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Concordato in appello: pena legale e ricorso

La Corte di Cassazione dichiara inammissibile un ricorso contro una sentenza emessa a seguito di concordato in appello. L’imputato lamentava una riduzione non proporzionale tra pena detentiva e pecuniaria per le attenuanti generiche. La Corte ha stabilito che tale disparità non costituisce “pena illegale” e non rientra tra i pochi motivi per cui è ammessa l’impugnazione, ribadendo la discrezionalità del giudice nel modulare la sanzione.

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Pubblicato il 11 settembre 2025 in Diritto Penale, Giurisprudenza Penale, Procedura Penale

Concordato in appello: quando il ricorso è inammissibile?

Il concordato in appello, introdotto dall’articolo 599-bis del codice di procedura penale, rappresenta uno strumento per definire il processo in secondo grado attraverso un accordo sulla pena tra accusa e difesa. Una recente ordinanza della Corte di Cassazione chiarisce i limiti, molto stretti, entro cui è possibile impugnare una sentenza che ratifica tale accordo, anche quando la riduzione della pena appare incoerente.

I Fatti del Caso

Un imputato, condannato in primo grado dal Tribunale di Monza per furto in concorso e indebito utilizzo di carta di credito, decideva di accedere al concordato in appello. La Corte d’appello di Milano, accogliendo l’accordo tra le parti, riformava parzialmente la sentenza, concedendo le circostanze attenuanti generiche e rideterminando la pena in nove mesi di reclusione e 500 euro di multa.

Nonostante l’accordo, l’imputato proponeva ricorso per cassazione, lamentando un presunto “errore di diritto”.

Il Ricorso in Cassazione e l’impugnazione del concordato in appello

Il motivo del ricorso era unico e specifico: l’accordo sulla pena, poi recepito dalla Corte d’appello, presentava una palese illogicità. Secondo la difesa, mentre la pena detentiva era stata ridotta di un terzo grazie alle attenuanti (passando da un anno a otto mesi nel calcolo proposto), la pena pecuniaria aveva subito una riduzione inferiore.

Questa disparità di trattamento tra le due componenti della sanzione, a dire del ricorrente, non era solo incoerente, ma anche dannosa per l’imputato e costituiva un errore di diritto che il giudice d’appello avrebbe dovuto rilevare, invitando le parti a rinegoziare. La mancata correzione, secondo la tesi difensiva, rendeva la sentenza nulla.

Le Motivazioni della Cassazione

La Suprema Corte ha dichiarato il ricorso inammissibile, fornendo importanti chiarimenti sulla natura e i limiti del concordato in appello. I giudici hanno ribadito che il ricorso per cassazione contro una sentenza emessa ex art. 599-bis c.p.p. è consentito solo in casi eccezionali:

1. Vizi nella formazione della volontà della parte di accedere all’accordo.
2. Mancato consenso del pubblico ministero.
3. Contenuto della sentenza difforme dall’accordo stipulato.
4. Illegalità della pena inflitta, ovvero una sanzione non prevista dalla legge, diversa da quella legale o che eccede i limiti edittali.

Il motivo sollevato dal ricorrente non rientrava in nessuna di queste categorie. La lamentela sulla misura della pena concordata, e in particolare sulla differente proporzione della riduzione tra pena detentiva e pecuniaria, non integra un’ipotesi di “illegalità” della sanzione.

Citando un proprio precedente (Sez. 4, n. 48541 del 2013), la Corte ha affermato un principio cruciale: quando il giudice applica una circostanza attenuante a un reato punito con pena congiunta (detentiva e pecuniaria), non è obbligato a ridurre entrambe le sanzioni nella stessa misura. La diversa entità delle riduzioni può, infatti, essere uno strumento per adeguare meglio il trattamento sanzionatorio al caso concreto, tenendo conto della gravità del reato e della personalità dell’autore.

Poiché la doglianza non configurava alcuna illegalità della pena, il ricorso è stato giudicato inammissibile.

Conclusioni

Questa ordinanza rafforza la natura negoziale e definitiva del concordato in appello. Una volta che le parti hanno liberamente raggiunto un accordo sulla pena e il giudice lo ha ratificato, le possibilità di rimettere in discussione tale patto sono estremamente limitate. La decisione chiarisce che la modulazione della pena, anche attraverso una riduzione non omogenea delle sue componenti, rientra nella discrezionalità dell’accordo e del giudice che lo convalida, e non può essere usata come pretesto per un’impugnazione, a meno che non si sfoci in una vera e propria illegalità della sanzione.

È possibile impugnare una sentenza emessa a seguito di “concordato in appello”?
Sì, ma solo per motivi tassativamente previsti, come vizi nella formazione della volontà delle parti, un contenuto della sentenza difforme dall’accordo, o l’illegalità della pena. Non è possibile contestare la misura della pena concordata se questa rientra nei limiti di legge.

Se vengono concesse le attenuanti, il giudice deve ridurre la pena detentiva e quella pecuniaria nella stessa misura?
No. La Corte di Cassazione ha specificato che il giudice non ha l’obbligo di ridurre nella stessa proporzione la pena detentiva e quella pecuniaria. Una riduzione differenziata è legittima e può servire a personalizzare meglio la sanzione in base al reato e al suo autore.

Una riduzione non proporzionale della pena detentiva e di quella pecuniaria rende la sanzione “illegale”?
No. Secondo l’ordinanza, tale circostanza non costituisce un’ipotesi di “illegalità” della sanzione, poiché la pena applicata rimane quella prevista dalla legge e viene inflitta entro i limiti edittali. Di conseguenza, non è un motivo valido per ricorrere in Cassazione contro una sentenza di concordato in appello.

La selezione delle sentenze e la raccolta delle massime di giurisprudenza è a cura di Carmine Paul Alexander TEDESCO, Avvocato a Milano, Pesaro e Benevento.

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