME, Rv. 286472 01).
In sostanza anche l’art. 270 cod. proc. pen. mantiene ferma e ribadisce la distinzione fra le varie forme di intercettazioni realizzabili a mezzo del captatore informatico, non assimilabili fra loro.
Tornando al caso in esame, occorre verificare se è stato fatto, quindi, con riferimento al decreto n. 3619 del 2024 buon governo delle norme in tema di intercettazioni telematiche e informatiche, ai sensi dell’art. 268 commi 3 e 3 -bis, prima parte.
Pertanto, in relazione al comma 3 dell’ultima disposizione, fermo quanto già evidenziato in ordine ai principi giurisprudenziali richiamati in relazione al parallelo decreto relativo alla intercettazione delle conversazioni fra presenti, occorre evidenziare come la motivazione – offerta dal Pubblico ministero nel decreto di esecuzione del 28 agosto 2024 in ordine all’utilizzo degli impianti esterni alla Procura della Repubblica di Palermo – risulti congrua , avendo osservato come « con riferimento ai sistemi digitali ritenuti dalla polizia giudiziaria come necessari e infungibili per la inoculazione del citato applicativo informatico e per la successiva registrazione la relativa strumentazione informatica necessaria non è installata nei locali della Procura della Repubblica».
A ben vedere si tratta di una motivazione tecnica sostanziale quanto alla inidoneità degli impianti, che giustifica il ricorso a quelli esterni.
Anche l’art. 268, comma 3 -bis, prima parte – che recita: «Quando si procede a intercettazione di comunicazioni informatiche o telematiche, il pubblico ministero può disporre che le operazioni siano compiute anche mediante impianti appartenenti a privati» – risulta consentire il ricorso ad impianti esterni. Nel caso in esame, come emerge dal verbale di esecuzione del 6 settembre 2024, gli
impianti furono forniti dalla impresa privata, ma furono collocati presso i locali della polizia giudiziaria delegata, cosicché alcuna irregolarità può riscontrarsi, fermo restando, per altro, il principio che l’art. 268, comma 3 -bis, non è richiamato dall ‘art. 271, comma 1, cod. proc. pen. cosicché non può essere fonte di inutilizzabilità.
Ne consegue la infondatezza della doglianza.
2.7. Quanto ai decreti nn. 2872/2022 e 3123/2022, dei quali si è dedotta l’inutilizzabilità delle relative risultanze, in disparte la inammissibilità per deficit di decisività, sulla quale si tornerà, va evidenziato che per tali decreti trovava applicazione la disciplina previgente rispetto alla legge Orlando, che ha regolato l’utilizzo del captatore , come delineata da Sez. U COGNOME, in precedenza richiamata.
Difatti i decreti riguardavano un procedimento recante n. 7506/2017 RGNR, con iscrizione antecedente al 1 settembre 2020. Infatti, questa Corte di cassazione ha affermato che in tema di intercettazioni di conversazioni o comunicazioni mediante installazione di un captatore informatico (trojan), la riforma introdotta dal d.lgs. 29 dicembre 2017, n. 216, come modificato dal d.l. 30 aprile 2020, n. 28, convertito dalla legge 25 giugno 2020, n. 70, si applica ai procedimenti iscritti dal 1 settembre 2020, con la conseguenza che i procedimenti in materia di criminalità organizzata iscritti anteriormente a tale data sono soggetti alla disciplina precedentemente in vigore, nel rispetto dei principi affermati dalla sentenza delle Sezioni Unite n. 26889 del 2016 (Sez. 5 , n. 33138 del 28/09/2020, COGNOME, Rv. 279841 -01; conf.: N. 31849 del 2020 Rv. 279769 -01).
Ne consegue che in relazione a tali decreti, dei quali si lamenta la violazione della disciplina specifica in tema di captatore informatico, andava applicato il principio affermato da Sez. U, n. 26889 del 28/04/2016, COGNOME, Rv. 266905 -01 in precedenza richiamato. Pertanto, non possono trovare applicazione le disposizioni invocate quali ragioni di inutilizzabilità, dal ricorrente, ora per allora.
2.8 Va inoltre osservato, quanto al primo motivo, che in tema di ricorso per cassazione sia onere della parte che eccepisce l’inutilizzabilità di atti processuali indicare, pena l’inammissibilità del ricorso per genericità del motivo, gli atti specificamente affetti dal vizio e chiarirne altresì la incidenza sul complessivo compendio indiziario già valutato, sì da potersene inferire la decisività in riferimento al provvedimento impugnato (Sez. Un., n. 23868 del 23/04/2009 dep. 10/06/2009, COGNOME, Rv. 243416).
Tale principio è stato poi in modo specifico ribadito, in modo condivisibile, anche in relazione alle intercettazioni di comunicazioni: qualora in sede di legittimità venga eccepita l’inutilizzabilità dei relativi risultati, è onere della parte, a pena di inammissibilità del motivo per genericità, indicare specificamente l’atto
che si ritiene affetto dal vizio denunciato e la rilevanza degli elementi probatori desumibili dalle conversazioni, posto che l’omissione di tali indicazioni incide sulla valutazione della concretezza dell’interesse ad impugnare (Sez. 5, n. 25082 del 27/02/2019, Baiano, Rv. 277608 -02, in tema di giudizio abbreviato, in ordine al quale i ricorsi degli imputati, non avendo precisato quali, tra le conversazioni poste a fondamento della sentenza impugnata, sarebbero derivate dal decreto emesso in violazione dell’art. 268, comma 3, cod. proc. pen., non consentivano di comprendere quale incidenza la violazione avesse avuto sul processo decisionale; conf.: N. 13213 del 2016 Rv. 266774 -01).
A fronte di tali condivisi e consolidati principi, non emerge dalla prospettazione del primo motivo di ricorso quale sia l’incidenza della dedotta inutilizzabilità in ordine alle conversazioni intercettate a mezzo dei decreti oggetto di censura, vale a dire quelli recanti nn. 3619 e 3620 del 2024.
Pertanto, ne consegue la natura non consentita del primo motivo di ricorso, che non può essere sanata dalla proposizione del motivo aggiunto, che estende la doglianza anche ad altri due decreti nn. 2872/2022 e 3123/2022, rappresentando solo in seconda battuta la rilevanza della dedotta inutilizzabilità. Ma ciò non sana l’originaria inammissibilità. Infatti, sono conseguentemente inammissibili anche i motivi nuovi, atteso che l’inammissibilità dei motivi originari del ricorso per cassazione non può essere sanata dalla proposizione di motivi nuovi, trasmettendosi a questi ultimi il vizio radicale che inficia i motivi originari per l’imprescindibile vincolo di connessione esistente tra gli stessi e considerato altresì che altrimenti verrebbe surrettiziamente aggirata la perentorietà dei termini di impugnazione ( ex multis Sez. 5, n. 48044 del 02/07/2019, COGNOME, Rv. 277850).
Per altro, deve anche evidenziarsi come neanche il motivo aggiunto assicuri il requisito degli effetti disarticolanti della dedotta inutilizzabilità. Si limita, infatti, esclusivamente a richiamare le informative nelle quali le conversazioni conseguenti ai decreti di intercettazione sono state riprodotte, senza alcun confronto specifico con l’illustrazione della decisività che il venir meno delle captazioni avrebbe sulla gravità indiziaria, che va rapportata a ll’ordinanza genetica, non certamente agli atti di polizia giudiziaria.
Ne consegue, comunque, oltre alla infondatezza, anche la natura non consentita delle doglianze mosse con il primo motivo e con il motivo aggiunto.
3. Quanto al secondo motivo di ricorso, lo stesso è infondato
3.1 Va premesso come pacifico sia l’orientamento che, a partire da Sezioni Unite n. 11 del 22/3/2000, Audino, Rv. 215828, in tema di misure cautelari personali, a fronte di un ricorso per cassazione per vizio di motivazione del
provvedimento emesso dal tribunale del riesame, in ordine alla consistenza dei gravi indizi di colpevolezza, ne definisce così l’ambito di delibazione. La Corte ha il compito di verificare, in relazione alla peculiare natura del giudizio di legittimità e ai limiti che ad esso ineriscono, se il giudice di merito abbia dato adeguatamente conto delle ragioni che l’hanno indotto ad affermare la gravità del quadro indiziario a carico dell’indagato, controllando la congruenza della motivazione riguardante la valutazione degli elementi indizianti, rispetto ai canoni della logica e ai principi di diritto che governano l’apprezzamento delle risultanze probatorie (nello stesso senso, Sez. 4, n. 22500 del 03/05/2007, Terranova, Rv. 237012; Sez. F., n. 47748 del 11/08/2014, COGNOME, Rv. 261400; Sez. 4, n. 26992 del 29/05/2013, COGNOME, Rv. 255460; Sez. 2, Sentenza n. 27866 del 17/06/2019, COGNOME, Rv. 276976).
Va anche evidenziato come questo Collegio aderisca all’orientamento autorevole di Sez. U, Spennato: «Il quadro di gravità indiziaria ai fini cautelari, concetto differente da quello enunciato nell’art. 192, comma 2, cod. proc. pen., che allude alla c.d. prova logica o critica, ha, sotto il profilo gnoseologico, una propria autonomia, non rappresenta altro che l’insieme degli elementi conoscitivi, sia di natura rappresentativa che logica, la cui valenza è strumentale alla decisione de libertate , rimane delimitato dai confini di questa e non si proietta necessariamente nel diverso e futuro contesto dibattimentale relativo al definitivo giudizio di merito» (Sez. U, n. 36267 del 30/05/2006, Spennato, Rv. 234598).
Pertanto, la delibazione attuale è funzionale alla verifica della tenuta logica del provvedimento cautelare di secondo grado, in relazione alla gravità indiziaria nei termini di qualificata probabilità di colpevolezza, nella prospettiva da ultimo evidenziata, ovviamente suscettibile di evoluzioni ricostruttive in sede dibattimentale.
3.2 Venendo al motivo di ricorso in esame, questa Corte condivide il consolidato orientamento per i quale i reati di associazione per delinquere, generica o di stampo mafioso, concorrono con il delitto di associazione per delinquere dedita al traffico di sostanze stupefacenti, anche quando la medesima associazione sia finalizzata alla commissione di reati concernenti il traffico degli stupefacenti e di reati diversi (Sez. U, n. 1149 del 25/09/2008, dep. 13/01/2009, Magistris, Rv. 241883; Sez. 1, n. 4071 del 04/05/2018, dep. 30/01/2020, COGNOME, Rv. 278583).
Nello stesso senso è stato anche affermato che l’elemento che caratterizza l’associazione di tipo mafioso rispetto all’associazione dedita al narcotraffico è costituito dal profilo programmatico dell’utilizzo del metodo, che, nell’associazione di cui all’art. 416-bis cod. pen., si estrinseca nell’imposizione di una sfera di dominio sul territorio, con un’operatività non limitata al traffico di sostanze stupefacenti, ma estesa a svariati settori, in cui si inseriscono l’acquisizione della
gestione o del controllo di attività economiche, concessioni, appalti e servizi pubblici, l’impedimento al libero esercizio del voto, il procacciamento di voti in occasione delle consultazioni elettorali (Sez. 6, n. 31908 del 14/05/2019, COGNOME, Rv. 276469 -01: in motivazione la Corte ha precisato che è configurabile il concorso tra i due delitti quando il sodalizio mafioso strutturi al proprio interno un riconoscibile assetto organizzativo specificamente funzionale al narcotraffico).
Tale orientamento scaturisce, quindi, dall’autorevole intervento delle Sezioni Unite che hanno osservato in motivazione come fosse infondata la affermata «impossibilità del concorso tra il delitto di cui all’articolo 416-bis c.p. e quello di cui all’articolo 74 del DPR 309/90».
L’insussistenza di un caso di concorso apparente di norme veniva motivata dalle Sezioni Unite Magistris per le quali «il delitto di cui all’articolo 74 del DPR 309/90 presenta degli elementi specializzanti rispetto a quello di cui all’articolo 416 c.p., perché a tutti gli elementi costitutivi della associazione per delinquere vincolo tendenzialmente permanente, indeterminatezza del programma criminoso, esistenza di una struttura adeguata allo scopo – aggiunge quello specializzante della natura dei reati fine programmati che devono essere quelli previsti dall’articolo 73 del DPR 309/90 (vedi Cass., Sez. V penale, 29 novembre 1999 , n. 5791 e Cass., Sez. VI penale, 14 giugno 1995, n. 11413 ). Cosicché se una associazione venga costituita al solo scopo di operare nel settore del traffico degli stupefacenti gli agenti non potranno essere puniti a doppio titolo, ovvero per la violazione dell’articolo 416 c.p. e dell’articolo 74 del DPR 309/90, mentre se l’associazione ha lo scopo di commettere traffico di stupefacenti ed anche altri reati, è ben possibile che gli agenti vengano puniti per entrambi i reati».
A tal riguardo va evidenziato che criteri come quello della consunzione, invocato in ricorso a dimostrazione dell’assorbimento del delitto associativo mafioso in quello dedito agli stupefacenti, in quanto quest’ultimo è punito più gravemente, non risulta applicabile per individuare i casi di concorso apparente di norme, in quanto nella materia del concorso apparente di norme non operano criteri valutativi diversi da quello di specialità previsto dall’art.15 cod. pen., che si fonda sulla comparazione della struttura astratta delle fattispecie, al fine di apprezzare l’implicita valutazione di correlazione tra le norme, effettuata dal legislatore (Sez. U, n. 20664 del 23/02/2017, COGNOME, Rv. 269668 -01).
L’argomentare serrato di Sez. U COGNOME ha la seguente scansione: a) il concorso apparente di norme ricorre ove, attraverso un confronto degli elementi strutturali (quindi in astratto), più fattispecie risultino applicabili al medesimo fatto. Infatti, il tenore dell’art. 15 cod. pen. non fa riferimento alla fattispecie concreta, bensì a quella astratta, allorquando recita: «Quando più leggi penali o più disposizioni della medesima legge penale regolano la stessa materia, la legge o la disposizione di
legge speciale deroga alla legge o alla disposizione di legge generale, salvo che sia altrimenti stabilito»; b) è quindi l’art. 15 cod. pen. che delimita l’ambito del concorso apparente che sussiste solo se vi è la relazione di specialità ivi descritta. S e non c’è tale relazione si esclude il concorso apparente ed possibile derogare alla regola del concorso di reati solo quando la legge contenga le c.d. clausole di riserva, le quali, inserite nella singola disposizione, testualmente impongono l’applicazione di una sola norma incriminatrice prevalente che si individua seguendo una logica diversa da quella di specialità; c) è sul rapporto di specialità che si fonda anche la comparazione, e quindi l’applicazione delle componenti accessorie del reato (circostanze), posto che le disposizioni di cui agli artt. 68 e 84 cod. pen. informano le correlazioni tra gli elementi eventuali del reato nei medesimi termini previsti dall’art. 15 cod. pen., i cui principi sono volti ad evitare l’addebito plurimo di un accadimento, ove unitariamente valutato dal punto di vista normativo: condizione che si porrebbe in contrasto col principio del ne bis in idem sostanziale; d) la dottrina con ampio e risalente dibattito tende ad ampliare il concorso apparente di norme alle figure dell’assorbimento, della consunzione e dell’ante-fatto o post-fatto non punibile. Per le Sezioni Unite si tratta di «classificazioni …tuttavia prive di sicure basi ricostruttive, poiché individuano elementi incerti quale dato di discrimine, come l’identità del bene giuridico tutelato dalle norme in comparazione e la sua astratta graduazione in termini di maggiore o minore intensità, di non univoca individuazione, e per questo suscettibili di opposte valutazioni da parte degli interpreti. In particolare, la loro applicazione quale criterio ermeneutico è stata ripetutamente negata dalla giurisprudenza delle Sezioni Unite per la mancanza di riferimenti normativi che consentano un collegamento di tale ricostruzione alla voluntas legis ». In sostanza non vi sono ragioni normative che giustifichino la declinazione dei principi evocati dalla dottrina; e) pertanto, la giurisprudenza delle Sezioni Unite risulta invece saldamente fondata sul criterio di specialità, individuato quale unico principio legalmente previsto in tema di concorso apparente; f) il divieto del bis in idem sostanziale trova riconoscimento, quale diritto fondamentale dell’individuo, nell’art. 4 Prot. 7 CEDU e nell’art. 50 della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea, sulla base di quanto specificamente elaborato anche dalla Corte EDU con la sentenza 4 marzo 2014, RAGIONE_SOCIALE ed in successive pronunce sul tema della medesima autorità (Corte EDU, Grande Camera, 15/11/2016, A e B contro Norvegia), fino a giungere alla sentenza della Corte cost. n. 200 del 2016. Ma questi principi non costringono ad abbandonare il criterio della specialità ex art. 15 cod. pen. come unico criterio. Se per un verso le sentenze della Corte Edu e della Corte costituzionale sollecitano la comparazione concreta e complessiva delle fattispecie con particolare distinzione – quanto alla verifica del presupposto
processuale di cui all’art. 649 cod. proc. pen. e del suo corrispondente convenzionale dell’art. 4 Prot. 7 CEDU – al fatto oggetto di contestazione (individuazione dell’unitarietà della fattispecie contestata, elementi costitutivi della stessa, caratterizzati come sempre dalla correlazione azione – evento – elemento psicologico, e dalla loro concreta attribuzione, attraverso il capo di imputazione, alla persona sottoposta a giudizio) i principi convenzionali e costituzionali non escludono che la regolamentazione sostanziale del fatto possa essere descritta in più di una disposizione incriminatrice (penale o amministrativa) stante la più ampia libertà decisionale riconosciuta allo Stato nazionale in argomento. Tali interpretazioni non impediscono di ritenere il concorso di norme nell’ipotesi in cui non si ravvisi la coincidenza materiale nella fattispecie astratta. L’essenza del divieto espresso dalla giurisprudenza della Corte EDU in materia è individuabile nella necessità di non sottoporre ad accertamento due volte l’interessato per il medesimo fatto storico, divieto che non ha natura assoluta, non essendo precluso il perseguimento della persona sottoposta a controllo in due autonome procedure, pur auspicandosi una trattazione unitaria, ma solo la sottoposizione ad autonomo giudizio quando sia stato definito uno dei due».
Tali illuminanti ragioni -ribadite da ultimo anche da Sez. U, n. 27727 del 14/12/2023, dep. 11/07/2024, COGNOME, Rv. 286581 -02, per le quali in tema di concorso apparente di norme, l’art. 15 cod. pen. si riferisce alla sola specialità unilaterale, poiché le altre tipologie di relazioni tra norme, quali la specialità reciproca o bilaterale, non evidenziano alcun rapporto di “genus” a “speciem” consentono di evidenziare come il rapporto fra le due fattispecie associative va effettuato dapprima in astratto, ai fini della verifica della sussistenza della relazione di specialità unilaterale, e, in caso di concorso reale dei reati, in concreto solo per verificare che rispetto al singolo associato sussista il ‘prendere parte’ ai due sodalizi.
Quanto al primo profilo, deve quindi confermarsi che non vi è una relazione di specialità unilaterale fra le due fattispecie astratte, in quanto il delitto associativo mafioso si caratterizza per il metodo mafioso che non caratterizza il delitto associativo in tema di stupefacenti, cosicché il primo ha un elemento specializzante rispetto al secondo. Vi è anche un elemento di specialità del delitto ex art. 74 cit., essendo funzionale il sodalizio in tal caso alla sola commissione dei delitti fine ex art. 73 d.P.R. 309 del 1990, elemento specializzante rispetto al delitto associativo che prevede una pluralità potenziale di delitti nel proprio programma criminoso, fra i quali possono -ma non devono – annoverarsi quelli in tema di stupefacenti.
In sostanza si potrebbe al più rinvenire una relazione di specialità reciproca che in vero non può determinare il concorso apparente di norme per quanto fin qui osservato.
3.3 Venendo alla valutazione ‘ in concreto’, quindi correlata alla gravità indiziaria in ordine al ricorrente, non manifestamente illogica è la ricostruzione operata dal Tribunale del riesame, che rileva la diversità soggettiva almeno parziale -ma in sé indicativa di due organizzazioni diverse – come anche l’esistenza di due ‘casse’ separate dei sodalizi – come si legge al fol. 12 della ordinanza impugnata, e non di una unica cassa come ritiene il ricorrente -oltre che la circostanza che l’attività criminale dell’associazione mafiosa non consistesse esclusivamente nel traffico di stupefacenti all’ ingrosso e al dettaglio, ma anche in altre attività quali la gestione delle scommesse illecite nonché l’attività estorsiva, che alla ordinanza genetica risulta estesa anche alle cd. piazze di spaccio, alle quali si affiancava quale ulteriore delitto fine l’associazione dedita al narcot raffico. In sostanza anche ‘il pizzo’ richiesto alle piazze di spaccio denota logicamente l’esistenza di due organizzazioni autonome.
Pertanto, le doglianze difensive non colgono nel segno a fronte di una complessiva ricostruzione non manifestamente illogica, per altro comprovata anche dalla circostanza che oltre ai delitti in tema di stupefacenti, vi sono anche plurimi delitti estorsivi costituenti delitti fine dell’associazione mafiosa: quello contestato a Ferrazzano, come pure ulteriori delitti oggetto di plurime imputazioni indicate nella ordinanza genetica, commessi da indagati – come COGNOME, COGNOME, COGNOME ritenuti dal G.i.p. associati al sodalizio mafioso sub capo 2) -diversi dai partecipi all’associazione ex art. 74 d.P.R. 309/90 . Pertanto, la diversità soggettiva fra le due compagini associative risulta riguardare anche altri soggetti, oltre COGNOME e COGNOME, ed è, quindi, sintomatica della diversità strutturale delle due organizzazioni criminali.
Accertata l’autonomia dei due contesti organizzativi, il Tribunale del riesame valorizza il contenuto di alcune conversazioni – foll. 13 e ss. della ordinanza impugnata – dalle quali trae il convincimento che COGNOME sia certamente delegato alle attività in tema di stupefacenti, come anche a mantenere i contatti con i fornitori, quindi con un ruolo non di rivenditore al dettaglio, bensì di rilievo, in quanto delegato dei dirigenti dell’organizzazione , ma che, a differenza di altri sodal i dell’associazione ex art. 74 d.P.R. 309 del 1990, sia parte del sodalizio mafioso, tanto che la vicenda relativa al mancato pagamento della fornitura da parte di Capraro , che coinvolgeva le ‘competenze’ di Ferrazzano, vedeva coinvolte più famiglie mafiose.
In tale prospettiva le conversazioni citate dall’ordinanza fra COGNOME e COGNOME, fra COGNOME e COGNOME, fra COGNOME e COGNOME -vengono ritenute dal Tribunale del
riesame, senza illogicità, e anche per differenza dal ruolo di altri indagati, indicative della partecipazione al sodalizio mafioso del ricorrente, come dimostra il concorso di COGNOME nel delitto di estorsione aggravato dall’art. 416 -bis 1, funzionale ad ottenere l’intestazione dell’autovettura ad un prestanome del sodalizio mafioso, quindi anche con finalità di agevolazione della famiglia mafiosa (fol. 16 della ordinanza impugnata).
A tal riguardo, e qui si anticipa anche un tema oggetto delle doglianze mosse con i motivi dedicati ai delitti associativi, deve evidenziarsi come si verta in tema di interpretazione da parte del Tribunale del riesame del contenuto delle conversazioni intercettate che, come noto, è questione di fatto. Infatti, l’interpretazione del linguaggio adoperato dai soggetti intercettati, anche quando sia criptico o cifrato, costituisce questione di fatto, rimessa alla valutazione del giudice di merito, la quale, se risulta logica in relazione alle massime di esperienza utilizzate, si sottrae al sindacato di legittimità (Sez. U, n. 22471 del 26/02/2015, Sebbar, Rv. 2637153). Infatti, in materia di intercettazioni telefoniche, costituisce questione di fatto, rimessa all’esclusiva competenza del giudice di merito, l’interpretazione e la valutazione del contenuto delle conversazioni, il cui apprezzamento non può essere sindacato in sede di legittimità se non nei limiti della manifesta illogicità ed irragionevolezza della motivazione con cui esse sono recepite (Sez. 3, n. 44938 del 05/10/2021, COGNOME Rv. 282337 -01; conf.: N. 46301 del 2013 Rv. 258164 – 01, N. 50701 del 2016 Rv. 268389 – 01, N. 35181 del 2013 Rv. 257784 -01).
Per altro, in sede di legittimità è possibile prospettare un’interpretazione del significato di un’intercettazione diversa da quella proposta dal giudice di merito solo in presenza di travisamento della prova, ossia nel caso in cui il giudice di merito ne abbia indicato il contenuto in modo difforme da quello reale e la difformità risulti decisiva ed incontestabile (Sez. 3, n. 6722 del 21/11/2017, dep. 2018, COGNOME, Rv. 272558 -01; Sez. 5, n. 7465 del 28/11/2013, dep. 2014, COGNOME, Rv. 259516 -01; Sez. 2, 17 ottobre 2007, n. 38915, COGNOME, rv 237994). A ben vedere non si rinviene alcuna manifesta illogicità nell’interpretazione delle conversazioni.
Pertanto, la decisione impugnata risulta in linea con il condivisibile principio per il quale rispondono sia del reato di associazione finalizzata al narcotraffico che di quello di associazione di tipo mafioso, qualora il traffico di stupefacenti rientri tra le attività dell’associazione mafiosa e sia gestito attraverso un’associazione appositamente costituita, diretta dai componenti di quella mafiosa, non solo questi ultimi, ma anche coloro che abbiano operato esclusivamente nell’ambito del traffico di stupefacenti, purché nella consapevolezza che lo stesso fosse gestito dal
sodalizio mafioso (Sez. 6, n. 17002 del 20/03/2025, Diano, Rv. 288048 -01; conf. N. 4651 del 2010 Rv. 245875 -01).
Non sussistono, infine, i presupposti per rimettere nuovamente la questione posta dalla difesa alle Sezioni Unite, non rinvenendosi alcun contrasto, per altro neanche evidenziato dal ricorso, che giustifichi il superamento dell’orientamento maturato e consolidatosi dopo Sez. U Magistris, tanto più che a tale ultimo orientamento aderisce anche questo Collegio, il che esclude l’obbligo di rimessione previsto dall’art. 618, comma 1-bis, cod. proc. pen., introdotto dall’art. 1, comma 66, della I. 23 giugno 2017, n. 103, secondo cui «se una sezione della Corte ritiene di non condividere il principio di diritto enunciato dalle sezioni unite, rimette a queste ultime, con ordinanza, la decisione del ricorso».
4. Il terzo e quarto motivo possono essere trattati congiuntamente.
Va evidenziato come la censura mossa con la memoria depositata in sede di riesame, in ordine alla gravità indiziaria per il capo 2) e il capo 35), risulti in vero del tutto generica.
La memoria si limita a confrontarsi con la sola parte finale dell’ordinanza genetica quanto alle ‘conclusioni’ al fol. 182 (cfr. fol. 12 della memoria; dal fol. 12 al fol. 20 sono proposte le doglianze ora proposte con il secondo motivo del ricorso, sui rapporti fra le due fattispecie associative).
Il confronto con l’ordinanza genetica da parte della memoria è del tutto astratto, perché prescinde dall’esame delle conversazioni analizzate dal G.i.p. da fol. 163 a fol. 182 in ordine agli elementi dai quali trarre la gravità indiziaria per il delitto associativo mafioso e per quello ex art. 74 d.P.R. 309 del 1990.
La conclusione che conduce il G.i.p. a ritenere la gravità indiziaria per i delitti associativi è la seguente: «L’importanza strategica rivestita dal COGNOME ed il contributo essenziale prestato alla cosca nonché il fatto che egli agisse con i fornitori agrigentini e partecipasse alle riunioni quale delegato dallo COGNOME dimostrano dunque la sua piena intraneità alla stessa e la sussistenza delle ipotesi di rea to di cui ai capi 2), 7), 35). D’altra parte All.1182 – la frase riferita dallo Stagno agli agrigentini secondo cui COGNOME, a seguito della confusione che aveva fatto in un momento di difficoltà, era stato ridimensionato da COGNOME dimostra inequivocabilmente il ruolo da questi svolto nell’ambito della famiglia mafiosa. Al predetto si contesta inoltre anche la partecipazione all’estorsione in danno di COGNOME NOME di cui al capo 17 per una partita di droga data al COGNOME e che questi avrebbe dovuto rivendere invece andata perduta a seguito dell’arresto del corriere e del sequestro del carico. Ebbene come si vedrà analizzando l’episodio nella posizione rela tiva al COGNOME, COGNOME e COGNOME obbligavano il debitore a vendere loro la sua auto».
Si tratta di una motivazione non manifestamente illogica e a fronte di tale conclusione la censura non si confronta, quindi, con le conversazioni precedenti, come anche con la parte preliminare della ordinanza cautelare, ove a più riprese si dava conto delle emergenze indiziarie a carico di COGNOME alle quali rinvia l’ordinanza qui impugnata (a titolo esemplificativo, il 16 novembre 2022 COGNOME riferisce a COGNOME che «il traffico di droga … cosa nostra» o poi riferisce a COGNOME – componente della famiglia mafiosa di Partanna Mondello -di essere anello di congiunzione tra il reggente COGNOME NOME e COGNOME NOME che egli aveva messo a controllare il settore dei traffici di droga e che «poteva fare tutti i giri che voleva per vendere la droga ma doveva portare i soldi che servivano anche per i carcerati, per i quali COGNOME impazziva standogli particolarmente a cuore il mantenimento dei sodali»).
L’insieme di tali emergenze consenti va al Tribunale del riesame per un verso di rinviare alla ordinanza genetica, per altro verso di ripercorrere il ruolo di COGNOME (fol. 9 e ss.), di rilevarne la funzione di longa manus dei capi COGNOME NOME e COGNOME, nonché del braccio operativo COGNOME. In sostanza il Tribunale del riesame conferma il ruolo strategico ritenuto dal G.i.p. in quanto il settore stupefacenti delegato a Ferrazzano era funzionale alle ragioni del gruppo mafioso e al sostegno economico dei capi mafiosi detenuti (fol. 10): la strumentalità dell’associazione ex art. 74 d.P.R. cit., quale delitto fine di quello associativo mafioso, è a più riprese affermata dall’ordinanza qui impugnata e in tale contesto il ruolo di rilievo del COGNOME – nel settore strategico fonte di approvvigionamento delle finanze mafiose, funzionali al mantenimento dei sodali detenuti – risulta evidentemente un contributo oltremodo significativo, espresso anche dal concorso nell’estorsione aggravata.
L’o rdinanza genetica e la motivazione del Tribunale del riesame, in assenza di censure specifiche, sono assolutamente in sintonia con i principi della giurisprudenza di legittimità, che consente di trarre la prova dell’esistenza dell’associazione per delinquere e della partecipazione del singolo alla stessa dalla commissione di uno o più delitti scopo ad opera del partecipe.
A riguardo, infatti, per l’associazione per delinquere ‘semplice’ si è evidenziato come singoli episodi di condotte illecite possano essere valutate in proiezione dinamica, anche quanto alla prova della esistenza del sodalizio e, quindi, del ruolo in esso svolto da un indagato (Sez. 3, n. 19198 del 28/02/2017, COGNOME, Rv. 269937 -01).
Analogo principio è stato declinato in tema di associazione per delinquere di stampo mafioso, ritenendo le Sezioni Unite consentito al giudice, pur nell’autonomia del reato mezzo rispetto ai reati fine, dedurre la prova dell’esistenza del sodalizio criminoso dalla commissione dei delitti rientranti nel
programma comune e dalle loro modalità esecutive, posto che attraverso essi si manifesta in concreto l’operatività dell’associazione medesima (Sez. U, Sentenza n. 10 del 28/03/2001, COGNOME, Rv. 218376 -01; Sez. 2, n. 19435 del 31/03/2016, COGNOME, Rv. 266670 -01), poiché la partecipazione può essere desunta da indicatori fattuali dai quali, sulla base di attendibili regole di esperienza attinenti propriamente al fenomeno della criminalità di stampo mafioso, possa logicamente inferirsi la appartenenza dinamica, intesa come « prendere parte», purché si tratti di indizi gravi e precisi – tra i quali, esemplificando, rientra anche la commissione di delitti-scopo, idonei senza alcun automatismo probatorio a dare la sicura dimostrazione della costante permanenza del vincolo, con puntuale riferimento, peraltro, allo specifico periodo temporale considerato dall’imputazione (Sez. U, n. 33748 del 12/07/2005, COGNOME, Rv. 231670 -01).
Pertanto, alcuna illogicità o incongruità, ovvero carenza di motivazione, si coglie nella motivazione impugnata.
Ne consegue l’infondatezza dei motivi terzo e quarto, non risultando per altro gli stessi preceduti da doglianze sovrapponibili per violazione di legge in relazione agli artt. 416-bis e 74 d.P.R. 309 /90 in sede di riesame, che risultano sostanzialmente inedite e, comunque, trovano adeguata risposta ai foll. 15 -18, dove il Tribunale del riesame chiarisce come l’indagato sia stato partecipe stabile, abbia offerto un significativo e durevole contributo, corredato da affectio societatis .
Il quinto e il sesto motivo, relativi ai reati fine, non risultano preceduti da doglianze avanzate con la memoria depositata al Tribunale del riesame, risultando sostanzialmente censure inedite.
A riguardo deve osservarsi come anche in questo caso, in difetto di doglianze specifiche, il Tribunale del riesame rinvii al contenuto della ordinanza genetica (foll. 350 -369) dove al fol. 362 vi è la conversazione dalla quale emerge che COGNOME e COGNOME costrinsero il debitore a intestare l’autovettura Alfa Romeo Tonale a saldo del debito.
Il motivo di ricorso per un verso ‘attacca’ la circostanza, non decisiva, che non sarebbe provato che l’imputato abbia provveduto al furto dell’autovettura : ma l’estorsione ha ad oggetto l’intestazione formale dell’autovettura, il che viene rappresentato dalla lunga conversazione riportata nell’ordinanza genetica. Il motivo è sostanzialmente teso a depotenziare il contenuto della conversazione analizzata dai giudici del merito, ma si tratta di attività valutativa di merito non reiterabile da parte di questa Corte di legittimità.
Quanto al sesto motivo, anche in questo caso la memoria depositata in sede di riesame non censurava l’ordinanza genetica in relazione al delitto sub capo 7),
del quale tratta l’ordinanza del Tribunale del riesame ai fol. 10 e 11. In questo caso il Tribunale riporta il contenuto essenziale della conversazione fra Stagno e Ferrazzano , che l’ordinanza genetica affrontava in modo minuzioso ai foll. 94 e ss.
A riguardo deve evidenziarsi come la doglianza relativa all’ iter motivazionale è manifestamente infondata: il Tribunale del riesame riferisce che COGNOME, delegato ai contatti con gli emissari agrigentini del mafioso COGNOME, «si era rifiutato di provvedere al saldo integrale» il che comprova che una prima parte del pagamento vi era stata. A ben vedere il pagamento parziale, non contestato con denuncia di travisamento, comprova, in questa sede di legittimità a fronte della natura cautelare del procedimento, che si era formato il consenso e il venditore agrigentino lamentava il mancato pagamento del prezzo integrale: e dunque, il delitto di acquisto e cessione di sostanze stupefacenti si consuma nel momento in cui è raggiunto il consenso tra venditore e acquirente, indipendentemente dall’effettiva consegna della merce e del pagamento del prezzo (Sez. 2, n. 30374 del 16/05/2019, COGNOME, Rv. 276981 -01; conf. N. 20050 del 2009 Rv. 243843 – 01, N. 6839 del 2009 Rv. 242865 – 01, N. 33067 del 2003 Rv. 226653 – 01, N. 39644 del 2010 Rv. 248508 – 01, N. 20020 del 2013 Rv. 256030 – 01, N. 17387 del 2006 Rv. 233965 -01). Ne consegue la natura non decisiva delle censure mosse in ordine al grado di sviluppo della trattativa e alla configurabilità del tentativo.
Quanto al settimo e ottavo motivo, in ordine al pericolo di recidiva il Tribunale del riesame non richiama esclusivamente la presunzione ex lege , ma motiva ‘in positivo’ in ordine alla sussistenza di concreti e attuali elementi indicativi della pericolosità: il rapporto fiduciario con i vertici del sodalizio mafioso, fino ad epoca recentissima; l’allarmante intraprendenza dell’indagato nel settore strategico degli stupefacenti per la famiglia mafiosa, intraprendenza non contenuta dalla sottoposizione alla misura di prevenzione personale; le conoscenze mafiose anche di rango; le pregresse esperienze criminali, nonché i precedenti penali specifici e infraquinquennali. Inoltre, il Tribunale motiva in ordine al pericolo concreto di inquinamento probatorio, quanto all’utilizzo del metodo mafioso .
L’ottavo motivo, quindi, tutto incentrato sul vincere la presunzione di sussistenza delle esigenze di cautela, è del tutto aspecifico, in quanto non prende atto della motivazione offerta dal Tribunale del riesame ‘in positivo’ – così si esprime il Collegio palermitano. Il che ridonda anche sulla questione di legittimità costituzionale proposta, che non può essere rilevata in un caso -come quello in esame – di sostanziale di irrilevanza della stessa a fronte di una motivazione non fondata sulla presunzione ma su argomentazioni ‘in positivo’ .
D’altro canto, la stessa Corte costituzionale a proposito dell’art. 74 d.P.R. 309 1990, dichiarava con sentenza n. 231 del 2011 l’illegittimità costituzionale dell’art. 275, comma 3, secondo periodo, del codice di procedura penale, come modificato dall’art. 2 del decreto -legge 23 febbraio 2009, n. 11, convertito, con modificazioni, dalla legge 23 aprile 2009, n. 38, nella parte in cui -nel prevedere che, quando sussistono gravi indizi di colpevolezza in ordine al delitto di cui all’art. 74 del d.P.R. 9 ottobre 1990, n. 309 è applicata la custodia cautelare in carcere, salvo che siano acquisiti elementi dai quali risulti che non sussistono esigenze cautelari -non fa salva, altresì, l’ipotesi in cui siano acquisiti elementi specifici, in relazione al caso concreto, dai quali risulti che le esigenze cautelari possono essere soddisfatte con altre misure.
In tale occasione, in motivazione, chiariva la ragione che differenzia con la presunzione di sussistenza delle esigenze di cautela il delitto ex art. 416-bis cod. pen. rispetto a quello ex art. 74 d.P.R. 309 del 1990. Al paragrafo 4.1. osservava: «Questa Corte, d’altro canto nel ritenere assistita da adeguato fondamento razionale la presunzione de qua in rapporto al delitto di associazione di tipo mafioso -ha già avuto modo di porre in evidenza come tale conclusione si giustifichi alla luce non del mero vincolo associativo a scopi criminosi, quanto piuttosto delle particolari caratteristiche che esso assume nella cornice di detta fattispecie (sentenze n. 164 del 2011 e n. 265 del 2010). Il delitto di associazione di tipo mafioso è, infatti, normativamente connotato -di riflesso ad un dato empirico-sociologico -come quello in cui il vincolo associativo esprime una forza di intimidazione e condizioni di assoggettamento e di omertà, che da quella derivano, per conseguire determinati fini illeciti. Caratteristica essenziale è proprio tale specificità del vincolo, che, sul piano concreto, implica ed è suscettibile di produrre, da un lato, una solida e permanente adesione tra gli associati, una rigida organizzazione gerarchica, una rete di collegamenti e un radicamento territoriale e, dall’altro, una diffusività dei risultati illeciti, a sua volta produttiva di accrescimento della forza intimidatrice del sodalizio criminoso. Sono tali peculiari connotazioni a fornire una congrua ‘base statistica’ alla presunzione considerata, rendendo ragionevole la convinzione che, nella generalità dei casi, le esigenze cautelari derivanti dal delitto in questione non possano venire adeguatamente fronteggiate se non con la misura carceraria, in quanto idonea -per valersi delle parole della Corte europea dei diritti dell’uomo «a tagliare i legami esistenti tra le persone interessate e il loro ambito criminale di origine», minimizzando «il rischio che esse mantengano contatti personali con le strutture delle organizzazioni criminali e possano commettere nel frattempo delitti» (sentenza 6 novembre 2003, Pantano contro Italia). Altrettanto non può dirsi per il delitto di associazione finalizzata al traffico illecito di sostanze stupefacenti o psicotrope. Quest’ultimo si
concreta, infatti, in una forma speciale del delitto di associazione per delinquere, qualificata unicamente dalla natura dei reatifine (i delitti previsti dall’art. 73 del d.P.R. n. 309 del 1990). Per consolidata giurisprudenza, essa non postula necessariamente la creazione di una struttura complessa e gerarchicamente ordinata, essendo viceversa sufficiente una qualunque organizzazione, anche rudimentale, di attività personali e di mezzi economici, benché semplici ed elementari, per il perseguimento del fine comune. Il delitto in questione prescinde, altresì, da radicamenti sul territorio, da particolari collegamenti personali e soprattutto da qualsivoglia specifica connotazione del vincolo associativo, tanto che, ove questo in concreto si presentasse con le caratteristiche del vincolo mafioso, il reato ben potrebbe concorrere con quello dell’art. 416 -bis cod. pen. (come già ritenuto dalle Sezioni unite della Corte di cassazione: sentenza 25 settembre 2008-13 gennaio 2009, n. 1149). Si tratta, dunque, di fattispecie, per così dire, ‘aperta’, che, descrivendo in definitiva solo lo scopo dell’associazione e non anche specifiche qualità di essa, si presta a qualificare penalmente fatti e situazioni in concreto i più diversi ed eterogenei: da un sodalizio transnazionale, forte di una articolata organizzazione, di ingenti risorse finanziarie e rigidamente strutturato, al piccolo gruppo, talora persino ristretto ad un ambito familiare -come nel caso oggetto del giudizio a quo -operante in un’area limitata e con i più modesti e semplici mezzi. Proprio per l’eterogeneità delle fattispecie concrete riferibili al paradigma punitivo astratto, ricomprendenti ipotesi nettamente differenti quanto a contesto, modalità lesive del bene protetto e intensità del legame tra gli associati, non è dunque possibile enucleare una regola di esperienza, ricollegabile ragionevolmente a tutte le «connotazioni criminologiche» del fenomeno, secondo la quale la custodia carceraria sarebbe l’unico strumento idoneo a fronteggiare le esigenze cautelari. In un significativo numero di casi, al contrario, queste ultime potrebbero trovare risposta in misure diverse e meno afflittive, che valgano comunque ad assicurare -nei termini in precedenza evidenziati -la separazione dell’indiziato dal contes to delinquenziale e ad impedire la reiterazione del reato».
D’altro canto, anche con ordinanza n. 136 del 2017 la Corte costituzionale ha dichiarata manifestamente infondata la questione di legittimità costituzionale dell’art. 275, comma 3, cod. proc. pen. – in riferimento agli artt. 3, 13, primo comma, e 27, secondo comma, Cost. – nella parte in cui, nell’imporre l’applicazione della misura della custodia cautelare in carcere quando sussistono gravi indizi di colpevolezza in ordine al delitto di cui all’art. 416-bis cod. pen. (associazione di tipo mafioso), fa salva solo l’ipotesi in cui siano acquisiti elementi dai quali risulti che non sussistono esigenze cautelari, e non anche quella in cui siano acquisiti elementi specifici, in relazione al caso concreto, dai quali risulti che le esigenze
cautelari possono essere soddisfatte con altre misure. La disposizione censurata non comporta un ingiustificato assoggettamento di condotte diverse alla medesima regola cautelare, in quanto la diversa graduazione di gravità e di pericolosità tra le condotte dei singoli appartenenti all’associazione rileva ai fini della determinazione della pena da irrogare in concreto, ma non incide sulle esigenze cautelari. In ordine a queste, anche la semplice partecipazione all’associazione di tipo mafioso è idonea a giustificare la presunzione assoluta di adeguatezza della sola custodia carceraria, posta a base del regime speciale di cui al citato art. 275, comma 3, poiché l’unico dato rilevante – ugualmente riferibile al partecipe e agli associati con ruoli apicali – è costituito dal tipo di vincolo che li lega nel contesto associativo, il quale, per la forza di intimidazione e le condizioni di assoggettamento e di omertà che esprime, fa ritenere le misure cautelari “minori” insufficienti a troncare i rapporti tra l’indiziato e l’ambito delinquenziale di appartenenza in modo da neutralizzarne la pericolosità. Le ragioni giustificatrici di tale regola cautelare rendono evidente anche l’infondatezza delle censure svolte in riferimento agli artt. 13 e 27 Cost. Aggiungeva la Corte costituzionale che l’elemento in grado di legittimare costituzionalmente la presunzione assoluta di adeguatezza della sola custodia in carcere per gli indiziati del reato di cui all’art. 416-bis cod. pen. è la ragionevole convinzione, basata su una congrua “base statistica”, che l’appartenenza a un’associazione di tipo mafioso implica, nella generalità dei casi e secondo una regola di esperienza sufficientemente condivisa, un’esigenza cautelare che può essere soddisfatta solo con la custodia in carcere, non essendo le misure “minori” sufficienti a troncare i rapporti tra l’indiziato e l’ambito delinquenziale di appartenenza in modo da neutralizzarne la pericolosità (la motivazione richiama le sentenze n. 265 del 2010, n. 48 del 2015, n. 57 del 2013 e n. 231 del 2011, che hanno tenuto ferma la presunzione assoluta di adeguatezza della custodia carceraria per il delitto ex art. 416-bis cod. pen., trasformandola in relativa per fattispecie criminose contigue, ma non caratterizzate da un’uguale esigenza cautelare, ossia il concorso esterno nell’associazione di tipo mafioso, i delitti aggravati dall’uso del metodo mafioso o dalla finalità di agevolazione mafiosa, il delitto di associazione finalizzata al traffico illecito di sostanze stupefacenti).
La Corte costituzionale ha, quindi, già ritenuto la ‘conformità costituzionale’ della presunzione ex lege in relazione alla fattispecie associativa mafiosa, cosicché la questione posta si rappresenta oltre che irrilevante, rispetto al caso in esame per le esposte ragioni, anche manifestamente infondata.
Quanto alla ulteriore doglianza, relativa al difetto di autonomia della motivazione dell’ordinanza genetica, deve osservarsi come l’ordinanza del
Tribunale del riesame abbia ritenuto senza vizi logici sussistente l’autonoma valutazione in ordine alle esigenze di cautela.
A ben vedere deve evidenziarsi come l’ordinanza qui impugnata ricostruisce correttamente i principi di diritto in tema di autonoma valutazione ex art. 292, comma 2, lett. c) cod. proc. pen. richiamando la necessità di una valutazione complessiva del provvedimento e la genericità della censura difensiva.
Tale genericità permane, in quanto il settimo motivo di ricorso confonde il tema della autonomia, che determina la nullità del provvedimento cautelare, con quello del vizio di motivazione per la valutazione cumulativa e non personalizzata.
Quanto al primo profilo, l’esame della ordinanza genetica consente di rilevare, come ritenuto dal Tribunale del riesame, che il G.i.p. dal fol. 433 a fol. 438 abbia reso una propria motivazione, contrassegnata anche dai diversi caratteri grafici rispetto a quelli utilizzati dal Pubblico ministero nella richiesta, né d’altro canto il ricorrente censura il ‘copia incolla’ in modo specifico. Per altro deve anche osservarsi come il G.i.p. richiami la trattazione delle posizioni personali (fol. 434 primo periodo), cosicché pertinente è il richiamo alla valutazione complessiva del provvedimento in ordine alla sua autonomia. Pertanto, il motivo è manifestamente infondato sul punto, mentre le ulteriori doglianze, rispetto alle quali ben può provvedere il Tribunale del riesame ad integrare la motivazione dell’ordinanza genetica, risulta assolutamente personalizzata e appropriata quanto alla posizione dell’attuale ricorrente, come si è già evidenziato.
Ne consegue il complessivo rigetto del ricorso, con condanna del ricorrente al pagamento delle spese processuali.
P.Q.M.
Rigetta il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese processuali. Manda alla cancelleria per gli adempimenti di cui all’art. 94, comma 1-ter, disp. att. cod. proc. pen.
Così deciso il 23/07/2025