Coltivazione di Stupefacenti: Quando la Prova Schiaccia la Difesa
La coltivazione di stupefacenti continua ad essere un tema centrale nel dibattito giuridico, con sentenze che ne definiscono costantemente i contorni. Una recente ordinanza della Corte di Cassazione offre spunti cruciali per comprendere quando questa attività integra un reato, focalizzandosi su due aspetti chiave: la prova della responsabilità e il concetto di offensività della condotta. Il caso analizzato riguarda un uomo condannato per aver coltivato 136 piantine di cannabis in un capannone adiacente alla sua abitazione.
I Fatti del Caso
L’imputato era stato condannato nei gradi di merito per il reato previsto dall’art. 73 del d.P.R. 309/1990, per aver coltivato 136 piante di cannabis indica. Le piante, di altezza variabile tra 6 e 9 centimetri, erano state rinvenute in un capannone situato nelle immediate vicinanze della sua abitazione, dove si trovava agli arresti domiciliari.
La difesa aveva tentato di creare un parallelo con un’altra vicenda processuale che vedeva coinvolto lo stesso soggetto. In quel caso, era stato assolto dall’accusa di detenzione di droga e armi trovate in un garage, poiché era stato impossibile stabilire con certezza la riconducibilità di quel luogo all’imputato. Il garage, infatti, era di proprietà di una ditta e affittato a un’altra persona.
Tuttavia, la situazione del capannone era nettamente diversa: non solo era attiguo alla sua residenza, ma, come emergerà, lo stesso imputato ne aveva ammesso la riconducibilità a sé.
I Motivi del Ricorso e la Decisione della Corte
L’imputato ha presentato ricorso in Cassazione basandosi su due motivi principali:
1. Vizio di motivazione sull’attribuibilità della coltivazione: Sosteneva che, analogamente al caso del garage, non vi fossero prove certe per attribuirgli la coltivazione.
2. Mancanza di offensività: Affermava che la condotta non fosse penalmente rilevante in quanto le piantine non erano idonee a produrre un effetto drogante concreto.
La Corte di Cassazione ha rigettato il ricorso, dichiarandolo inammissibile, con argomentazioni chiare e in linea con i suoi orientamenti più consolidati.
Le Motivazioni della Corte di Cassazione
### Inammissibilità e Rivalutazione delle Prove
In primo luogo, la Corte ha sottolineato che i motivi del ricorso erano una semplice riproposizione di censure già esaminate e respinte dai giudici di merito, senza una critica specifica alle argomentazioni della sentenza d’appello. Inoltre, il primo motivo mirava a una rivalutazione delle prove, un’attività preclusa al giudice di legittimità, il cui compito è verificare la corretta applicazione della legge e la logicità della motivazione, non riesaminare i fatti.
### La Prova della Coltivazione di Stupefacenti: Prossimità e Ammissione
La Corte ha smontato il parallelo con l’assoluzione per i beni nel garage. La differenza sostanziale risiedeva nella prova. Mentre per il garage la riconducibilità era incerta, il capannone era attiguo all’abitazione dell’imputato. L’elemento decisivo, che il ricorso non aveva neppure affrontato, era la dichiarazione dello stesso imputato, il quale aveva ammesso che quanto rinvenuto nel capannone era di sua esclusiva proprietà. Questa ammissione, unita alla vicinanza fisica, costituiva una prova schiacciante.
### Il Principio di Offensività nella Coltivazione di Stupefacenti secondo le Sezioni Unite
Sul secondo motivo, relativo alla presunta inoffensività della condotta, la Cassazione ha richiamato il fondamentale principio stabilito dalle sue Sezioni Unite (sentenza n. 12348/2019, c.d. “Caruso”). Secondo questo orientamento, il reato di coltivazione di stupefacenti si configura indipendentemente dalla quantità di principio attivo che si può ricavare nell’immediato.
Sono sufficienti due condizioni:
1. La conformità della pianta al tipo botanico vietato dalla legge.
2. L’attitudine della pianta, anche in base alle modalità di coltivazione, a giungere a maturazione e a produrre sostanza stupefacente.
In altre parole, non è necessario che le piantine sequestrate contengano già una dose drogante, ma è sufficiente che abbiano la potenzialità di produrla in futuro. La condotta è punita perché mette in pericolo il bene giuridico della salute pubblica, anticipando la tutela a uno stadio precedente alla produzione effettiva della sostanza.
Conclusioni
L’ordinanza in esame consolida due principi cardine in materia di coltivazione di stupefacenti. In primo luogo, sul piano probatorio, la vicinanza della coltivazione al domicilio dell’indagato e, soprattutto, una sua ammissione di proprietà, sono elementi difficilmente superabili dalla difesa. In secondo luogo, sul piano sostanziale, viene confermato che la rilevanza penale della coltivazione non dipende dalla presenza attuale di principio attivo, ma dalla potenzialità della pianta di produrlo. Questa interpretazione, avallata dalle Sezioni Unite, rende penalmente rilevante anche la coltivazione di un numero limitato di piante, purché idonee a maturare.
Perché il ricorso è stato dichiarato inammissibile?
Il ricorso è stato ritenuto inammissibile perché riproponeva le stesse argomentazioni già respinte nei precedenti gradi di giudizio, senza criticare specificamente la motivazione della sentenza impugnata, e perché chiedeva una nuova valutazione dei fatti, attività non consentita alla Corte di Cassazione.
È necessario che le piante di cannabis abbiano già un principio attivo rilevabile per essere condannati per coltivazione di stupefacenti?
No. Secondo l’orientamento consolidato delle Sezioni Unite della Cassazione, per configurare il reato è sufficiente che la pianta appartenga al tipo botanico vietato e abbia l’attitudine, anche potenziale, a giungere a maturazione e a produrre sostanza stupefacente.
Quali prove sono state decisive per attribuire la coltivazione all’imputato?
Due elementi sono stati decisivi: la circostanza che il capannone con le piante fosse attiguo all’abitazione dell’imputato e, soprattutto, la sua stessa dichiarazione con cui ammetteva che le piante rinvenute erano di sua esclusiva proprietà.
Testo del provvedimento
Ordinanza di Cassazione Penale Sez. 7 Num. 22977 Anno 2025
Penale Ord. Sez. 7 Num. 22977 Anno 2025
Presidente: COGNOME
Relatore: NOME
Data Udienza: 10/06/2025
ORDINANZA
sul ricorso proposto da:
NOME COGNOME nato a SAN SEVERO il 24/02/1985
avverso la sentenza del 07/03/2024 della CORTE APPELLO di BARI
dato avviso alle parti; udita la relazione svolta dal Consigliere NOME COGNOME
MOTIVI DELLA DECISIONE
NOME COGNOME ha proposto ricorso avverso la sentenza della Corte di appello di Bari che ha confermato la sentenza emessa dal gup di Foggia in relazione al reato di cui all’art. 73 d.P.R. 9 ottobre 1990 n. 309 per avere coltivato 136 piantine di cannabis indica, e lo ha affidato a due motivi.
Con il primo deduce vizio di motivazione, sotto il profilo della omessa o contraddittorietà della stessa con riferimento alla attribuibilità della coltivazion all’imputato, laddove già il primo giudice aveva assolto l’imputato dalla detenzione di droga, e armi all’interno di un garage, rilevando l’impossibilità di stabilire co certezza la riconducibilità di quanto rinvenuto all’interno del suddetto, stante la detenzione patita dal COGNOME. Con il secondo motivo si lamenta vizio di motivazione in ordine all’inquadramento giuridico della condotta contestata stante la mancanza di offensività della condotta riferita all’idoneità della sostanza ricavata a produrre un effetto drogante rilevabile.
2. Il ricorso è inammissibile.
Entrambi i motivi di ricorso sono riproduttivi di profili di censure già adeguatamente vagliate e disattese con corretti argomenti giuridici dai giudici di merito e non sono scanditi da specifica critica delle argomentazioni poste a base della sentenza impugnata.
Il primo motivo prefigura una rivalutazione delle fonti probatorie, estranea al sindacato di legittimità. La Corte territoriale ha messo in evidenza come l’assoluzione dell’imputato per il reato di detenzione di sostanze stupefacente e delle armi aveva trovato la propria ragion d’essere nella circostanza che il garage all’interno del quale risultavano custodite fosse di proprietà di una ditta di cui era socio tale NOME COGNOME che l’aveva affittato a tale COGNOME NOME. Il COGNOME consegnava la copia del documento di identità sul quale, tuttavia, era riportata la fotografia del COGNOME, il quale frattanto il 25 aprile 2017 veniva tra in arresto per rapina impropria e resistenza a pubblico ufficiale e poi, il 27 aprile 2017 posto agli arresti domiciliari presso il suo domicilio sito in INDIRIZZO sito in San Severo. Proprio nel capannone posto nelle adiacenze della sua abitazione venivano rinvenute le 136 piantine di cannabis indica di altezza variabile tra i 6 e i 9 centimetri, collocate in quattro plateau di polistirolo, tipicamente usati in agricoltura, nonché sei bicchieri di plastica di medie dimensioni contenenti sei piantine della medesima sostanza. Dunque, a differenza del garage, il capannone era attiguo all’abitazione del Carovilla. Con ciò il ricorso non si confronta ma, soprattutto, non si confronta con quanto si legge a pagina 5 della motivazione
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laddove si legge che lo stesso COGNOME dichiarava che quanto rinvenuto e menzionato rientrava nella sua esclusiva proprietà.
Del pari manifestamente infondato è il secondo motivo.
La motivazione sul punto è esaustiva e congruamente argomentata. La Corte territoriale, invero, ha fatto buon governo dei principi sanciti da questa Corte in tema di coltivazione di sostanze stupefacenti.
Proprio le Sezioni Unite di questa Corte (Sez. U, n. 12348 del 19/12/2019, dep. 16/04/2020, COGNOME, Rv. 278624 – 02) hanno chiarito che «il reato di coltivazione di stupefacenti è configurabile indipendentemente dalla quantità di principio attivo ricavabile nell’immediatezza, essendo sufficienti la conformità della pianta al tipo botanico previsto e la sua attitudine, anche per le modalità di coltivazione, a giungere a maturazione e a produrre sostanza stupefacente».
Alla inammissibilità del ricorso segue la condanna del ricorrente al pagamento delle spese processuali e, non sussistendo ipotesi di esonero, al versamento di una somma alla Cassa delle ammende, determinabile in euro tremila, ai sensi dell’art. 616 cod. proc. pen.
P.Q.M.
Dichiara inammissibile il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese processuali e della somma di euro tremila in favore della Cassa delle ammende.
Deciso il 10 giugno 2025
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