Sentenza di Cassazione Penale Sez. 3 Num. 14118 Anno 2025
Penale Sent. Sez. 3 Num. 14118 Anno 2025
Presidente: COGNOME
Relatore: NOME COGNOME
Data Udienza: 12/03/2025
SENTENZA
sul ricorso proposto da NOME COGNOME nato a San Felice a Cancello il 28/09/1968, avverso la sentenza del 09/05/2024 della Corte di appello di Napoli; visti gli atti, il provvedimento impugnato e il ricorso; udita la relazione svolta dal consigliere NOME COGNOME letta la requisitoria rassegnata dal Pubblico Ministero, in persona del Sostituto Procuratore generale dott.ssa NOME COGNOME che ha concluso per l’inammissibilità del ricorso.
RITENUTO IN FATTO
Con sentenza del 30 novembre 2022, il Tribunale di Santa Maria Capua Vetere, all’esito di giudizio abbreviato, condannava NOME COGNOME alla pena di anni due di reclusione ed euro 4.000,00 di multa, concedendo il beneficio della pena sospesa e disponendo confisca e distruzione della sostanza stupefacente in sequestro, in quanto ritenuto colpevole del reato di cui all’art. 73 d.P.R. n. 309 del 1990, per aver coltivato all’interno di un campo di granoturco, concesso in locazione all’imputato e situato nei pressi della sua abitazione in Santa Maria a Vico, INDIRIZZO, sostanze stupefacenti del tipo marijuana, in particolare n. 29 piante di altezza variabile tra i 2,5 e i 3 metri, contenenti lo 0,54% di peso in THC, senza adempiere alle prescrizioni di cui alla legge n. 242 del 2016, in quanto non adempiva gli obblighi previsti dall’art. 3 della predetta legge in ordine alla conservazione dei cartelli e delle fatture di acquisto della semente.
Con sentenza in data 9 maggio 2024, la Corte di appello di Napoli, previo riconoscimento delle circostanze attenuanti generiche, rideterminava la pena in mesi dieci, giorni venti di reclusione ed euro 3.000,00 di multa, confermando, nel resto, la sentenza di primo grado.
Avverso la sentenza della Corte di appello di Napoli, NOME COGNOME tramite il difensore, ha proposto ricorso per cassazione, sollevando tre motivi.
2.1 Con il primo motivo deduce violazione di legge e difetto di motivazione con riferimento all’art. 73 d.P.R. n. 309/1990: carenza di motivazione, manifesta illogicità della stessa e travisamento della prova in ordine alla valutazione fornita in merito all’attribuibilità della coltivazione; travisamento della prova.
Deduce la difesa che il terreno ove insisteva la piantagione di marijuana era lontano centinaia di metri dalla sua abitazione, era separato dalla sua azienda agricola e, seppur nella sua disponibilità, era accessibile da più punti direttamente da una strada pubblica – circostanza sottaciuta dal giudice di appello -, per cui chiunque avrebbe potuto seminare cannabis, celandosi all’interno delle piantagioni già esistenti, tanto che l’imputato aveva riferito all P.G. della presenza di giovani sul terreno, che lo avevano minacciato, intimandogli di astenersi dal denunciare l’accaduto, sicchè, temendo ritorsioni, essendo proprietario di un’azienda agricola situata in zona isolata, con prodotti agricoli e mezzi esposti alla pubblica fede, non aveva denunciato i fatti. Deduce ancora la difesa che le piante di cannabis non erano visibili al di fuori del campo di mais, poiché le piante di mais erano distanziate di dieci centimetri l’una dall’altra e raggiungevano altezze elevate simili a quelle di cannabis, sicchè era inverosimile ritenere che si potessero individuare dall’esterno le piante di
marijuana in numero di ventinove, anche perché le piante di mais, irrigate dall’esterno, richiedevano un raro accesso al fondo.
Lamenta, pertanto, che le considerazioni espresse dalla Corte di appello mancassero di contenuto logico, discostandosi significativamente dalle evidenze processuali.
2.2.1 Con la prima doglianza del secondo motivo deduce violazione di legge e difetto di motivazione con riferimento agli artt. 73 d.P.R. n. 309/1990, 2 e 49 cod. pen.: carenza di motivazione, manifesta illogicità della stessa e travisamento della prova in ordine alla valutazione fornita in ordine alla valutazione fornita in merito alla rilevanza penale della condotta del ricorrente.
Deduce la difesa che la consulenza redatta su incarico del P.M. concludeva per la mancanza di rilevanza penale della coltivazione, essendo il principio attivo (THC) contenuto nelle piante in sequestro inferiore allo 0,6%, conformemente a quanto disposto dalla legge n. 242 del 2016 che prevede la liceità della coltivazione della canapa a condizione che il contenuto di THC non superi lo 0,2% e tollera fino a un massimo dello 0,6%. Sostiene poi la difesa che la mancata conservazione di fatture e cartellini fosse priva di valenza fattuale, omettendosi di valutare che l’obbligo di conservazione non potesse estendersi oltre i dodici mesi e la piantagione insisteva sul fondo da oltre un anno.
In definitiva, il basso contenuto di THC riscontrato nell’esame delle piantagioni impedisce di far rientrare la condotta dell’imputato nelle fattispecie punite dal d.P.R. n. 309/1990, poiché tale contenuto era depenalizzato dalla normativa vigente sulla coltivazione della “cannabis light”.
2.2.2 Con la seconda doglianza del secondo motivo deduce carenza di motivazione, manifesta illogicità della stessa e travisamento della prova in ordine alla valutazione fornita in merito all’offensività della condotta criminosa; violazione degli artt. 2 cod. pen., 73 d.P.R. n. 309 del 1990, 4 e 5 I. n. 242 del 2016.
Sostiene la difesa che, nella sentenza impugnata, non si era tenuto conto della inidoneità dell’effetto drogante delle piante coltivate che determinava l’insussistenza del reato, essendo la condotta al più riconducibile nell’illecito amministrativo, essendo palese l’assenza di elementi concreti attestanti un reale pericolo per la collettività, in ragione del basso contenuto di THC delle piante coltivate e della scarsa qualità delle stesse.
In ogni caso, la condotta si collocava nell’ambito di applicazione della legge n. 242 del 2016, la quale prevede che, per le foglie con principio attivo compreso tra lo 0,2% e lo 0,6%, non sussista alcuna responsabilità per l’agricoltore, ed anche nel caso di superamento di tale soglia era previsto il sequestro della merce, ma non si configurava alcuna responsabilità penale, così chiarendo
inequivocabilmente che la condotta contestata all’imputato non fosse suscettibile di rilevanza penale.
2.3 Con il terzo motivo deduce violazione di legge e difetto di motivazione con riferimento all’art. 73, comma 5, d.P.R. n. 309/1990.
Deduce la difesa che la condotta contestata al ricorrente rispondesse chiaramente ai criteri di lieve entità, considerando non solo il rispetto dei parametri fissati dalla legge 242 del 2016 per la coltivazione della canapa industriale, ma anche l’assenza di una significativa capacità drogante della sostanza oggetto di contestazione. Aggiunge la difesa che il terreno su cui erano state coltivate le piante di canapa era secco, condizioni che ben potevano influire in modo significativo sulla coltivazione e, di conseguenza, sulle caratteristiche delle piante stesse, né vi erano riscontri sulle specifiche tecniche di coltivazione attribuite al ricorrente.
CONSIDERATO IN DIRITTO
Il primo motivo di ricorso è manifestamente infondato, in quanto il ricorrente, non confrontandosi specificamente con la motivazione della sentenza impugnata, si limita a sollecitare questa Corte a un rinnovato esame degli elementi probatori raccolti nel corso del giudizio, mediante un confronto diretto con gli stessi.
Secondo il costante orientamento della giurisprudenza di legittimità, tuttavia, esula dai poteri della Corte di cassazione quello di una diversa lettura degli elementi di fatto posti a fondamento della decisione, la cui valutazione è riservata in via esclusiva al giudice di merito senza che possa integrare vizio di legittimità la mera prospettazione di una diversa valutazione delle risultanze processuali ritenute dal ricorrente più adeguate (Sez. U, n. 6402 del 02/07/1997, COGNOME, Rv. 207944) ovvero l’omessa valutazione di una tesi alternativa a quella accolta dalla sentenza di condanna impugnata, senza indicare precise carenze od omissioni argomentative ovvero illogicità della motivazione di questa, idonee ad incidere negativamente sulla capacità dimostrativa del compendio indiziario posto a fondamento della decisione di merito (Sez. 2, n. 30918 del 07/05/2015, COGNOME, Rv. 264441).
Sono, infatti, precluse al giudice di legittimità la rilettura degli elementi di fatto posti a fondamento della decisione impugnata e l’autonoma adozione di nuovi e diversi parametri di ricostruzione e valutazione dei fatti, indicati dal ricorrente come maggiormente plausibili o dotati di una migliore capacità esplicativa rispetto a quelli adottati dal giudice del merito (Sez. 6, n. 5456 del
4/11/2020, F., Rv. 280601-1; Sez. 6, n. 47204 del 07/10/2015, COGNOME, Rv. 265482).
La Cortè di merito, nel disattendere le analoghe censure formulate con l’atto di appello, ha, non illogicamente, ricondotto al ricorrente la coltivazione di marijuana, poiché impiantata su terreno, collocato ad una distanza di circa 200300 metri dalla abitazione dell’imputato, del quale costui aveva la disponibilità, tanto da averlo adibito alla coltivazione di granturco, per la cui irrigazione aveva installato un apposito canale. Non poteva allora sostenersi l’inconsapevolezza della piantagione di marijuana, in conseguenza di un raro accesso al fondo ed attribuire ad estranei la piantagione per la possibilità di accedere al terreno anche, e da più punti, dalla strada pubblica, avendo la Corte di merito puntualizzato come lo sviluppo delle piante di marijuana rinvenute sul fondo presupponeva una cura costante ed elevate competenze tecniche, nonché un’adeguata irrigazione che – riporta il giudice di primo grado – non poteva non essere effettuata con l’impianto di irrigazione del ricorrente, perché altrimenti si sarebbe reso necessario un movimento continuo da e verso il terreno che avrebbe allarmato anche i proprietari dei fondi confinanti, sicchè non poteva logicamente affermarsi che il ricorrente si fosse solo di recente accorto della presenza di estranei intenti a coltivare la piantagione. Né – prosegue la Corte di Napoli – poteva logicamente sostenersi il tollerare che altri facesse un utilizzo illecito del proprio fondo, tanto più che chi intende avviare una coltivazione illegale si avvale di fondi abbandonati o comunque incolti, onde evitare di essere scoperti, incorrendo in responsabilità penali.
A fronte di tanto, come anticipato, le doglianze, non confrontandosi adeguatamente con le non illogiche ragioni poste a base delle conformi pronunce di merito che si saldano in un unico corpo motivazionale, tendono a rivalutare il compendio probatorio, proponendo una inammissibile ricostruzione alternativa delle emergenze processuali.
Il secondo motivo, incentrato sulla mancanza di efficacia drogante della marijuana sequestrata e sull’applicabilità della legge n. 242 del 2016 sulla liceità della coltivazione della canapa, è manifestamente infondato.
La fattispecie in esame rientra nella casistica oggetto della pronuncia delle Sezioni Unite della Corte di legittimità, dove è stato affermato e anche da ultimo ribadito da Sez. 4, n. 17558 del 09/04/2024, Danese, che la cessione, la vendita e, in genere, la commercializzazione al pubblico dei derivati della coltivazione di cannabis sativa L., quali foglie, inflorescenze, olio e resina, integrano il reato di cui all’art. 73 d.P.R. 9 ottobre 1990, n. 309, anche a fronte di un contenuto di THC inferiore ai valori indicati dall’art. 4, commi 5 e 7, legge 2 dicembre 2016, n.
242, salvo che tali derivati siano, in concreto, privi di ogni efficacia drogante o psicotropa, secondo il principio di offensività (Sez. U., n. 30475 del 30/05/2019, COGNOME, Rv. 275956).
Infatti, la legge in questione qualifica come lecita unicamente l’attività di coltivazione di canapa delle varietà iscritte nel Catalogo comune delle varietà delle specie di piante agricole, ai sensi dell’art. 17 della direttiva 2002/53/CE del Consiglio, del 13 giugno 2002, per le finalità tassativamente indicate dall’art. 2 della predetta legge, vale a dire per la realizzazione dei prodotti indicati nell’art. 2, comma 2, nonché per l’autoproduzione aziendale di energia da biomassa.
In tale sentenza si è chiarito, dunque, come l’ambito di applicabilità della legge n. 242 del 2016 sia quello della coltivazione, allo scopo di evitare di criminalizzare i casi in cui la cultura, nel corso di maturazione, presenti una percentuale di THC superiore al valore soglia indicato nel medesimo testo normativo; percentuale che potrebbe essere dovuta a cause naturali non prevedibili e comunque indipendenti rispetto alla condotta del coltivatore. L’art. 4, comma 5, legge n. 242/2016, stabilisce, infatti, che in questi casi nessuna responsabilità possa essere posta a carico dell’agricoltore che abbia rispettato le prescrizioni di legge e l’art. 4, comma 7, nel prevedere la possibilità che vengano disposti il sequestro o la distruzione delle coltivazioni di canapa che, se pure impiantate nel rispetto delle disposizioni stabilite dalla legge, presentino un contenuto di THC superiore allo 0,6%, ribadisce, anche in tal caso, che la responsabilità dell’agricoltore è esclusa.
Muovendo da queste premesse le Sezioni unite hanno sostenuto che le richiamate percentuali di THC non possono essere valorizzate al fine di affermare la liceità della commercializzazione dei derivati dalla coltivazione della cannabis sativa L., ove contenenti percentuali inferiori allo 0,6 o allo 0,2% e hanno concluso che la commercializzazione di cannabis sativa L. o dei suoi derivati, diversi da quelli elencati dalla legge del 2016, può integrare il reato di cui all’art. 73, commi 1 e 4, T.U. Stup., anche quando il contenuto di THC sia inferiore alle concentrazioni indicate all’art. 4, commi 5 e 7, della legge del 2016. Resta salva la verifica della concreta offensività del fatto e, quindi, della capacità drogante della sostanza, intesa quale attitudine a provocare o meno effetti psicogeni.
2.1 La sentenza impugnata ha fatto corretta applicazione di questi principi, affermando che, nel caso in esame, la coltivazione fosse estranea alle finalità indicate dall’art. 2 I. n. 242 del 2016, ma fosse invece destinata a finalità di spaccio: non erano state, infatti, esibite le fatture di acquisto delle sementi, che l’art. 3 I. n. 242 del 2016 impone di conservare per il periodo previsto dalla normativa vigente, impedendo così di risalire alla provenienza delle stesse e di ricostruirne la tracciabilità, né – prosegue non illogicamente la Corte distrettuale
il ricorrente aveva sostenuto di aver intrapreso la coltivazione per finalità industriale, affermando, al contrario, di non essere a conoscenza della coltivazione impiantata sul fondo posseduto.
2.2 Quanto al principio di offensività, la Corte di legittimità, nel suo più autorevole consesso (Sez. U, n. 12348 del 19/12/2019, dep. 2020, COGNOME, Rv. 278624 – 02), ha affermato che il reato di coltivazione di stupefacenti è configurabile indipendentemente dalla quantità di principio attivo estraibile nell’immediatezza, essendo sufficienti la conformità della pianta al tipo botanico previsto e la sua attitudine, anche per le modalità di coltivazione, a giungere a maturazione e a produrre sostanza ad effetto stupefacente, restando esclusa, per mancanza di tipicità, quella condotta di coltivazione che, in assenza di significativi indici di un inserimento nel mercato illegale, denoti un nesso di immediatezza oggettiva con la destinazione esclusiva all’uso personale, in quanto svolta in forma domestica, utilizzando tecniche rudimentali e uno scarso numero di piante, da cui ricavare un modestissimo quantitativo di prodotto.
Nel caso di specie, diversamente da quanto sostenuto in ricorso, i giudici di merito, le cui decisioni si saldano tra loro, ricorrendo una ipotesi di doppia conforme, hanno non illogicamente ritenuto che non era configurabile una coltivazione domestica finalizzata alla esclusiva destinazione all’uso personale, tenuto conto del considerevole numero delle piante, dello stato di sviluppo delle stesse, delle tecniche di irrigazione e coltivazione adoperate, infine del loro occultamento in fondo coltivato a granturco. Per altro verso, illustra il giudice di primo grado come il quantitativo lordo di sostanza vegetale detenuto dal ricorrente, seppure al di sotto della soglia di purezza dello 0,6%, essendo la percentuale di THC dello 0,54%, era pari a 4.275 grammi, sicchè certamente dotato di efficacia drogante. La decisione impugnata, pertanto, nel definire la vicenda estranea all’ambito strettamente agricolo, si è posta in linea con le direttive interpretative tracciate da questa Corte.
Il terzo motivo di ricorso è inammissibile, perché riferito a dati fattuali, a fronte di una motivazione che – in modo logico e coerente – esclude la particolare tenuità del fatto, in considerazione di una valutazione globale afferente alla quantità e tipologia di stupefacente rinvenuto, alla dimensione dell’attività di spaccio, alle tecniche adoperate e ad eventuali collegamenti con un più ampio mercato, elementi che assumono carattere ostativo alla configurabilità della fattispecie di minore gravità di cui al comma 5 dell’art. 73 del d.P.R. n. 309 del 1990.
4. All’inammissibilità del ricorso consegue, ex
art. 616 c.p.p., la condanna del ricorrente al pagamento delle spese processuali e, in assenza di profili idonei
ad escludere la colpa nella determinazione della causa di inammissibilità, al versamento, in favore della Cassa delle ammende, di una somma che appare
equo determinare in euro tremila, esercitando la facoltà introdotta dall’art. 1, comma 64, I. n. 103 del 2017, di aumentare oltre il massimo la sanzione
prevista dall’art. 616 cod. proc. pen. in caso di inammissibilità del ricorso, considerate le ragioni dell’inammissibilità stessa come sopra indicate.
P.Q.M.
Dichiara inammissibile il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese processuali e della somma di euro tremila in favore della Cassa delle
ammende.
Così deciso il 12/03/2025.