Sentenza di Cassazione Penale Sez. 5 Num. 2491 Anno 2024
Penale Sent. Sez. 5 Num. 2491 Anno 2024
Presidente: COGNOME NOME
Relatore: NOME COGNOME
Data Udienza: 21/11/2023
SENTENZA
sul ricorso proposto da:
COGNOME NOME NOME NOME ROMA il DATA_NASCITA
avverso la sentenza del 13/02/2023 della CORTE APPELLO di MILANO
visti gli atti, il provvedimento impugNOME e il ricorso;
udita la relazione svolta dal Consigliere COGNOME;
udita la requisitoria del Sostituto Procuratore Generale, NOME COGNOME, che, riportandosi a quella scritta, ha concluso per l’inammissibilità del ricorso;
udito il difensore del ricorrente, AVV_NOTAIO, che ha insistito per l’accoglimento del ricorso;
RITENUTO IN FATTO
1.Con sentenza del 13 febbraio 2023, la Corte d’Appello di Milano applicava al ricorrente la pena concordata ex art. 599-bis cod. proc. pen. di tre anni di reclusione, sostituendo l’interdizione perpetua dai pubblici uffici con quella temporanea per la durata di anni cinque, revocando l’interdizione legale durante l’esecuzione della pena e sostituendo la pena detentiva con il lavoro di pubblica utilità per anni tre.
Con il ricorso presentato, mediante il difensore di fiducia AVV_NOTAIO, il COGNOME chiede l’annullamento della predetta decisione, affidandosi a tre motivi, di seguito riportati entro i limiti previsti dall’art. 173 disp. att. proc. pen.
2.1. Il ricorrente deduce, con il primo motivo, violazione degli artt. 20-bis cod. pen. e 53-bis della legge n. 689 del 1981 in relazione all’applicazione della sanzione sostitutiva della pena detentiva breve.
Assume, segnatamente, che, dovendosi considerare, anche alla luce delle novità introdotte dal d.lgs. n. 150 del 2022, il lavoro di pubblica utilità come vera e propria pena, la Corte territoriale avrebbe erroneamente applicato le norme indicate prevedendo, sulla scorta del consenso dell’imputato a prestare lavoro di pubblica utilità anche al di sopra di quindici ore settimanali, che detto lavoro dovesse essere svolto per almeno quindici ore per ciascuna settimana, senza considerare né la disponibilità dell’ente ad accogliere il COGNOME per un periodo così significativo ogni settimana né la compatibilità di detta decisione con le esigenze lavorative e di salute del medesimo.
2.2. Con il secondo motivo il ricorrente denuncia erronea applicazione degli artt. 599-bis, 20-bis cod. pen. e 53-bis della legge n. 689 del 1981 in relazione all’applicazione della sanzione sostitutiva della pena detentiva breve per difformità della sentenza rispetto ai presupposti normativi fondanti l’accordo tra le parti.
Si assume con questa censura, in sostanza, che la Corte d’appello di Milano, imponendo lo svolgimento del lavoro di pubblica utilità al COGNOME per almeno quindici ore settimanali, non ne avrebbe interpretato correttamente il consenso a prestare lo stesso anche per più di quindici ore a settimana, poiché si trattava di un consenso che era limitato ai periodi e alle situazioni nelle quali egli avrebbe avuto tale concreta possibilità.
2.3. Assume infine l’imputato, mediante il terzo motivo di ricorso, vizio di motivazione rispetto alla mancata applicazione dell’art. 129 cod. pen. che risulterebbe del tutto apodittica, specie rispetto all’incompatibilità della pur
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concordata condanna con l’assoluzione del coimputato COGNOME per non aver commesso il fatto.
CONSIDERATO IN DIRITTO
1.11 primo e il secondo motivo di ricorso, intrinsecamente connessi e suscettibili di valutazione unitaria, sono manifestamente infondati.
Se è indubbio che le pene sostitutive brevi, come si desume tanto dalla funzione che dalla denominazione, sono pene a tutti gli effetti e dunque soggiacciono nella loro determinazione al principio di legalità, la decisione della Corte territoriale non è incorsa in alcun vizio sotto tale profilo.
Occorre infatti considerare che il provvedimento impugNOME ha stabilito che il ricorrente deve svolgere lavoro di pubblica utilità sostitutivo per almeno e non per più di quindici ore per ciascuna settimana, sicché la pena è stata determinata nel rispetto della cornice edittale prevista dall’art. 56-bis della legge n. 689 del 1981. Di conseguenza non può ritenersi che si tratti di “pena illegale”.
Se già quanto osservato è decisivo, occorre anche evidenziare, per completezza, che le doglianze del COGNOME rispetto all’incompatibilità delle prescrizioni con le proprie esigenze lavorative e di salute si palesano assolutamente generiche, tenuto conto della disponibilità, espressa proprio dallo stesso all’udienza dinanzi alla Corte di Appello, a prestare lavoro sostitutivo anche per oltre quindici ore a settimana.
2. Il terzo motivo è inammissibile.
Occorre invero considerare che la legge n. 103 del 2017 ha inserito nell’ambito dell’art. 610 cod.proc.pen. un nuovo comma 5-bis, che, nella misura in cui rileva in questa sede, stabilisce che: “…. la corte dichiara senza formalità di procedura l’inammissibilità del ricorso. Allo stesso modo la corte dichiara l’inammissibilità del ricorso contro la sentenza di applicazione della pena su richiesta delle parti e contro la sentenza pronunciata a norma dell’articolo 599 bis”.
Da questa precisazione, nella giurisprudenza di legittimità si è desunto che, sebbene la richiamata modifica normativa non abbia previsto per il concordato in appello alcuna ipotesi di censure ricorribili per cassazione – a differenza di quanto avvenuto per la sentenza di applicazione della pena su richiesta delle parti giusta il disposto dell’art. 448-bis cod. proc. pen. – stabilendo per esso soltanto la declaratoria di inammissibilità de plano, debba nondimeno ritenersi che le uniche doglianze proponibili siano quelle relative ad eventuali vizi della sentenza rispetto alla formazione della volontà delle parti di accedere al concordato in appello, ed all’eventuale contenuto difforme della pronuncia del
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giudice di appello (Sez. 2, n. 22002 del 10/04/2019, COGNOME, Rv. 276102 01).
All’inammissibilità del ricorso consegue la condanna del ricorrente al pagamento delle spese processuali, nonché, ex art. 616 cod. proc. pen., valutati i profili di colpa nella determinazione della causa di inammissibilità emergenti dal ricorso (Corte Cost. 13 giugno 2000, n. 186), al versamento della somma di euro tremila in favore della Cassa delle ammende.
P.Q.M.
Dichiara inammissibile il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese processuali e della somma di euro tremila in favore della Cassa delle ammende.
Così deciso in Roma il 21 novembre 2023 Il Consigliere COGNOME