Commisurazione della pena: perché la sentenza del coimputato che patteggia non fa testo?
La corretta commisurazione della pena rappresenta uno dei momenti più delicati del processo penale, in cui il giudice è chiamato a tradurre la gravità di un reato e la personalità dell’imputato in una sanzione concreta. Ma cosa succede se un coimputato, per lo stesso reato, ottiene una pena molto più mite scegliendo un rito alternativo come il patteggiamento? Una recente ordinanza della Corte di Cassazione (n. 12818/2024) offre un chiarimento fondamentale: le due posizioni non sono confrontabili. Analizziamo insieme il caso e le sue implicazioni.
I Fatti del Caso: Furto e Appello sulla Quantità della Pena
Il caso nasce dal ricorso di una donna, condannata in primo e secondo grado per furto aggravato e indebito utilizzo di carta di credito. L’unico motivo di appello portato davanti alla Suprema Corte non riguardava la sua colpevolezza, ma l’entità della pena inflitta. La ricorrente la riteneva sproporzionata, soprattutto se paragonata a quella della sua coimputata, la quale, per lo stesso reato, aveva ottenuto una pena inferiore e la sospensione condizionale.
La difesa sosteneva un’erronea commisurazione della pena, chiedendo di fatto ai giudici di legittimità una valutazione comparativa tra le due posizioni. Tale richiesta, tuttavia, si è scontrata con principi consolidati sia nel codice che nella giurisprudenza.
La Decisione della Corte di Cassazione
La Settima Sezione Penale della Corte di Cassazione ha dichiarato il ricorso manifestamente infondato e, pertanto, inammissibile. La Corte ha ribadito che la determinazione della pena rientra nella piena discrezionalità del giudice di merito e che un confronto con la posizione di un correo è, di regola, inammissibile, specialmente quando quest’ultimo ha definito la sua posizione tramite un rito premiale.
La Discrezionalità del Giudice nella Commisurazione della pena
Il fulcro della decisione risiede nel principio sancito dall’art. 133 del codice penale. Questo articolo fornisce al giudice i parametri per esercitare il proprio potere discrezionale nella quantificazione della pena, tenendo conto:
* Della gravità del reato: modalità dell’azione, gravità del danno, intensità del dolo o grado della colpa.
* Della capacità a delinquere del colpevole: precedenti penali, condotta di vita, comportamento durante e dopo il reato.
La Cassazione ha ricordato che, per motivare la sua scelta, al giudice è sufficiente utilizzare espressioni come “pena congrua” o “pena equa”, o fare riferimento ai criteri dell’art. 133. Solo quando la pena si discosta notevolmente dalla media edittale è richiesta una motivazione più specifica e dettagliata.
Il Divieto di “Valutazione Comparativa”
La Suprema Corte ha inoltre sottolineato che non è consentito, in sede di legittimità, svolgere una “critica da confronto e da valutazione comparativa” rispetto alle posizioni di altri imputati, anche se correi. Un simile confronto è ammesso solo in casi eccezionali, ovvero quando la motivazione del giudice di merito appare palesemente irragionevole o paradossale, cosa che non si è verificata nel caso di specie.
L’impossibilità di Confrontare una Sentenza Ordinaria con un Patteggiamento
L’elemento decisivo che ha portato all’inammissibilità del ricorso è la diversa natura del procedimento seguito dalla coimputata. Quest’ultima aveva scelto il “patteggiamento” (applicazione della pena su richiesta delle parti), un rito speciale che offre vantaggi in cambio della rinuncia al dibattimento.
Una sentenza emessa a seguito di patteggiamento si fonda su valutazioni del tutto peculiari, tra cui il risparmio processuale che ne deriva. La pena “patteggiata” è il risultato di un accordo tra accusa e difesa, che tiene conto di fattori che non entrano in gioco in un processo celebrato con rito ordinario. Pertanto, confrontare una pena decisa da un giudice dopo un completo dibattimento con una concordata tra le parti in un rito premiale è metodologicamente scorretto e giuridicamente inammissibile.
Le Motivazioni della Sentenza
Le motivazioni della Corte si basano su due pilastri fondamentali della procedura e del diritto penale. In primo luogo, la discrezionalità del giudice di merito nella commisurazione della pena, un potere che può essere sindacato in Cassazione solo per vizi di legalità o motivazione manifestamente illogica, non per una diversa valutazione di opportunità. In secondo luogo, la non confrontabilità tra esiti sanzionatori derivanti da percorsi processuali differenti. La scelta del patteggiamento da parte di un coimputato introduce variabili (come la volontà di definire rapidamente il processo e ottenere uno sconto di pena) che rendono la sua posizione giuridicamente non assimilabile a quella di chi affronta il dibattimento.
Le Conclusioni: Implicazioni Pratiche
Questa ordinanza riafferma un principio cruciale: la strategia processuale adottata ha conseguenze dirette e non reversibili sull’esito del giudizio. L’imputato che sceglie di affrontare il dibattimento non può, in seguito, lamentare una disparità di trattamento rispetto al coimputato che ha optato per un rito alternativo più vantaggioso. La decisione della Corte di Cassazione serve come monito: la valutazione sulla pena è individuale e strettamente legata al percorso processuale scelto, e la ricerca di una “giustizia comparativa” tra imputati che hanno seguito strade diverse è destinata a fallire.
È possibile contestare una condanna sostenendo che la propria pena è più severa di quella di un coimputato?
Di norma, no. La Corte di Cassazione ha stabilito che non è consentita una ‘critica da confronto e da valutazione comparativa’ rispetto ad altre posizioni individuali, salvo il caso in cui la decisione del giudice di merito sia palesemente irragionevole o paradossale.
Perché la pena decisa in un processo ordinario non può essere paragonata a quella ottenuta con un patteggiamento?
Perché il patteggiamento è un rito premiale che si basa su presupposti diversi, come l’accordo tra le parti e il risparmio processuale. La pena patteggiata è frutto di valutazioni particolari che non si applicano a chi sceglie di affrontare il dibattimento, rendendo le due situazioni giuridicamente non confrontabili.
Quale obbligo di motivazione ha il giudice nel determinare l’entità della pena?
Per assolvere all’obbligo di motivazione, è sufficiente che il giudice dia conto dell’impiego dei criteri dell’art. 133 del codice penale, anche con espressioni sintetiche come ‘pena congrua’ o ‘pena equa’. Una spiegazione specifica e dettagliata è necessaria solo quando la pena inflitta è di gran lunga superiore alla misura media prevista dalla legge per quel reato.
Testo del provvedimento
Ordinanza di Cassazione Penale Sez. 7 Num. 12818 Anno 2024
Penale Ord. Sez. 7 Num. 12818 Anno 2024
Presidente: COGNOME NOME COGNOME NOME
Relatore: COGNOME NOME
Data Udienza: 28/02/2024
ORDINANZA
sul ricorso proposto da:
OTERO NOME nato il DATA_NASCITA
avverso la sentenza del 20/06/2023 della CORTE APPELLO di MILANO
dato avviso alle parti;
udita la relazione svolta dal Consigliere NOME COGNOME;
NUMERO_DOCUMENTO
Rilevato che NOME ricorre avverso la sentenza con cui la Corte d’appello di Milano ne ha confermato la condanna per il delitto di furto aggravato e di indebito utilizzo di carta di credito;
Ritenuto che l’unico motivo di ricorso, con il quale il ricorrente lamenta violazione di legge e vizio di motivazione in ordine all’erronea commisurazione dell’entità della pena, invocando una valutazione comparativa con la coimputata nel medesimo fatto di reato, alla quale è stata applicata una pena inferiore con accesso anche al beneficio della condizionale, è manifestamente infondato in quanto in palese contrasto con il dato normativo e con la consolidata giurisprudenza di legittimità. Secondo consolidato orientamento, la graduazione della pena, anche in relazione agli aumenti ed alle diminuzioni previsti per le circostanze aggravanti ed attenuanti, rientra nella discrezionalità del giudice di merito, il quale, per assolvere al relativo obbligo di motivazione, è sufficiente che dia conto dell’impiego dei criteri di cui all’art. 133 cod. pen. con espressioni del tipo: “pena congrua”, “pena equa” o “congruo aumento”, come pure con il richiamo alla gravità del reato o alla capacità a delinquere, essendo, invece, necessaria una specifica e dettagliata spiegazione del ragionamento seguito soltanto quando la pena sia di gran lunga superiore alla misura media di quella edittale. (Sez. 2, Sentenza n. 36104 del 27/04/2017, Mastro, Rv. 271243).
Inoltre, non è consentito dedurre, in sede di legittimità, in riferimento alla dosimetria sanzionatoria, una “critica da confronto e da valutazione comparativa” rispetto ad altre posizioni individuali, anche se di correi, salvo il caso in cui i giudizio di merito sul punto sia sostenuto da asserzioni irragionevoli o paradossali (Sez. 3, n. 27115 del 19/02/2015, COGNOME e altri, Rv. 264020; Sez. 6, n. 21838 del 23/05/2012 – Giovane, Rv.252880; conf. Sez. 5 n. 12743 del 20/02/2020, Rv. 279022.). Peraltro, nel caso di specie, la coimputata ha definito la sua posizione con il patteggiamento, rito premiale che conduce a una decisione che si fonda su valutazioni del tutto particolari, correlate anche al risparmio processuale conseguente alla scelta di una forma di definizione del processo alternativa al dibattimento (Sez. 6, n. 21019 del 18/05/2021, Rv. 281508 -03; Sez. 6, n. 24402 del 12/03/2008, Rv. 240356).
Rilevato, pertanto, che il ricorso deve essere dichiarato inammissibile, con la condanna della ricorrente al pagamento delle spese processuali e della somma di euro tremila a favore della Cassa delle ammende;
P.Q.M.
Dichiara inammissibile il ricorso e condanna la ricorrente al pagamento delle spese processuali e della somma di Euro 3.000,00 a favore della Cassa delle ammende.
Così deciso il 28/02/2024