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Competenza funzionale appello: il caso del 416-bis

Un soggetto, condannato per associazione di tipo mafioso, ha contestato in Cassazione la competenza della Corte d’appello a giudicarlo, sostenendo che spettasse alla Corte d’assise d’appello. La Suprema Corte ha rigettato il ricorso, affermando un principio chiave sulla competenza funzionale appello: questa si determina in base al reato oggetto del nuovo giudizio. Poiché il processo era regredito solo per il reato associativo, la competenza era correttamente radicata presso la Corte d’appello ordinaria e non quella d’assise.

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Pubblicato il 12 ottobre 2025 in Diritto Penale, Giurisprudenza Penale, Procedura Penale

Competenza Funzionale Appello e Reato Associativo: La Cassazione Fa Chiarezza

In materia di procedura penale, la determinazione del giudice competente è un pilastro fondamentale del giusto processo. Una recente sentenza della Corte di Cassazione affronta un’interessante questione sulla competenza funzionale appello nel caso di un processo che, dopo una parziale regressione al primo grado, prosegue solo per il reato di associazione di tipo mafioso. La decisione chiarisce quale corte d’appello sia competente a giudicare, se quella ordinaria o la Corte d’assise d’appello.

I Fatti di Causa

La vicenda processuale è complessa. Un imputato viene inizialmente condannato dal Giudice dell’udienza preliminare (GUP) per il reato di associazione a delinquere di stampo mafioso (art. 416-bis c.p.) e per una serie di reati-fine, tra cui detenzione di armi, stupefacenti e truffe assicurative.

In primo appello, la Corte d’assise d’appello conferma la condanna per i reati-fine, che diviene definitiva, ma dichiara la nullità della sentenza per il solo reato associativo, a causa di un vizio di motivazione. Di conseguenza, gli atti vengono ritrasmessi al GUP per un nuovo giudizio limitatamente a tale accusa. All’esito del secondo giudizio di primo grado, l’imputato viene nuovamente condannato per il reato ex art. 416-bis c.p. La sentenza viene confermata dalla Corte d’appello ordinaria. È contro quest’ultima decisione che l’imputato ricorre in Cassazione.

La Questione sulla Competenza Funzionale Appello

Il primo e più rilevante motivo di ricorso si concentra proprio sulla competenza funzionale appello. La difesa sostiene che, poiché il primo giudizio d’appello era stato celebrato dinanzi alla Corte d’assise d’appello (competente per via della connessione tra il reato associativo e altri gravi reati), anche il secondo giudizio d’appello avrebbe dovuto svolgersi davanti allo stesso organo. Secondo questa tesi, la competenza originariamente radicata avrebbe dovuto persistere nonostante la successiva separazione dei procedimenti. Si tratterebbe, in altre parole, di un’applicazione del principio di perpetuatio jurisdictionis.

Il Secondo Motivo di Ricorso: L’Appartenenza al Sodalizio

Con il secondo motivo, la difesa contesta il merito della condanna, asserendo una illogicità della motivazione. Si argomenta che le prove, in particolare le dichiarazioni di alcuni collaboratori di giustizia, non dimostrerebbero un’affiliazione formale al clan, ma solo un coinvolgimento in specifici reati (truffe assicurative) i cui proventi non sarebbero confluiti nella cassa comune dell’organizzazione.

Le Motivazioni della Suprema Corte

La Corte di Cassazione ha rigettato entrambi i motivi, ritenendo il ricorso infondato.

Sul primo punto, la Corte ha chiarito in modo netto la regola che governa la competenza funzionale appello in casi come questo. Il principio dirimente è che la competenza si determina sulla base delle imputazioni oggetto del nuovo giudizio. Nel caso di specie, il processo era regredito al primo grado e poi giunto in appello esclusivamente per il delitto di cui all’art. 416-bis c.p. Quando tale reato viene giudicato singolarmente con rito abbreviato, la competenza per l’appello spetta alla Corte d’appello ordinaria, non alla Corte d’assise d’appello. La connessione con gli altri reati, che aveva inizialmente determinato la competenza della Corte d’assise, era venuta meno con la regressione parziale del procedimento. Pertanto, la Corte d’appello di Catanzaro era pienamente competente.

Riguardo al secondo motivo, la Cassazione lo ha dichiarato inammissibile. Le censure della difesa, infatti, non miravano a evidenziare un vizio logico della sentenza, ma a proporre una rilettura alternativa delle prove. Un’operazione, questa, preclusa al giudice di legittimità. La Corte ha comunque sottolineato che la motivazione dei giudici di merito era coerente e priva di contraddizioni, avendo logicamente dedotto il ruolo attivo dell’imputato nell’organizzazione dalla sistematicità e funzionalità dei reati-fine commessi, i quali finanziavano le attività del sodalizio.

Le Conclusioni

La sentenza consolida un importante principio di procedura penale: in caso di annullamento parziale con rinvio, la competenza per il successivo appello si determina in base alle sole imputazioni residue. Viene così esclusa un’applicazione automatica del principio della perpetuatio jurisdictionis che porterebbe a conservare la competenza del giudice dell’impugnazione originaria. Questa pronuncia offre un criterio chiaro per la gestione di vicende processuali complesse, garantendo certezza nell’individuazione del giudice naturale precostituito per legge.

Quando un processo viene parzialmente annullato e rinviato al primo grado, chi è il giudice competente per il successivo appello?
Il giudice competente per il successivo appello si determina esclusivamente sulla base dei reati per i quali si sta procedendo nel nuovo giudizio. Se i reati residui rientrano nella competenza della Corte d’appello ordinaria, sarà questa a giudicare, anche se il procedimento originario, più ampio, era di competenza della Corte d’assise d’appello.

La Corte di Cassazione può riesaminare nel merito le prove di un processo?
No, la Corte di Cassazione è un giudice di legittimità. Il suo compito non è quello di rivalutare le prove o fornire una diversa interpretazione dei fatti, ma di verificare che la legge sia stata applicata correttamente e che la motivazione della sentenza impugnata sia logica, coerente e non contraddittoria.

Come è stata provata l’appartenenza dell’imputato all’associazione mafiosa in questo caso?
L’appartenenza è stata provata non solo sulla base delle dichiarazioni dei collaboratori, ma anche attraverso la valutazione dei cosiddetti reati-fine. I giudici hanno ritenuto che la commissione sistematica di truffe, la detenzione di armi e lo spaccio non fossero attività isolate, ma azioni pienamente funzionali agli scopi dell’organizzazione criminale, contribuendo in modo diretto al suo finanziamento e alla sua operatività complessiva.

La selezione delle sentenze e la raccolta delle massime di giurisprudenza è a cura di Carmine Paul Alexander TEDESCO, Avvocato a Milano, Pesaro e Benevento.

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