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Concordato in appello: quando il ricorso è inammissibile

La Corte di Cassazione chiarisce i limiti di impugnazione di una sentenza emessa a seguito di concordato in appello. L’imputato aveva raggiunto un accordo in secondo grado sulla pena ma ha poi proposto ricorso contestando un’aggravante. La Corte ha dichiarato il ricorso inammissibile, spiegando che l’accordo implica la rinuncia ai motivi di appello, e l’impugnazione è possibile solo per vizi del consenso o per illegalità della pena, non per contestare la responsabilità penale.

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Pubblicato il 13 settembre 2025 in Diritto Penale, Giurisprudenza Penale, Procedura Penale

Concordato in Appello: L’Impossibilità di Contestare le Aggravanti

Il concordato in appello, disciplinato dall’art. 599-bis del codice di procedura penale, rappresenta uno strumento deflattivo che consente alle parti di accordarsi sulla pena da applicare in secondo grado, in cambio della rinuncia ai motivi di impugnazione. Una recente ordinanza della Corte di Cassazione ha ribadito i rigidi limiti alla possibilità di ricorrere contro una sentenza che recepisce tale accordo, chiarendo perché non sia possibile contestare nel merito la sussistenza di una circostanza aggravante.

I Fatti del Caso

Il caso trae origine dalla condanna di un imputato per il reato di furto in abitazione aggravato. In secondo grado, la difesa e l’accusa raggiungevano un accordo sulla rideterminazione della pena, che veniva fissata dalla Corte d’Appello in due anni, due mesi e venti giorni di reclusione, oltre a una multa.

Nonostante l’accordo, l’imputato, tramite il suo difensore, decideva di proporre ricorso per cassazione. Il motivo del ricorso era uno solo: la violazione di legge relativa alla ritenuta sussistenza di una circostanza aggravante. In sostanza, si contestava un elemento che aveva contribuito a definire la gravità del reato e, di conseguenza, la pena, pur dopo averla concordata.

La Decisione della Corte di Cassazione e il concordato in appello

La Suprema Corte ha dichiarato il ricorso inammissibile, definendolo basato su un “motivo non consentito”. La decisione si fonda sulla natura stessa del concordato in appello. Questo istituto processuale, infatti, si innesta sulla rinuncia ai motivi di impugnazione. L’imputato, accettando di concordare la pena, accetta implicitamente la qualificazione giuridica del fatto e la propria responsabilità, rinunciando a contestarle ulteriormente.

La Corte ha sottolineato la differenza fondamentale tra il concordato in appello (art. 599-bis c.p.p.) e l’applicazione della pena su richiesta delle parti, o “patteggiamento” (art. 444 c.p.p.). Mentre nel secondo caso l’accordo abbraccia anche i termini dell’accusa e lascia aperta la possibilità di ricorrere per questioni di qualificazione giuridica, nel primo l’accordo si basa proprio sull’abbandono dei motivi di appello, chiudendo di fatto la porta a contestazioni sulla responsabilità e sulla configurazione del reato.

Le motivazioni

Le motivazioni della Corte si sono concentrate sui limiti tassativi del ricorso in cassazione avverso le sentenze emesse ai sensi dell’art. 599-bis c.p.p. Il ricorso è ammissibile solo ed esclusivamente quando si deducano:

1. Vizi della volontà: se il consenso dell’imputato all’accordo non è stato espresso liberamente e consapevolmente.
2. Vizi del consenso del pubblico ministero: se il consenso dell’accusa è viziato.
3. Contenuto difforme della pronuncia: se la sentenza del giudice si discosta da quanto concordato tra le parti.

Sono invece inammissibili tutte le doglianze relative a motivi a cui si è rinunciato, come la valutazione delle prove, la responsabilità penale e, appunto, la qualificazione giuridica del fatto, inclusa la sussistenza delle circostanze aggravanti. L’unica eccezione a questa regola si verifica quando la pena applicata è “illegale”, ovvero non rientra nei limiti previsti dalla legge o è di un genere diverso da quello prescritto. Non essendo questo il caso di specie, il ricorso non poteva che essere respinto.

Conclusioni

Questa pronuncia rafforza un principio cardine della procedura penale: la scelta di accedere al concordato in appello è una decisione strategica con conseguenze definitive. Se da un lato offre il vantaggio di una pena certa e potenzialmente più mite, dall’altro comporta la rinuncia a quasi ogni possibilità di ulteriore impugnazione nel merito. Gli imputati e i loro difensori devono essere pienamente consapevoli che, una volta siglato l’accordo, non sarà più possibile rimettere in discussione la colpevolezza o gli elementi del reato, come le aggravanti. Proporre un ricorso su tali basi è un’azione non solo inutile, ma anche economicamente svantaggiosa, dato che la declaratoria di inammissibilità comporta la condanna al pagamento delle spese processuali e di una cospicua somma alla Cassa delle ammende.

Che cos’è il concordato in appello?
È un accordo che interviene nel processo di secondo grado tra l’imputato e il pubblico ministero per rideterminare la pena. In cambio di questa rideterminazione, l’imputato rinuncia ai motivi di appello che aveva presentato.

È possibile ricorrere in Cassazione dopo una sentenza basata su un concordato in appello?
Sì, ma solo per motivi molto specifici e limitati. È possibile contestare un vizio nella formazione della volontà di accedere all’accordo, il mancato rispetto dell’accordo da parte del giudice, o l’illegalità della pena inflitta. Non è possibile contestare la responsabilità penale o la qualificazione giuridica del fatto.

Cosa succede se si presenta un ricorso inammissibile?
Il ricorso viene rigettato senza essere esaminato nel merito. Il ricorrente viene condannato al pagamento delle spese processuali e al versamento di una somma di denaro alla Cassa delle ammende, che nel caso specifico è stata fissata in 4.000 euro a causa della manifesta infondatezza del ricorso.

La selezione delle sentenze e la raccolta delle massime di giurisprudenza è a cura di Carmine Paul Alexander TEDESCO, Avvocato a Milano, Pesaro e Benevento.

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