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Concordato in appello: limiti all’impugnazione

Un imputato ricorre in Cassazione contestando l’entità di una pena pecuniaria definita tramite un concordato in appello. La Suprema Corte dichiara il ricorso inammissibile, ribadendo che la pena liberamente concordata tra le parti non può essere successivamente messa in discussione. La decisione chiarisce inoltre la natura autonoma del reato previsto dall’art. 455 c.p., il cui trattamento sanzionatorio è legato a quello dell’art. 453 c.p. solo per la determinazione della cornice edittale.

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Pubblicato il 12 ottobre 2025 in Diritto Penale, Giurisprudenza Penale, Procedura Penale

Concordato in Appello: Quando la Pena Diventa Intoccabile

Il concordato in appello, introdotto dall’art. 599-bis del codice di procedura penale, rappresenta uno strumento per definire il processo nel secondo grado di giudizio attraverso un accordo sulla pena. Ma quali sono i limiti di questo istituto? Una recente ordinanza della Corte di Cassazione fa luce su un punto cruciale: una volta raggiunto l’accordo, la misura della pena non può più essere oggetto di contestazione. Analizziamo insieme questa importante decisione.

I Fatti del Caso

Il caso trae origine dal ricorso di un imputato avverso una sentenza della Corte d’Appello di Napoli. Tale sentenza era stata emessa proprio in accoglimento di una richiesta di concordato in appello. Nonostante l’accordo raggiunto con la pubblica accusa e ratificato dal giudice, l’imputato decideva di presentare ricorso in Cassazione, contestando specificamente l’entità della pena pecuniaria che gli era stata inflitta.

Il concordato in appello e i suoi limiti di impugnazione

La Suprema Corte ha dichiarato il ricorso inammissibile, basando la sua decisione su un principio fondamentale che governa il concordato in appello. L’accordo sulla pena, per sua natura, implica una rinuncia a contestare i punti che ne sono oggetto. L’imputato, accettando liberamente una determinata sanzione (peraltro già inferiore a quella stabilita in primo grado), perde la facoltà di metterla successivamente in discussione.

La Corte sottolinea come l’accordo ex art. 599-bis c.p.p. avvenga dopo un accertamento a cognizione piena della responsabilità penale, effettuato nel primo grado di giudizio e non più contestato dall’appellante. Pertanto, lamentarsi della misura della pena dopo averla concordata costituisce un’azione processualmente non consentita.

La distinzione tra il reato ex art. 455 c.p. e quello ex art. 453 c.p.

Oltre al profilo processuale, i giudici di legittimità hanno colto l’occasione per chiarire un aspetto di diritto sostanziale sollevato, seppur implicitamente, dal ricorrente. La Corte ha ribadito che il reato di cui all’art. 455 del codice penale (relativo alla spendita e introduzione nello Stato, senza concerto, di monete falsificate) non è una semplice ipotesi attenuata del reato previsto dall’art. 453 c.p. (falsificazione di monete, spendita e introduzione nello Stato, di concerto, di monete falsificate), ma costituisce una figura di reato autonoma.

Il richiamo all’art. 453 c.p. avviene, come specificato dalla Corte, solo quoad poenam, ovvero unicamente per definire la cornice edittale. In pratica, per stabilire la pena per il reato dell’art. 455 c.p., si parte dai limiti minimi e massimi dell’art. 453 c.p. e si applica una riduzione. All’interno di questa nuova forbice sanzionatoria, il giudice deve poi determinare la pena più equa per il caso concreto.

Le motivazioni della Corte di Cassazione

Le motivazioni della Suprema Corte si articolano su due binari principali: uno processuale e uno sostanziale.

Sotto il profilo processuale, il ricorso è inammissibile perché l’imputato non può contestare la misura di una pena che ha liberamente concordato. Accettare il concordato in appello equivale a un’acquiescenza sulla quantificazione della sanzione, rendendo illogica e inaccettabile una successiva doglianza sul punto.

Sotto il profilo sostanziale, la Corte ha specificato che, anche se il motivo fosse stato ammissibile, sarebbe stato comunque infondato. La determinazione della pena pecuniaria è avvenuta correttamente all’interno della cornice edittale prevista per il reato autonomo di cui all’art. 455 c.p., la cui definizione sanzionatoria deriva, tramite un meccanismo di riduzione, da quella dell’art. 453 c.p.

La dichiarazione di inammissibilità è avvenuta senza le formalità di procedura, ai sensi dell’art. 610, comma 5-bis, c.p.p., norma che consente una definizione rapida per i ricorsi manifestamente privi dei presupposti di legge. Conseguentemente, il ricorrente è stato condannato al pagamento delle spese processuali e di una somma in favore della Cassa delle ammende.

Le conclusioni

Questa ordinanza della Cassazione rafforza un principio cardine del sistema processuale: pacta sunt servanda. Gli accordi, anche in sede processuale penale, vanno rispettati. Chi sceglie la via del concordato in appello per ottenere una pena più mite deve essere consapevole che tale scelta comporta una rinuncia a future contestazioni sulla misura della pena concordata. La decisione serve da monito sulla necessità di ponderare attentamente la scelta di aderire a istituti definitori del processo, comprendendone appieno le conseguenze e le preclusioni che ne derivano.

È possibile impugnare la misura della pena decisa con un concordato in appello?
No, la Corte di Cassazione chiarisce che la pena liberamente concordata tra imputato e pubblica accusa, e ritenuta congrua dal giudice, non può essere messa in discussione con un successivo ricorso, poiché l’accordo implica la piena accettazione della sua misura.

Perché il ricorso è stato dichiarato inammissibile senza le formalità di procedura?
Il ricorso è stato dichiarato inammissibile ai sensi dell’art. 610, comma 5-bis del codice di procedura penale. Questa norma consente alla Corte di Cassazione di decidere con una procedura semplificata e senza udienza quando l’inammissibilità del ricorso è palese, come nel caso di impugnazione di una pena concordata.

Il reato previsto dall’art. 455 del codice penale è una forma attenuata di quello dell’art. 453?
No, la Corte specifica che il reato di cui all’art. 455 c.p. è un reato autonomo e non un’ipotesi attenuata. Il richiamo all’art. 453 c.p. è solo ‘quoad poenam’, cioè serve unicamente per definire la cornice edittale (il minimo e il massimo della pena) entro cui il giudice deve determinare la sanzione più equa.

La selezione delle sentenze e la raccolta delle massime di giurisprudenza è a cura di Carmine Paul Alexander TEDESCO, Avvocato a Milano, Pesaro e Benevento.

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