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Coltivazione domestica: quando è reato? La Cassazione

La Corte di Cassazione ha dichiarato inammissibile il ricorso di un individuo condannato per la coltivazione di 30 piante di marijuana. La Corte ha stabilito che la presenza di attrezzature professionali (lampade, temporizzatori, pannelli riflettenti) e il numero di piante escludono la natura di coltivazione domestica per uso personale, configurando invece un’attività destinata allo spaccio.

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Pubblicato il 2 novembre 2025 in Diritto Penale, Giurisprudenza Penale, Procedura Penale

Coltivazione Domestica di Stupefacenti: Quando Supera l’Uso Personale?

La questione della coltivazione domestica di sostanze stupefacenti, in particolare la marijuana, è da tempo al centro di un acceso dibattito giuridico. La linea di demarcazione tra la condotta penalmente irrilevante, perché destinata all’uso strettamente personale, e quella illecita, finalizzata allo spaccio, è spesso sottile. Una recente ordinanza della Corte di Cassazione (n. 7636/2024) offre importanti chiarimenti, ribadendo i criteri per distinguere le due fattispecie.

Il caso in esame: oltre la semplice coltivazione per uso personale

Il caso sottoposto all’esame della Suprema Corte riguardava un soggetto condannato in appello per la coltivazione di trenta piante di marijuana. Durante una perquisizione domiciliare, le forze dell’ordine avevano rinvenuto non solo le piante, ma anche una somma di denaro e un’attrezzatura completa e professionale per la coltivazione e il confezionamento. Questa includeva una lampada alogena, un interruttore-temporizzatore per le luci, un termostato digitale, pannelli termo-riflettenti, un bilancino di precisione, un taglierino e bustine.

L’imputato aveva presentato ricorso in Cassazione, sostenendo che la sua condotta rientrasse nell’ambito della coltivazione domestica per uso personale, come delineato dalla storica sentenza a Sezioni Unite “Caruso” del 2019, e che quindi non fosse penalmente rilevante.

La valutazione della Corte sulla coltivazione domestica

La Corte di Cassazione ha respinto il ricorso, dichiarandolo inammissibile. Secondo i giudici, i motivi presentati erano generici e si limitavano a contestare l’accertamento dei fatti, un’operazione preclusa in sede di legittimità. La Corte ha sottolineato come i giudici di merito avessero correttamente valutato tutti gli elementi a disposizione, giungendo alla conclusione che l’attività non fosse finalizzata al solo uso personale.

Le motivazioni

Il cuore della decisione risiede nella corretta interpretazione dei principi stabiliti dalle Sezioni Unite. La giurisprudenza di legittimità ha chiarito che la coltivazione di stupefacenti non è reato solo quando presenta specifiche caratteristiche: deve essere svolta in forma domestica, con tecniche rudimentali, un numero esiguo di piante e deve essere oggettivamente destinata a produrre un quantitativo modesto per il consumo esclusivo e immediato del coltivatore.

Nel caso di specie, la Corte ha rilevato che la presenza di un’attrezzatura così strutturata (impianti di illuminazione, controllo della temperatura) e di strumenti per il confezionamento (bilancino, bustine) rappresentava un chiaro “accorgimento per rafforzare la produzione”. Questi elementi, uniti al numero non esiguo di piante (trenta), sono stati considerati indici inequivocabili di un’attività organizzata non per un consumo personale, ma per un inserimento nel mercato illegale. Di conseguenza, la condotta non poteva beneficiare della causa di non punibilità prevista per la coltivazione domestica minimale.

Le conclusioni

L’ordinanza ribadisce un principio fondamentale: la nozione di coltivazione domestica penalmente irrilevante è circoscritta a casi di minima entità. Qualsiasi elemento che denoti un’organizzazione volta a massimizzare la produzione, superando le esigenze di un consumo personale, fa scattare la qualificazione della condotta come reato di produzione di sostanze stupefacenti ai fini di spaccio (art. 73, comma 5, D.P.R. 309/1990). La decisione serve da monito: la semplice collocazione della coltivazione tra le mura domestiche non è sufficiente a garantirne la liceità, se le modalità concrete e gli strumenti utilizzati rivelano un’intenzione imprenditoriale e non di mero autoconsumo.

Quando la coltivazione domestica di marijuana è considerata reato?
La coltivazione domestica è reato quando, per il numero di piante e le tecniche utilizzate, supera i limiti di una coltivazione rudimentale destinata a un modestissimo quantitativo per uso esclusivamente personale. L’uso di attrezzature professionali per aumentare la produzione è un chiaro indice di reato.

Quali elementi distinguono la coltivazione per uso personale da quella finalizzata allo spaccio?
Secondo la Corte, gli elementi decisivi sono il numero di piante, le tecniche di coltivazione (rudimentali o avanzate) e la presenza di strumenti per il confezionamento e la vendita, come bilancini di precisione e bustine. Nel caso esaminato, 30 piante e un’attrezzatura professionale sono stati ritenuti prova dell’intento di spaccio.

Cosa comporta la dichiarazione di inammissibilità di un ricorso in Cassazione?
Quando un ricorso è dichiarato inammissibile, la Corte non esamina il merito della questione. Il ricorrente viene condannato al pagamento delle spese processuali e al versamento di una somma di denaro alla Cassa delle ammende, che in questo caso è stata fissata in tremila euro.

La selezione delle sentenze e la raccolta delle massime di giurisprudenza è a cura di Carmine Paul Alexander TEDESCO, Avvocato a Milano, Pesaro e Benevento.

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