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Coltivazione stupefacenti: quando è reato? Cassazione

La Corte di Cassazione si è pronunciata su un caso di coltivazione di stupefacenti, confermando la condanna per due imputati coinvolti in una piantagione di 646 piante di marijuana. La sentenza ribadisce il principio distintivo tra la “coltivazione domestica” per uso personale, considerata non punibile, e quella “tecnico-agraria” su larga scala, che costituisce reato. Nel caso di specie, il numero di piante, le attrezzature professionali e la quantità di sostanza già essiccata (12 kg) sono stati elementi decisivi per qualificare l’attività come illecita e destinata allo spaccio. La Corte ha inoltre ritenuto inammissibile il ricorso di un imputato e rigettato quello dell’altro.

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Pubblicato il 10 settembre 2025 in Diritto Penale, Giurisprudenza Penale, Procedura Penale

Coltivazione di stupefacenti: la Cassazione traccia il confine tra reato e uso personale

La Corte di Cassazione, con la sentenza in esame, torna a pronunciarsi su un tema di grande attualità: la coltivazione di stupefacenti. La pronuncia offre un’occasione preziosa per chiarire, ancora una volta, i criteri che distinguono una condotta penalmente rilevante da una coltivazione “domestica” destinata all’uso personale, ritenuta non punibile. Il caso analizzato riguarda una vasta piantagione e permette di comprendere quali elementi fattuali siano decisivi per la qualificazione del reato.

I Fatti del Caso

Il procedimento ha origine dalla scoperta di una piantagione composta da 646 piante di marijuana. Due soggetti venivano condannati nei primi due gradi di giudizio non solo per la coltivazione, ma anche per la detenzione di un’ingente quantità di sostanza già essiccata (12 kg) e di strumenti professionali per la coltivazione e il confezionamento, come un impianto di irrigazione e macchinari per il sottovuoto. La Corte d’Appello aveva rideterminato le pene, condannando un imputato a cinque anni di reclusione e l’altro a quattro anni e otto mesi.

L’Appello in Cassazione e i Motivi del Ricorso

Contro la sentenza d’appello, gli imputati proponevano ricorso in Cassazione. Le difese si basavano su argomentazioni distinte:

1. Un ricorrente lamentava un vizio di motivazione riguardo alla sua effettiva partecipazione all’attività illecita. Sosteneva che la sua presenza sul luogo era stata osservata solo per un breve lasso di tempo e che la sua condanna si basava su elementi puramente deduttivi, come i suoi precedenti penali e le sue competenze botaniche.
2. L’altro ricorrente sosteneva che la condotta fosse “inoffensiva in concreto”. A suo dire, le piante non erano giunte a maturazione e la quantità di principio attivo ricavabile era limitata, pertanto non vi era un reale pericolo per la salute pubblica. Contestava, inoltre, il mancato riconoscimento delle circostanze attenuanti generiche, ritenendo che la sua confessione fosse stata ingiustamente svalutata.

Le Motivazioni della Corte di Cassazione

La Suprema Corte ha respinto entrambe le tesi difensive, fornendo motivazioni dettagliate e in linea con i più recenti orientamenti giurisprudenziali.

La distinzione cruciale nella coltivazione di stupefacenti

Il punto centrale della decisione riguarda la distinzione tra “coltivazione tecnico-agraria” e “coltivazione domestica”. La Corte ha ribadito che, secondo l’orientamento delle Sezioni Unite (sentenza “Caruso” n. 12348/2019), non costituisce reato solo la coltivazione di minime dimensioni, svolta con tecniche rudimentali e destinata in modo evidente ed esclusivo all’autoconsumo.

Nel caso di specie, la Corte ha evidenziato come tutti gli elementi indicassero un’attività imprenditoriale e non un uso personale:
* Il numero di piante: 646 piante sono un quantitativo incompatibile con l’uso personale.
* Le attrezzature: la presenza di un impianto di irrigazione e di strumenti per il confezionamento professionale (bilance, bustine, macchine per sottovuoto) denotava un’organizzazione finalizzata alla vendita.
* Le scorte: il rinvenimento di ben 12 kg di marijuana già essiccata confermava la destinazione allo spaccio.

Di fronte a tali elementi, l’argomento dell'”offensività in concreto” legato alla mancata maturazione delle piante perde ogni valore. Il reato sussiste per la sola attitudine della piantagione a produrre sostanza stupefacente, indipendentemente dalla quantità di principio attivo estraibile al momento del sequestro.

La Responsabilità per Concorso nel Reato

Per quanto riguarda il primo ricorrente, la Cassazione ha dichiarato il suo ricorso inammissibile. I giudici hanno ritenuto che la sua partecipazione fosse stata adeguatamente provata. La sua presenza attiva sul posto per circa 40 minuti, il tentativo di fuga all’arrivo delle forze dell’ordine e il contesto generale erano sufficienti a dimostrare il suo contributo, quantomeno a titolo di concorso morale. La sua presenza, infatti, aveva rafforzato il proposito criminoso degli altri complici, integrando così una forma di partecipazione punibile ai sensi dell’art. 110 del codice penale.

Il Diniego delle Attenuanti Generiche

Infine, la Corte ha confermato la correttezza del diniego delle attenuanti generiche al secondo ricorrente. I giudici di merito avevano correttamente bilanciato tutti gli elementi previsti dall’art. 133 del codice penale. La confessione, da sola, non era sufficiente a giustificare una riduzione di pena di fronte alla gravità dei fatti, all’intensità del dolo e alla personalità del soggetto, desunta anche dai precedenti specifici.

Le Conclusioni

La sentenza consolida un principio giuridico di fondamentale importanza pratica: la non punibilità della coltivazione di stupefacenti è un’eccezione che si applica solo a casi marginali di coltivazione domestica. Qualsiasi elemento che indichi un’organizzazione, una professionalità o una scala produttiva superiore al minimo indispensabile per l’autoconsumo fa scattare la qualificazione di reato. La decisione sottolinea inoltre come, nel concorso di persone, anche un contributo non materiale ma di mero rafforzamento psicologico possa essere sufficiente per fondare una condanna, e che le attenuanti generiche richiedono una valutazione complessiva che può legittimamente considerare una confessione recessiva rispetto alla gravità del crimine commesso.

Quando la coltivazione di cannabis è considerata reato?
La coltivazione di cannabis è considerata reato quando, per le sue caratteristiche, non può essere qualificata come “domestica”. Secondo la sentenza, sono indici di reato un numero non esiguo di piante, l’uso di tecniche e strumenti professionali e qualsiasi altro elemento che suggerisca una destinazione del prodotto diversa dall’uso strettamente personale, come la commercializzazione.

È sufficiente essere presenti in una piantagione illegale per essere condannati?
No, la mera presenza non è sufficiente, ma può diventarlo se interpretata come una forma di partecipazione. La Corte ha stabilito che una presenza attiva, che rafforza il proposito criminoso degli altri (concorso morale), unita a comportamenti come il tentativo di fuga, è sufficiente per integrare una condotta penalmente rilevante e fondare una condanna per concorso nel reato.

Una confessione garantisce l’ottenimento delle circostanze attenuanti generiche?
No. La confessione è solo uno degli elementi che il giudice valuta ai sensi dell’art. 133 del codice penale. Come chiarito dalla sentenza, il giudice può legittimamente negare le attenuanti se altri elementi, come la particolare gravità del fatto (es. l’enorme quantitativo coltivato), l’intensità del dolo e la personalità dell’imputato, sono considerati prevalenti.

La selezione delle sentenze e la raccolta delle massime di giurisprudenza è a cura di Carmine Paul Alexander TEDESCO, Avvocato a Milano, Pesaro e Benevento.

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