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Coltivazione stupefacenti: quando è spaccio?

La Corte di Cassazione dichiara inammissibile il ricorso di un imputato condannato per coltivazione stupefacenti ai fini di spaccio. La Corte ha stabilito che una piantagione di 42 piante di marijuana, alte fino a 4 metri e supportata da attrezzature professionali, non può essere considerata per uso personale. È stata inoltre confermata l’aggravante della recidiva, data la pericolosità sociale del soggetto desunta dai suoi precedenti specifici e dalla sua condotta.

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Pubblicato il 17 settembre 2025 in Diritto Penale, Giurisprudenza Penale, Procedura Penale

Coltivazione Stupefacenti: Quando la Difesa dell’Uso Personale Non Regge

La distinzione tra la coltivazione stupefacenti per uso personale e quella destinata allo spaccio è una linea sottile ma cruciale nel diritto penale. Una recente ordinanza della Corte di Cassazione ha ribadito i criteri oggettivi per tracciare questo confine, dichiarando inammissibile il ricorso di un imputato che sosteneva di coltivare marijuana esclusivamente per sé. La decisione sottolinea come non basti la sola dichiarazione dell’interessato, ma contino i fatti concreti: quantità, modalità e attrezzature utilizzate.

I Fatti del Caso

Il caso riguarda un uomo condannato in Corte d’Appello per la coltivazione di un considerevole quantitativo di marijuana. L’imputato ha presentato ricorso in Cassazione basandosi su due argomenti principali:

1. Violazione di legge: Sosteneva che la coltivazione fosse finalizzata unicamente al suo consumo personale, in quanto tossicodipendente, e che quindi la sua condotta dovesse essere ricondotta alla meno grave fattispecie dell’articolo 75 del Testo Unico Stupefacenti (illecito amministrativo) e non a quella penale dell’articolo 73 (produzione e spaccio).
2. Errata applicazione della recidiva: Contestava l’applicazione dell’aggravante della recidiva, ritenendo che il fatto non dimostrasse una sua accresciuta pericolosità sociale.

La Decisione della Corte di Cassazione

La Suprema Corte ha respinto entrambe le argomentazioni, dichiarando il ricorso inammissibile. Secondo i giudici, i motivi presentati dalla difesa non erano altro che un tentativo di ottenere una nuova valutazione delle prove, attività preclusa in sede di legittimità. La Corte ha invece confermato la solidità e la coerenza logica della sentenza d’appello, condannando il ricorrente al pagamento delle spese processuali e di una sanzione pecuniaria.

Le motivazioni della Sentenza sulla coltivazione stupefacenti

L’ordinanza offre spunti fondamentali per comprendere come i giudici valutano la destinazione della sostanza coltivata.

I Criteri per Escludere l’Uso Personale

I giudici di merito, e la Cassazione con loro, hanno ritenuto l’ipotesi dell’uso personale palesemente infondata sulla base di elementi oggettivi e inequivocabili. La tesi difensiva è stata smontata da prove concrete che indicavano una produzione su larga scala, ben oltre le necessità di un singolo consumatore:

* Quantità: La piantagione era composta da ben 42 piante, già in avanzato stato di crescita e alte tra i 2 e i 4 metri.
* Potenziale produttivo: È stato stimato che le piante avrebbero potuto produrre un quantitativo di principio attivo sufficiente per oltre 30.200 dosi medie singole.
* Modalità di coltivazione: L’allestimento non era affatto ‘domestico’ o rudimentale. Sul posto erano presenti due grandi cisterne per l’acqua, tubi per l’irrigazione e fertilizzanti. Questi elementi deponevano per un’attività organizzata e finalizzata a massimizzare il raccolto, tipica della produzione per lo spaccio.

La Corte ha quindi ribadito che la destinazione allo spaccio si presume quando le caratteristiche della coltivazione superano una soglia quantitativa e qualitativa che la rende incompatibile con un consumo meramente personale.

La Giustificazione della Recidiva

Anche la seconda doglianza sulla recidiva è stata respinta. La Cassazione ha ritenuto corretta la valutazione dei giudici d’appello, che hanno motivato l’aggravante non solo sulla base dei precedenti specifici dell’imputato in materia di stupefacenti. Hanno pesato anche altri fattori, come il fatto che l’uomo stesse già espiando una pena e che avesse subito in passato la revoca dell’affidamento in prova. Questo quadro complessivo, secondo la Corte, rivelava una ‘sostanziale indifferenza’ agli effetti deterrenti delle precedenti condanne e una ‘stabile dedizione’ a commettere reati di quel tipo, dimostrando una ‘accresciuta pericolosità’ che giustificava pienamente l’aumento di pena per la recidiva.

Conclusioni

Questa ordinanza della Cassazione serve come un chiaro monito: la tesi dell’uso personale nella coltivazione stupefacenti deve essere supportata da elementi concreti e non può basarsi sulla semplice affermazione dell’imputato. Dati oggettivi come il numero di piante, il potenziale di produzione e il livello di organizzazione della coltivazione sono decisivi per qualificare il reato come produzione ai fini di spaccio. Allo stesso modo, la recidiva non è un automatismo, ma viene applicata quando la storia criminale e la condotta complessiva del reo dimostrano una chiara e persistente inclinazione a delinquere, rendendolo socialmente più pericoloso.

Quando la coltivazione di marijuana è considerata spaccio e non uso personale?
Secondo la Corte, la coltivazione è considerata finalizzata allo spaccio quando le circostanze oggettive superano le necessità di un consumo personale. Gli indici rivelatori sono il cospicuo numero di piante (nel caso di specie, 42), l’ingente potenziale produttivo (oltre 30.200 dosi) e l’impiego di tecniche e attrezzature non rudimentali (grandi cisterne, sistemi di irrigazione, fertilizzanti).

Perché la Corte ha ritenuto il ricorso inammissibile?
Il ricorso è stato dichiarato inammissibile perché i motivi proposti non denunciavano vizi di legittimità (come violazioni di legge o difetti logici della motivazione), ma miravano a una rivalutazione delle prove e dei fatti. Questo tipo di riesame è precluso alla Corte di Cassazione, che può giudicare solo sulla corretta applicazione della legge e non sul merito delle prove.

In che modo è stata giustificata l’applicazione della recidiva?
L’applicazione della recidiva è stata giustificata non solo sulla base dei precedenti penali specifici dell’imputato, ma anche sulla sua condotta complessiva. I giudici hanno considerato il fatto che stesse già espiando una pena e che avesse subito plurime revoche dell’affidamento in prova. Questi elementi, nel loro insieme, hanno dimostrato una spiccata e persistente pericolosità sociale e un’indifferenza verso le sanzioni precedenti, legittimando l’aumento di pena.

La selezione delle sentenze e la raccolta delle massime di giurisprudenza è a cura di Carmine Paul Alexander TEDESCO, Avvocato a Milano, Pesaro e Benevento.

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