Sentenza di Cassazione Penale Sez. 2 Num. 22487 Anno 2024
Penale Sent. Sez. 2 Num. 22487 Anno 2024
Presidente: COGNOME NOME
Relatore: COGNOME NOME
Data Udienza: 08/05/2024
SENTENZA
sui ricorsi proposti da: COGNOME NOME nato a NAPOLI il DATA_NASCITA COGNOME NOME nato a NAPOLI il DATA_NASCITA
avverso la sentenza del 18/01/2024 della CORTE di APPELLO di MILANO visti gli atti, il provvedimento impugnato e il ricorso; udita la relazione svolta dal Consigliere NOME COGNOME; udito il Pubblico Ministero, in persona del Sostituto Procuratore Generale NOME COGNOME, che ha chiesto dichiararsi l’inammissibilità dei ricorsi; uditi i difensori:
AVV_NOTAIO, in difesa di COGNOME NOME, in sostituzione dell’AVV_NOTAIO. AVV_NOTAIO COGNOME, che si è riportato ai motivi di ricorso, AVV_NOTAIO NOME COGNOME, in difesa di COGNOME NOME, in sostituzione dell’AVV_NOTAIO AVV_NOTAIO
COGNOME, che si è riportato ai motivi di ricorso.
RITENUTO IN FATTO
La Corte di appello di Milano con sentenza del 18/1/2024 pronunciata ai sensi dell’art. 599-bis cod. proc. pen., in riforma della sentenza del Giudice per le indagini preliminari del Tribunale di Milano in data 14/7/2023, che aveva condannato NOME COGNOME ed NOME COGNOME per un tentativo di rapina aggravata, rideterminava la pena.
NOME COGNOME, a mezzo del difensore, ha interposto ricorso per cassazione, eccependo con il primo motivo la violazione dell’art. 606, comma 1,
lett. b) e c), cod. proc. pen., in relazione agli artt. 545-bis cod. proc. pen., Cost. e 6 CEDU. Rileva che la Corte territoriale, a fronte della richiesta di sostituzione della pena detentiva con quella della detenzione domiciliare e del parere negativo espresso dal Procuratore Generale, non ha provveduto sul punto, limitandosi ad accogliere la richiesta di concordato. Ritiene la difesa che, una volta acquisito il consenso dell’imputato, il giudice si trovi di fronte solo due possibilità: i) decidere immediatamente, avendo già a disposizione un sufficiente bagaglio informativo ovvero ii) fissare apposita udienza non oltre sessanta giorni; che, di conseguenza, il giudice dovrebbe solo limitarsi a verificare il limite edittale della pena detentiva irrogata, la non concedibilità del sospensione condizionale della pena e l’assenza delle preclusioni di cui all’art. 59 legge n. 689/1981, rimandando alla fase successiva a quella dell’avviso alle parti sulla sussistenza dei presupposti per la sostituzione ogni valutazione sul merito della sostituibilità della pena ai sensi dell’art. 58 della legge n. 689/1981; che dunque, in presenza delle astratte condizioni per accedere alla pena sostitutiva, il mancato avviso alle parti profilerebbe una nullità per omesso contraddittorio; che l’unica eventualità che comporta che il giudice non dia avviso alle parti della astratta sostituibilità della pena si verificherebbe quando il giudice già si convinto della sua non sostituibilità nel merito; che, in ogni caso, pur a voler seguire la tesi secondo la quale il consenso dell’imputato alla sostituzione della pena può essere espresso solo dopo la lettura del dispositivo, sussisterebbe la denunciata violazione, atteso che – in presenza dell’imputato detenuto – non è stato acquisito il suo consenso alla sostituzione della pena.
2.1 Con il secondo motivo eccepisce la violazione dell’art. 606, comma 1, lett. b) e c), cod. proc. pen., in relazione agli artt. 545-bis, 178 cod. proc. pen. 24 Cost. Osserva che la Corte territoriale nel caso di specie non ha deciso sulla istanza di sostituzione della pena detentiva né nell’immediatezza, né ha differito la decisione ad una udienza successiva; che, dunque, è stato violato il diritto al contraddittorio, specie se si considera che i giudici di appello, nelle more del deposito della motivazione, hanno chiesto alla polizia giudiziaria informazioni in relazione al domicilio del COGNOME.
2.2 Con il terzo motivo si duole della violazione dell’art. 606, comma 1, lett. b) e c), cod. proc. pen., in relazione agli artt. 545-bis cod. proc. pen. e 56 dell legge n. 689/1981. Rileva che la Corte di appello ha ritenuto di non poter sostituire la pena detentiva con quella della detenzione domiciliare in quanto l’imputato non avrebbe «fornito informazioni in merito al proprio stile di vita attuale, né in merito all’intento di reperire una attività lavorativa ser eventualmente previa adeguata preparazione professionale»; che il legislatore proprio a tal fine ha previsto l’udienza di cui al secondo periodo del comma 1
dell’art. 545-bis cod. proc. pen., con la possibilità di acquisire informazion dall’U.E.P.E. e, se del caso, anche dalla polizia giudiziaria; che detto subprocedimento consente alla difesa di interloquire, anche depositando documentazione all’U.E.P.E. e presentando memorie in cancelleria; che detta udienza non è stata fissata e che alla difesa è stata preclusa la possibilità di contraddire; che la bontà di tale impostazione risulta confermata dalla circostanza per cui successivamente la Corte territoriale ha sostituito la misura della custodia cautelare in carcere con quella degli arresti domiciliari, da eseguirsi presso l’abitazione della nonna del ricorrente, vale a dire proprio nel luogo in cui era stata richiesta la sostituzione della pena detentiva; che, in conclusione, il rispetto della norma di cui all’art. 545-bis cod. proc. pen. avrebbe portato allo stesso risultato, consentendo però il contraddittorio tra le parti.
2.3 Con il quarto motivo si deduce la violazione dell’art. 606, comma 1, lett. b), cod. proc. pen., in relazione agli artt. 99 e 63 cod. pen. Evidenzia il difensore che i giudici di appello, in violazione dell’art. 63, comma quarto, cod. pen., pur in presenza dell’aggravante ad effetto speciale di cui all’art. 628, comma terzo, n. 1, cod. pen., hanno operato un aumento di pena per la recidiva pari a due terzi; che, invece, più correttamente l’aumento di pena per la recidiva avrebbe dovuto essere pari ad un terzo, dunque, ad anni uno e mesi uno di reclusione, pervenendo così alla pena finale di anni due mesi dieci giorni venti di reclusione ed euro ottocento di multa.
NOME COGNOME, a mezzo del difensore, ha interposto ricorso per cassazione, affidandolo ad un unico motivo con cui deduce violazione di legge in relazione all’art. 63, comma quarto, cod. pen., che disciplina il concorso di circostanze aggravanti ad effetto speciale e la violazione del divieto di reformatio in peius. Osserva che nella determinazione della pena, su quella individuata come pena base, che tiene già conto della circostanza aggravante di cui all’art. 628, comma terzo, n. 1, cod. pen., è stato disposto un aumento pari a due terzi per la recidiva, in violazione del disposto dell’art. 63, comma quarto, cod. pen.; che, peraltro, detto aumento è superiore a quello disposto dal giudice di primo grado, che aveva effettuato un aumento di pena per la recidiva pari ad un mezzo, con conseguente violazione anche del principio del divieto della reformatio in peius.
CONSIDERATO IN DIRITTO
Il quarto motivo di ricorso di NOME COGNOME ed il ricorso di NOME COGNOME che, avendo ad oggetto la medesima doglianza, possono essere trattati congiuntamente – sono fondati.
1.1 Rileva il Collegio che la giurisprudenza di questa Corte di legittimità ha reiteratamente affermato che, in tema di concordato in appello, è inammissibile il ricorso in cassazione avverso la sentenza emessa ex art. 599-bis cod. proc. pen. che deduca – oltre alle doglianze inerenti ai motivi rinunciati ed alla mancata valutazione delle condizioni di proscioglimento ex art. 129 cod. proc. pen. – motivi relativi a vizi attinenti alla determinazione della pena che non s siano trasfusi nella illegalità della sanzione inflitta, in quanto non rientrante limiti edittali ovvero diversa da quella prevista dalla legge (Sezione 1, n. 50710 del 10/11/2023, COGNOME, Rv. 285655 – 01; Sezione 6, n. 23614 del 18/5/2022, COGNOME, Rv. 283284 – 01; Sezione 2, n. 22002 del 10/4/2019, COGNOME, Rv. 276102 – 01). Si è, in particolare, osservato che nel procedimento di cui all’art. 599-bis cod. proc. pen. le parti sono libere di determinare l’enti della pena finale, senza che il giudice possa sindacare il trattamento sanzionatorio stabilito all’esito del concordato, se non con riguardo alla congruità della pena finale. In altri termini, ciò che conta è la pena finale che le par sottopongono al giudice affinché ne valuti la congruità, a nulla rilevando se nella sua determinazione siano stati compiuti errori di calcolo, per cui, una volta recepita dal giudice la pena concordata, la sua entità non potrà più essere contestata, se non nei casi di pena illegale. Dunque, nelle ipotesi di «concordato in appello ex art. 599-bis cod. proc. pen., le parti non sono vincolate a criteri d determinazione della pena, con la conseguenza che il giudice può sindacare esclusivamente la congruità della pena finale concordata, senza che rilevino eventuali errori di calcolo nei passaggi intermedi» (Sezione 6, n. 23614/2022 cit.).
1.2 Ritiene il Collegio che tale orientamento non possa essere condiviso, atteso che una siffatta limitazione dei motivi di ricorso per cassazione avverso la sentenza ex art. 599-bis cod. proc. pen. non trova alcun aggancio normativo. Invero, mentre con riferimento alla applicazione della pena su richiesta delle parti di cui all’art. 444 cod. proc. pen., l’art. 448, comma 2-bis, cod. proc. pen., in tema di impugnazione, espressamente prevede determinate limitazioni stabilendo che «Il pubblico ministero e l’imputato possono proporre ricorso per cassazione contro la sentenza solo per motivi attinenti all’espressione della volontà dell’imputato, al difetto di correlazione tra la richiesta e la sentenza all’erronea qualificazione giuridica del fatto e all’illegalità della pena o de misura di sicurezza» – analoghi limiti non si rinvengono con riferimento all’impugnazione della sentenza emessa ai sensi dell’art. 599-bis cod. proc. pen. In particolare, l’art. 610 cod. proc. pen. non prevede per il concordato in appello una disciplina specifica sulle censure proponibili con ricorso per cassazione, limitandosi solo a stabilire espressamente al comma 5-bis che la declaratoria
dell’inammissibilità del ricorso va effettuata senza formalità di procedura, dunque, de plano.
Né è ipotizzabile una estensione analogica dell’art. 448, comma 2-bis, cod. proc. pen. all’impugnazione della sentenza pronunciata ai sensi dell’art. 599-bis cod. proc. pen., trattandosi di norma specificamente dettata per l’ipotesi del patteggiamento ex art. 444 cod. proc. pen., che pone restrizioni al potere di impugnazione e, dunque, di stretta interpretazione.
Del resto, la questione dei limiti alla impugnabilità della sentenza ex art. 599-bis cod. proc. pen. è stata affrontata da questa Corte di legittimità nella sua più autorevole composizione (Sezioni Unite, n. 19415 del 27/10/2022, COGNOME, in motivazione), che – al fine di risolvere specificamente il quesito «se avverso la sentenza di concordato in appello ex art. 599-bis cod. proc. pen. sia consentito proporre ricorso per cassazione con il quale si deduca l’estinzione per prescrizione del reato, maturata anteriormente alla pronuncia di secondo grado» – ha avuto cura di ricostruire le regole generali che presidiano all’impugnazione della sentenza che ha accolto il concordato in appello e di evidenziarne le differenze con quelle speciali che disciplinano l’impugnazione della sentenza emessa ai sensi dell’art. 444 cod. proc. pen. Ebbene, in detto arresto le Sezioni Unite, dopo aver tratteggiato l’inquadramento generale dell’istituto del concordato in appello, hanno evidenziato come «sia patrimonio acquisito, in dottrina ed in giurisprudenza, anche costituzionale (v. Corte cost. sent. n. 448 del 1995), la differenza funzionale e strutturale tra i due istituti e l’assenza simmetria tra sentenza ex art. 444 cod. proc. pen. e pronuncia ex art. 599-bis cod. proc. pen.»; che il «fondamento di una siffatta osmosi ermeneutica può essere individuato in una perdurante e generalizzante precomprensione del fenomeno processuale interpretato, di volta in volta emergente nelle decisioni di legittimità, che echeggia l’antica regola pacta sunt servanda secondo la specifica declinazione processuale per la quale il concordato processuale non può essere unilateralmente abbandonato attraverso la riproposizione, con il ricorso per cassazione, di questioni che con lo stesso concordato siano state rinunciate»; che «tale fondamento è certamente condivisibile in relazione alle questioni sulle quali si è verificata preclusione o intervenuto giudicato sostanziale, ma non coinvolge la prescrizione del reato che, come già detto, non può intendersi rinunciata per il solo fatto della proposizione dell’accordo, la cui valutazione è demandata al giudice del gravame»; che con la reintroduzione dell’istituto del concordato in appello, ad opera della legge 23 giugno 2017, n. 103, come per il previgente art. 599, comma 4, cod. proc. pen. e diversamente dall’istituto ex art. 444 cod. proc. pen., «non è stato introdotto un regime speciale di ricorribilità della sentenza, scelta legislativa che fa ritenere immutato il relativo quadro Corte di Cassazione – copia non ufficiale
sistematico. L’operazione ermeneutica volta a superare il regime generale di ricorribilità, estendendo i principi dall’uno all’altro istituto non è consentita p principio di tassatività che governa i mezzi di impugnazione ed in relazione alla specialità del regime previsto dall’art. 448, comma 2-bis, cod. proc. pen., che è di stretta interpretazione»; che, del resto, «la disposizione dell’art. 610, comma 5-bis cod. proc. pen. individua i presupposti in presenza dei quali è prevista la procedura de plano per la trattazione del ricorso per cassazione avverso la sentenza di applicazione della pena su richiesta delle parti e quella pronunciata a norma dell’art. 599-bis del codice di rito. Pertanto, essa non riguarda i presupposti di ammissibilità dei rispettivi ricorsi: quelli relativi al patteggiamento sono previsti nell’art. 448-bis cod. proc. pen. nell’ambito della disciplina del rito speciale, mentre nessuna novità – come si è detto – è stata introdotta per il concordato in appello. L’art. 610, comma 5-bis, cod. proc. pen. accomuna, in rapporto all’individuato contesto e finalità semplificativa, le due tipologie di sentenza in ragione della agevole rilevazione dei più ristretti casi d inammissibilità dei ricorsi conseguenti ai limiti di ricorribilità stabiliti sentenza di cd. patteggiamento dall’art. 448, comma 2-bis, cod. proc. pen. e della novazione riduttiva del devoluto per quella di concordato in appello».
Ritiene il Collegio che analogo percorso logico argomentativo (come effettuato in relazione alla mancata valutazione delle condizioni di proscioglimento ex art. 129 cod. proc. pen.) debba essere seguito con riferimento ai motivi relativi ai vizi attinenti alla determinazione della pen determinati da errori di calcolo nei passaggi intermedi, che sono, dunque, ammissibili. Quanto si sta affermando trova ulteriore conferma nella scarna normativa dedicata al concordato in appello, che rivela la sostanziale continuità tra il modello di cognizione tipico del secondo grado di giudizio e le modalità operative del congegno previsto dall’art. 599-bis cod. proc. pen., la cui regolamentazione postula l’integrazione con la disciplina generale in tema di appello.
In conclusione, può affermarsi che, anche dopo la riforma del 2017, deve essere «esclusa l’introduzione di speciali limiti di ricorribilità in cassazione per sentenza emessa a seguito di concordato in appello» (Sezioni Unite “COGNOME“, in motivazione).
1.3 Il Collegio, dunque, intende seguire le autorevoli, quanto convincenti, indicazioni delle Sezioni Unite sopra richiamate e ritenere, dunque, ammissibile il motivo dedotto da entrambi i ricorrenti inerente all’aumento di pena disposto per la recidiva, in quanto applicato oltre i limiti previsti dalla legge.
1.3 Invero, deve essere evidenziato che, mente dell’art. 63, comma quarto, cod. pen., nel concorso tra due circostanze aggravanti ad effetto speciale, quale
quella di cui all’art. 628, comma terzo, n. 1, cod. pen. e la recidiva reiterat specifica, contestata agli odierni imputati, dovrà trovare applicazione quella che prevede la pena più grave e sulla pena così determinata potrà essere effettuato un aumento fino ad un terzo. Sul punto, questa Corte di legittimità (Sezioni Unite, n. 20798 del 24/2/11, Indelicato, Rv. 249664 – 01) ha avuto modo di affermare che, al fine di stabilire quale sia la circostanza ad efficacia speciale più grave, il criterio che appare maggiormente rispettoso dei principi costituzionali di soggezione del giudice soltanto alla legge (art. 101, comma 2, Cost.) e di uguaglianza (art. 3 Cost.) è quello riferito alle valutazioni astratte compiute dal legislatore per la predeterminazione degli aumenti di pena; che, di conseguenza, per stabilire – ai fini di cui all’art. 63, comma quarto, cod. pen. – quale, fra circostanze contestate ed effettivamente ritenute dal giudice, sia la più grave, si deve avere riguardo al massimo della pena edittale prevista e, in caso di parità del massimo edittale, al maggior minimo e non, invece, alla pena in concreto irrogabile, come sostenuto da un minoritario indirizzo esegetico.
Nel caso in esame, dunque, la circostanza ad effetto speciale più grave dev’essere essere individuata in quella prevista dall’art. 628, comma terzo, n. 1, c. p., che, rispetto alla recidiva reiterata specifica, comporta una pena più alta nel massimo (venti anni di reclusione a fronte di sedici anni ed otto mesi di reclusione). Tuttavia, il ricorso al criterio del massimo della pena edittale prevista, ove posto in correlazione con la regola dettata dall’art. 63, comma quarto, cod. pen., darebbe luogo ad una sanzione inferiore al minimo della pena conseguente all’applicazione della recidiva reiterata specifica (anni sei a fronte di anni otto mesi quattro di reclusione, cui si perviene aumentando di due terzi la pena di anni cinque di reclusione prevista per la rapina semplice). Dunque, le Sezioni Unite “Indelicato” – al fine di armonizzare la disciplina del concorso di circostanze aggravanti con quella del concorso formale e della continuazione fra i reati, in considerazione della identità di ratio esistente tra tali istituti, tutti volti a mitigare il rigore del cumulo materiale delle pene – hanno ritenuto che costituisce un principio di carattere generale, valido anche nel caso disciplinato dall’art. 63, comma quarto, cod. pen., quello in base al quale, in caso di concorso omogeneo di circostanze aggravanti ad effetto speciale, qualora una di esse sia punita con una pena più elevata nel massimo e l’altra con una pena più elevata nel minimo, la sanzione da irrogare in concreto non può essere inferiore a quest’ultima previsione edittale. Hanno, quindi, affermato il principio di diritt secondo il quale, in caso di concorso omogeneo di circostanze aggravanti ad effetto speciale di cui all’art. 63, comma quarto, cod. pen., l’individuazione della circostanza più grave sulla base del massimo della pena astrattamente prevista non può comportare, in presenza di un’altra aggravante il cui limite minimo sia
più elevato, l’irrogazione di una pena ad esso inferiore.
1.4 Tanto premesso, rileva il Collegio che la Corte territoriale ha fatto malgoverno dei principi di diritto sopra sintetizzati, atteso che, dopo aver individuato la pena base per il reato di cui agli artt. 56 e 628, comma terzo, n. 1, cod. pen., dunque, già considerando la circostanza aggravante delle più persone riunite, in anni tre mesi tre di reclusione ed euro novecento di multa, ha effettuato un aumento di pena per la recidiva qualificata pari a due terzi, pervenendo alla pena di anni cinque mesi cinque di reclusione ed euro millecinquecento di multa, riducendola, infine, per il rito alla pena di anni tr mesi sette di reclusione ed euro mille di multa.
Evidente allora risulta la violazione del disposto di cui all’art. 63, comma quarto, cod. pen., avendo i giudici di appello accolto un concordato che prevede un aumento della pena per la seconda circostanza aggravante ad effetto speciale non consentito, perché calcolato nella misura di due terzi.
1.5 La decisività del comune motivo rende assorbiti i primi tre motivi del ricorso di NOME COGNOME.
1.6 La sentenza impugnata deve, in conclusione, essere annullata senza rinvio.
P. Q. M.
Annulla senza rinvio la sentenza impugnata e dispone trasmettersi gli atti alla Corte di appello di Milano per l’ulteriore corso.
Così deciso in Roma, il giorno 8 maggio 2024.